CARACCIOLO, Giovanni (Sergianni)
Nato a Napoli da Troiano e Maria Caldora nella prima metà del sec. XV, successe ancor giovane (1449) al padre, da cui ereditò il ducato di Melfi. Nel 1452 partecipò alla giostra organizzata a Napoli nella via dell'Incoronata in onore dell'imperatore Federico III, reduce da Roma, ove il 15 marzo era stato incoronato da Niccolò V. Prendendo occassione dalle distruzioni causate a Melfi dal terremoto del 1456, egli la munì di fortificazioni imponenti.
Alla morte di Alfonso I d'Aragona (27 giugno 1458) il C., insieme con il fratello Giacomo, conte di Avellino, giurò nel luglio fedeltà a Ferrante, che, designato dal padre a succedergli nel Regno, ottenne poco dopo l'investitura da Pio II. Il 25 dello stesso mese il C. prese parte al primo Parlamento convocato dal re, che raggiunse poi il 10 settembre a Teano, dove Ferrante aveva messo il campo per fronteggiare i primi moti dei baroni ribelli. Il 4 febbraio dell'anno successivo presenziò alla incoronazione del sovrano in Barletta. Intanto l'opposizione dei baroni aveva trovato un capo in Giovanni d'Angiò, che, avanzando i diritti del padre, intraprese, salpando da Genova nell'ottobre, la spedizione per tentare la conquista del Regno. Il C. era ancora assolutamente fedele al re, ma già nel dicembre del 1459 e nel gennaio dell'anno successivo sottoscriveva due memoriali, presentati a Ferrante l'uno da Roberto e l'altro da Luca Sanseverino, per ottenerne sgravi particolari e una riforma fiscale generale. Il re acconsentì a quasi tutte le richieste, che, fatte in un momento così difficile per lui, non poterono non assumere un carattere ricattatorio. La conquista di San Severo da parte di Giovanni d'Angiò ai primi di marzo del 1460, con il conseguente sfruttamento della dogana delle pecore, cui gli interessi del C. erano strettamente legati, mise il barone in una difficile situazione finanziaria. Il suo passaggio alla parte avversa era nell'aria, tanto che Mase Barrese, uno dei fedelissimi del re, compì nel maggio frequenti scorrerie nelle terre feudali del C., accusandolo, alle sue proteste, di avere contatti segreti con Giovanni d'Angiò. Fu comunque dopo la vittoria di questo su Ferrante a Samo (7 luglio 1460) che il C. prese partito contro il sovrano. Nel dicembre fece mettere dal fratello Giacomo a disposizione dell'Angiò, che aveva riunito in Puglia le sue forze con quelle di Giacomo Piccinino, il munito castello di Gesualdo (Avellino). Il C. cominciò inoltre non soltanto a difendersi dalle puntate di Mase Barrese, ma anche a contrattaccare, cercando invano di impadronirsi di Venosa. Alla fine del 1461, Ferrante grazie anche all'intervento di Giorgio Scanderbeg in suo favore ed alle conseguenze negative che ebbe per l'Angiò la rivolta avvenuta nel marzo a Genova, aveva superato il momento di crisi provocato dalla battaglia di Samo, e il C., che pure aveva messo a disposizione del duca Giovanni due squadre di cavalieri, cominciò a riavvicinarsi a lui. Nel gennaio dell'anno successivo il duca di Melfi era comunque a Genzano (Potenza) con gli altri Angioini, quando l'esercito del re, piombato sul campo nemico, lo disfece. Il C. trovò allora rifugio in Oppido Lucano. Dopo la battaglia di Troia (18 ag. 1462), che determinò il tracollo delle.speranze angioine con la dispersione delle forze del duca Giovanni, il C., che si era in quell'occasione salvato calandosi dalle mura della città per mezzo di lenzuola annodate, si sottomise nel settembre al sovrano, dopo che il suo feudo di Candela aveva subito la conquista e il saccheggio da parte dell'esercito regio. Ottenne ben presto il perdono da Ferrante, che gli restituì poco dopo i feudi, pur con la proibizione di tenete presso di sé uomini armati.
