CANNA, Giovanni
Nato a Casale Monferrato il 20 dic. 1832, di famiglia agraria facoltosa, ma gens de robe (ilpadre, Carlo, era magistrato nel mandamento di Gabiano, dove possedeva terre), venne indirizzato dalla madre, Angela Zucco, al culto dei classici e della poesia. Compiuti gli studi medi al ginnasio-liceo della città natale, il giovane s'iscrisse nel 1849 alla facoltà di lettere dell'università di Torino, dove si addottorò il 7 luglio 1853. Nessun ricordo preciso il C. lasciò dei suoi insegnanti, pur attestando riverenza al Gorresio, che gli elogiò la versione dello pseudo-Longino, e pur iscrivendo anche al nome di Tommaso Vallauri la propria conferenza virgiliana dell'83. Il C., d'altronde, non tacque, nel '73 l'"inopia dei sussidii, la quale venti anni fa stringeva lo studioso di filologia greca in Italia, anche a Torino, dove pure vissero due dei maggiori ellenisti nostrali di questa età, Luigi Ornato e Amedeo Peyron" (Scritti, p. 21):non mai menzionato quest'ultimo, mentre dell'Ornato è presso il C. frequente ricordo.
Perché il C., al quale un disgraziato accidente giovanile tolse l'uso d'un occhio e la possibilità, conseguentemente, di servir da soldato, non pure fu per tutta la sua lunghissima vita un uomo del Risorgimento, ma fu di quei piuttosto rari Piemontesi profondamente consapevoli dell'impegno culturale, del dovere d'incivilimento che l'iniziativa italiana e il liberalismo cavouriano imponevano alla monarchia sabauda, per troppi aspetti arretrata ancora, e non poco, rispetto al resto d'Italia. Perciò, quanto fu scevro di provincialismi, altrettanto il C. fu pensoso e consapevole della necessità di una europeizzazione del Piemonte risorgimentale e dell'Italia unitaria e post-unitaria. Lo confortava in questo convincimento il concittadino e coetaneo Chiaffredo Hughues, già allievo del Böckh a Berlino e a Bonn del Ritschl, morto nel 1860 e commemorato dal C. nel 1872.
Iniziato oscuramente l'insegnamento medio nel novembre 1853 a Crescentino, fu tra il 1858 e il 1860 professore al ginnasio superiore di Casale, quindi per undici anni (1860-71) professore di lettere greche e latine e per i cinque successivi (1871-76) di lettere italiane al liceo Cesare Balbo della sua città, dov'ebbe colleghi e amici Isidoro Del Lungo e Stefano Grosso, da lui più volte rammentati con affettuoso elogio. Frattanto la versione (Firenze 1871) dello pseudo-Longino contribuì a renderlo noto non solo nella cerchia tosco-neoguelfa (Lambruschini, Michele Ferrucci, Tommaseo, Cesare Guasti, ecc.), ma presso il Mommsen, che si era valso in Casale della sua competenza epigrafica, e fece recensire (nel 1872) il volgarizzamento da R. Schoell (in Göttingische gelehrte Anz.)e da F. Blass (in Philologischer Anz.), non senza stupirsi con universitari italiani per i troppo scarsi e troppo lenti successi "accademici" del C. (cfr. Malcovati, Un maestro..., in Fragmina, pp. 50 s.).Questi, "in seguito a eleggibilità conseguita in concorso per la cattedra di letteratura greca all'università di Pisa, e a giudizio favorevole di una commissione nominata dal Consiglio Superiore di Pubblica Istruzione", fu quindi nominato professore straordinario di letteratura greca all'università di Pavia il 30 ott. 1876, e cinque anni più tardi promosso ordinario.
Gli anni settanta, né solamente per necessità pratiche o concorsuali, ma per il proposito di avviare a una meta educativa e civile gli studi classici della nuova Italia, furono gli anni della maggiore attività o "produzione" letteraria del C.; quando più energicamente ed efficacemente venne propugnando i suoi interessi storico-critici ed il suo metodo (donde anche la sua frequente collaborazione alla testé sorta, né ancora filologisticamente o tecnicisticamente impigrita, Rivista di filologia).
Il volgarizzamento del Sublime rivela, per un verso, la scarsa storicità, o dialettica storica, del C., il quale, perfettamente consapevole dell'insostenibilità dell'attribuzione del trattatello a Longino e al III sec. d. C., né solo in seguito alla "scoperta" contestuale di Girolamo Amati, esita, peraltro, a individuare, e soprattutto ad accogliere, le ragioni dirimenti che impongono di datare l'Anonimo all'età augustea (comunque non oltre la metà del I sec. d. C.). Ma, per altro verso, anche rivela la perizia letteraria del C., buon artefice di versi (massime nella versione felicissima della seconda ode di Saffo), nonché la sua cultura filosofica, onde il C. resta il primo forse degli interpreti del Vico in chiave "longiniana" (o, più genericamente, degli esegeti vichiani consapevoli dell'importanza che il trattatello del Sublime ha nella speculazione del filosofo napoletano). Poco di poi, un saggio esiodeo (al quale il C. affiancava una elegante versione poetica del poemetto) chiariva l'impegno programmatico e metodico del Canna. Mentre rendeva omaggio agli avanzamenti della filologia classica germanica nel sec. XIX, che era, in ultima analisi, ne fosse o non ne fosse appieno consapevole il C., la filologia dell'età romantica e dell'idealismo, e nulla aveva perciò di comune con la filologia del positivismo, importata poi di peso e ad occhi chiusi fra noi, il C. asseriva, peraltro, la necessità di consertare "l'interpretazione estetica e l'interpretazione filologica", togliendo, anzi, ogni differenza tra esse. Negava pertanto, e altresì, che all'interpretazione estetica fossero più adatti gli italiani e all'interpretazione filologica i tedeschi, rifacendosi, per meglio fondar codesta negazione, all'esempio del Vico.
Troppo esperto, d'altronde, era il C. di lettere e cose italiane per accedere all'aberrazione frequente, e tosto imperante, d'una presunta inesistenza d'una nostrale tradizione filologica dopo il remoto miracolo del Rinascimento. In quegli anni medesimi, e segnatamente sulla Rivista di filologia, il C. venne anzi rivendicando il retaggio classico e classicistico italiano come un elemento essenziale del nostro Risorgimento - e quest'ultimo come la riprova dell'"utilità" della "istruzione classica". Il C., pur ammiratore dell'Ornato e del Santarosa, andava raccomandando frattanto, e altresì, la sollecita, integrale pubblicazione degli scritti filologici del Leopardi - e, se era troppo benigno nel giudicar l'anti-leopardismo del Tommaseo, non taceva l'omaggio dovuto ad Antonio Ranieri (benché successivamente deplorasse l'errore infelicissimo di quest'ultimo nello scrivere, e soprattutto nel pubblicare, il racconto del Sodalizio; cfr. Scritti, pp. 264, 386 s.). Analogamente, ascritto, per probabile commendatio del Momsen, fra i soci corrispondenti dell'Istituto archeologico germanico, più che l'opera individua di quei dotti celebrò l'internazionalismo scientifico che presiedette alla fondazione e all'attività dell'Istituto, e la collaborazione da esso ricercata di dotti stranieri, in primo luogo italiani.
Conforme al precetto e alla premessa del suo saggio esiodeo: "non sarà mai atto espositore e giudice di lettere classiche chi non abbia senso e perizia dell'arte e della bellezza" (Scritti, p. 21), il C. fu interprete finissimo e felicissimo dell'umanità, soavità e melanconia virgiliane, compiacendosi, come già il Tommaseo, di congiungere il nome di Virgilio a quello (dal C. veneratissimo sempre) di Alessandro Manzoni: che voleva, o avrebbe potuto voler dire, in un'età ormai infausta all'intelligenza della "poesia" virgiliana (e della "poesia" in genere, massime poi se poesia "di tradizione" o poesia "classica" e "latina"), affrancar la critica dal duplice pregiudizio e dell'esaltazione cesareo-retorica (per tarda eco franco-saintebeuviana) e della condanna fontaniero-germanicizzante (cui soprattutto, o primamente, peraltro, contribuì il nostro Sabbadini).
Appunto quest'educazione e rivendicazione "letteraria" della classicità e della poesia resero tosto inattuale, e ridussero sostanzialmente al silenzio, il C., cui è perciò singolare che soprattutto colleghi e allievi pavesi abbiano quasi rimproverato la scarsa produttività.
Quanto più si consumava il dissidio tra filologia e letteratura, quanto più si perdevano il gusto e il senso della poesia, la consapevolezza della pertinenza e rilevanza della poesia ai fini dell'analisi filologico-mitica, tanto più antiquato e solitario, e insomma stravagante o peggio, doveva parere ai suoi contemporanei il C., pur socio dal 1880 dell'Istituto lombardo e ascritto alla Crusca dal 1896: il quale non si peritava d'irridere e si rifiutava di "imitare quei professori che anco fuori della scuola portano sempre la cattedra con sé, come la chiocciola il guscio" (Scritti, p. 109) e il "professore" desideravano remoto dalla politica e confinato nello "specialismo".
Ora il C., se, per un verso, amava descriversi "unicamente intento agli studi e all'insegnamento delle lettere classiche", per altro verso asseriva essere suo diritto e dovere d'insegnante universitario "l'accostarsi agli studenti tumultuanti per ricondurli a migliori consigli, massime quando nel sentimento che commove i giovani, come per lo più avviene, sia qualcosa di giusto e di generoso, e anco quando irragionevole sia il tumulto; e perché nessuna legge né morale né civile lo vieta; e perché le relazioni tra studenti e professori sono affettive e non soltanto disciplinari" (Della recente agitazione universitaria a Pavia, Casale 1885, pp. 4, 10).