Successivamente il C. rimase per parecchi anni nell'ombra, emergendone appena nel 1466 per un suo ricorso all'autorità regia contro l'arcivescovo di Napoli, cui era affidata una causa che lo contrapponeva a Raimondello Gesualdo per il possesso di Ruvo; e nel 1471, quando fu testimone del contratto nuziale fra Pietro de Guevara, marchese di Vasto, e Gisotta Ginevra del Balzo, figlia del duca di Venosa. Il 26 sett. 1472 il C. fu uno dei testimoni alla stipulazione dei patti nuziali fra Isabella d'Aragona e Gian Galeazzo Sforza e all'annullamento del fidanzamento contratto nel 1455 fra Sforza Maria Sforza, firatello del duca di Milano, ed Eleonora, figlia di re Ferrante, che il 1º novembre successivo andò sposa ad Ercole I, a conferma della rinnovata amicizia fra questo e la casa regnante di Napoli. Nel 1477 il C. assolse a un altro incarico ufficiale, accompagnando a Barcellona Alfonso duca di Calabria, che vi si recò per prelevare e per scortare a Napoli Giovanna d'Aragona seconda moglie del padre. Immediatamente dopo il ritorno a Napoli, il C. prese parte alla giostra che si svolse davanti alla chiesa dell'Incoronata in onore del re e della nuova regina.
Nell'estate dell'anno successivo, scoppiata la guerra che opponeva Sisto IV, Ferrante d'Aragona e Siena, già stretti da un patto di alleanza del 17 maggio, a Lorenzo de' Medici sostenuto da Milano e da Venezia, il C. seguì Alfonso nella campagna di Toscana e all'assedio di Colle Val d'Elsa, il 3 ag. 1479, fu ferito da un colpo di spingarda alla coscia. Quando la conquista di Otranto (8 ag. 1480) da parte dei Turchi determinò la partenza di Alfonso dalla Toscana e l'abbandono delle terre ivi conquistate, il C. lo seguì all'assedio della città pugliese, dove si distinse per il suo valore. La città fu riconquistata il 10 sett. 1481. Ma intanto già si veniva delineando una nuova crisi fra le potenze italiane e il 3 maggio 1481 fu dichiarata la guerra, nota come quella di Ferrara, che culminò, anche se non si risolse, nella battaglia di Campomorto (21 ag. 1482). Nella rotta che subirono in essa le armi napoletane, il C. fu fatto prigioniero e condotto a Roma, insieme con altri 350 uomini d'arme, al seguito del vincitore Roberto Malatesta, che entrà nella città trionfalmente il 24 agosto. Il C. riacquistò la libertà dopo un breve periodo di detenzione e nel giugno del 1484 fece parte dell'esercito inviato dal re di Napoli contro i Veneziani, impadronitisi di Gallipoli, che però fu restituita a Ferrante con la pace conclusa a Bagnolo il 7 agosto.
L'anno seguente, cominciate le prime avvisaglie della congiura dei baroni contro il re di Napoli e avvenuta da parte di questo nella primavera la cattura di Raimondo e Roberto Orsini e di Pietro Lalle Camponeschi, un gran numero di baroni si riunì nel castello di Melfi in occasione delle nozze del figlio del C., Troiano, con Ippolita Sanseverino e si vuole che allora si stringessero gli accordi per una opposizione attiva contro il re. Il contegno del C. rimase però ambiguo e nel settembre, dopo la stipulazione del patto di Miglionico fra il re e i baroni, egli si recò a Foggia a rendere omaggio al sovrano, presso il quale rimase per venti giorni. Ebbe così inizio quella contorta politica del C., che finì per condurlo alla rovina. Pur essendo rimasto ufficialmente fedele alla Corona, egli era stato infatti elencato fra i baroni ribelli in una lettera che il gran siniscalco, Pietro de Guevara, aveva inviato nell'agosto alla Repubblica veneta per invitarla a sostenere la rivolta; teneva inoltre inviati personali presso Innocenzo VIII e presso il duca di Lorena, erede dei diritti di Renato d'Angiò. Mentre la congiura si trasformava da lotta interna in guerra fra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, il C. attese, come aveva fatto nella prima rivolta contro Ferrante, ad effettuare scorrerie limitate, volte a strappare al conte di Conza il contado d'Avellino, confiscato nel 1468 al fratello. Nel maggio del 1486 il re gli inviò Francesco Galiota con l'offerta delle terre dell'Avellinese, in cambio della sua pronta partenza per il campo regio a Barletta e della consegna del figlio Troiano in ostaggio. Il C. rispose in modo evasivo e Ferrante fece allora un secondo tentativo offrendo al C. la carica di gran siniscalco in cambio del suo intervento a sostegno del conte di Capua, che avanzava in Puglia. Anche questa volta il C. non aderì alle richieste e fece invece controfferte, sollecitando per un suo intervento non solo ingrandimenti territoriali, ma anche il pagamento anticipato per il suo assoldamento. Non si mosse del resto neanche per fornire un aiuto fattivo ai baroni ribelli. Questo suo atteggiamento di alleato di tutti e di nessuno non doveva però dargli molta tranquillità, poiché nel giugno, mentre le trattative diplomatiche per arrivare alla fine della guerra si intensificavano, egli cercò di ottenere, ma invano, una condotta dalla Serenissima.