Perciò rimase tutta la vita culturalmente, né soltanto culturalmente, un risorgimentista neo-guelfo: poco sensibile, nonostante il classicismo (o in virtù del suo classicismo), alla poesia "barbara", che disse riuscita al solo Carducci, ma riverente e fedele alle idealità e personalità del Risorgimento. Devoto, quindi, ad ogni poesia, ad ogni patria infelice (Grecia e Polonia innanzi a tutte), ad ogni sacrificio per la libertà. Ferventissimo filelleno, preferì la lingua e poesia popolare neo-greca (anche per certo suo populismo romantico) alla lingua dotta e studiò e tradusse, altresì per i loro addentellati italo-foscoliano-lombardi, Valaoritis, Marcoras, Dionisio Solomòs. Celebrò nel Tommaseo il figlio e poeta di due patrie, né trascurò di affiancare ai suoi studi "classici" ricerche di letteratura italiana e dantesca, nonché generose rievocazioni, consapevolmente oratorio-morali, più che propriamente critiche, di uomini, poeti e fatti del Risorgimento (Pellico, Mameli, Santarosa, Luigi Ornato, Giuseppe Bertoldi, le Dieci giornate di Brescia, ecc.).
Perciò fu maestro indimenticabile e in Pavia amatissimo, mentre l'Italia quasi lo considerava un rudere o un sopravvissuto; e, conservato all'insegnamento oltre i limiti di età (benché sembri improbabile di doverne attribuire il merito all'intervento del Carducci), fece lezione sino al 5 febbr. 1915, ritirandosi poi nella sua casa di campagna a Gabiano di Monferrato, dove la notte fra il 19 e il 20morì. Alle esequie celebrate in Casale il 22 febbraio, espressero il cordoglio degli allievi e dei colleghi Carlo Pascal, Vittorio Puntoni ed E. Comello, il quale riuscì poi ad assicurare al Comune e alla biblioteca civica di Casale i ventimila volumi di classici e di poeti antichi e moderni raccolti dal C., quasi a perpetua testimonianza dell'esemplare esistenza di questo umanista risorgimentale italiano.
I libri e le carte del C. sono nella biblioteca civica di Casale Monferrato. I suoi scritti pressoché tutti (unica eccezione notabile, oltre i recenti Fragmina, l'opuscolo sopra citato Della recente agitazione universitaria)furono raccolti nel volume postumo Scritti letterarii (con introduzione di C. Pascal e il discorso funebre di E. Comello), Casale 1919 (in appendice una preziosa raccolta di lettere al C., da lui medesimo apprestata e pubblicata per le nozze d'un suo nipote, Pavia 1906). Disgraziatamente l'edizione è scorrettissima e non si è affiancato al volume degli Scritti letterarii il promesso volume delle lettere scritte dal C. e a lui indirizzate.
Vi supplisce parzialmente la scoperta di Olimpio Musso, il quale fra le carte del C. ha rinvenuto i Fragmina, o fogli di diario, d'ispirazione prevalentemente etico-politico-religiosa, e ne ha stampato un'ampia scelta nel volumetto composito G. C., Torino 1969, affiancandovi, con la riedizione del discorso sotto citato di E. Malcovati (pp. 45-63), contributi (originali o ristampati) di G. Reggio (pp. 43-44), L. Alfonsi (pp. 65-74), B. Lavagnini (pp. 75-77) e G. Zoras (pp. 79-83).
Fonti e Bibl.: Oltre talune testimon. insigni di contemporanei (per es. I. Del Lungo, Patria italiana, I, Bologna 1909, p. 516; G. Carducci-I. Del Lungo, Epistolario, Firenze 1939, pp. 333 s., donde G. Carducci, Lettere, XXI, Bologna 1960, p. 180; M. Vanni, Epigrammi ined., Ferrara 1921, p. 179), veggansi le commem. di C. Pascal, in Rend. d. R. Ist. lomb., XLIX (1916), pp. 404-427 (rist. a proemio degli Scritti letterarii, cit., pp. 1 ss.), e di P. Rasi, In mem. di G. C., in Atti d. Ist. veneto, LXXIV (1914-15), 1, pp. 59-62, nonché il saggio di B. Croce, in Letter. della nuova Italia, V, Bari 1939, pp. 383-386 (il Croce ricordò anche un sapido e tagliente motto polemico del C. contro due giovani e irriverenti suoi colleghi pavesi: Pagine sparse, III, Bari 1960, p. 270) e il discorso di E. Malcovati, Un maestro di greco e di umanità: G. C., in Atene e Roma, n.s., XI (1966), pp. 110-124 (con minore bibl. e un'importante lettera inedita del C. al poeta ticinese Francesco Chiesa, 10 ott. 1897). In margine alla pubblicazione dei Fragmina, cfr. G. Devoto, in Il Corriere della sera, 27 dic. 1969; E. Malcovati, in Rend. d. Ist. lomb., CIV(1970), pp. 90-96; G. Odalenghi, in La vita casalese, 12 febbr. 1970; P. Treves, Omaggio tardivo a G. C., in Rassegna pugliese, V (1970), pp. 352-356. Infine, per la critica vichiano-"longiniana" del C., cfr. G. Costa, G. B. Vico e lo Pseudo Longino, in Giorn. crit. d. fil. ital., XLVII (1968), p. 505.