Sorprendentemente, dopo la conclusione della pace fra Ferrante e il papa (11 ag. 1486), e la cattura di Francesco Coppola e di Antonello Petrucci, il C. prese partito e accettò di divenire capitano generale dell'esercito dei baroni ribelli, ottenendo il pagamento anticipato di una condotta di 200 uomini d'arme, 400 balestrieri e cavalleggeri e altrettanti fanti ed inoltre la promessa dell'assegnazione del primo dei grandi uffici del Regno che si rendesse vacante, del possesso di Avellino, di Monte Sant'Angelo, di Manfredonia e di altre città, e anche del matrimonio della figlia Beatrice con Pirro del Balzo, principe di Altamura. Egli non aveva evidentemente dato gran valore agli accordi di pace stipulati fra il re e il papa e l'arresto del Coppola e del Petrucci non gli era servito di monito. Ciononostante l'11 settembre egli non partecipò a Lacedonia alla riunione che vi tennero i baroni ribelli, nella quale giurarono di persistere nell'opposizione al sovrano. Quando nell'ottobre il duca di Calabria, dopo aver disperso le truppe di Roberto Sanseverino, rientrò nel Regno, schiacciando gli oppositori, i baroni presero la decisione di prestare giuramento di fedeltà al re per evitare la tempesta che si addensava sul loro capo e di proseguire subdolamente la resistenza, attendendo un momento a loro più favorevole. Incaricarono di andare a rendere omaggio a Ferrante un loro rappresentante, che prima, però, si recò dal C. per sollecitarlo a mantenere gli impegni presi. Tuttavia egli, sostenendo di non aver ricevuto gli anticipi pattuiti, non prese alcun provvedimento e, avvicinandosi ilduca di Calabria alle sue terre, inviò la moglie, Sveva Sanseverino, ed i figli ad Atella e fortificò il castello di Melfi. Alfonso, dopo aver conquistato Acquaviva in Abruzzo e Venosa in Puglia, inviò al C. un ambasciatore con l'invito di raggiungerlo al campo. Il duca di Melfi questa volta decise di aderire alla richiesta di Alfonso e, lasciato il figlio Troiano a difesa delle sue terre, preceduto dal fratello Giacomo incaricato da parte sua di rendere omaggio al duca, il 10 novembre giunse al campo di questo con sei squadre annate. Rimasto presso il duca di Calabria, nel gennaio del 1487 non poté esimersi dal seguirlo a Napoli. Pare tuttavia mantenesse contatti con i congiurati, specie con la suocera, contessa di Sanseverino, che lo esortava a fuggire nei suoi feudi e ad asserragliarvisi in attesa del ritorno di altri baroni che si sarebbero dovuti invece rifugiare presso il duca di Lorena. Ormai la situazione del C. si era fatta precaria e il 13 giugno era accusato formalmente da Paolo Ferrillo di ribellione al re. Pochi giorni prima era stato interrogato e non aveva esitato ad accusare la suocera e la sorella di lei, contessa di Capaccio. Il 4 luglio fu arrestato in Castelnuovo insieme con le due suddette congiunte, il principe di Altamura, il principe di Bisagno, il conte di Lauria e altri. Subì il processo, in cui le maggiori accuse gli vennero dal suo cancelliere, ser Francesco di Ripacandida; ma contro di lui e gli altri accusati non fu mai emanata sentenza di condanna anche se nessuno riacquistò mai la libertà e perirono tutti oscuramente in data imprecisata.
Le truppe del re occuparono il castello di Melfi e tutti gli altri luoghi fortificati dello Stato del C. e tutti i suoi beni furono venduti o affittati, ad esclusione di due casse di libri che entrarono a, far parte della biblioteca regia; di essi venticinque manoscritti e un libro a stampa, fatti trasportare in Francia da Carlo VIII, sono ora conservati nella Biblioteca nazionale di Parigi. Al figlio Troiano, dopo averne ordinato l'arresto insieme con la madre e con il fratello Antonio, Ferrante concesse dopo breve tempo il perdono e la restituzione, col titolo di conte, di una parte dei beni paterni.
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