COSENZA, Giovanni Carlo
Nacque a Napoli nel 1765da famiglia baronale.
Fu autore drammatico assai fecondo, influenzato da tutte le mode teatrali dell'epoca, che accolse con disordinato eclettismo e scarse capacità di rielaborazione. La passione per l'affività drammatica lo indusse a farsi costruire un "teatrino accademico" nel suo palazzo di via Mezzocannone e ad organizzare una compagnia di dilettanti che, a partire dal 1808, rappresentò i suoi lavori per circa un decennio. Epigono del Federici nel concepire effetti di scioglimento sensazionali, fu altresì continuatore delle tendenze del Sografi (autore di un dramma tratto dal Werther di Goethe) nel trasporre sulle scene opere letterarie: dall'Ortis ad Atala (diventata un'"azione patetica" in versi inserita nel terzo atto del dramma La Dama e il poeta, 1820), ai Masnadieri di Schiller (di cui è un rifacimento il Roberto Maldar capo d'assassini). Egli rimanipolò persino opere teatrali esistenti, ritoccandone rozzamente ed arbitrariamente la trama, fino a inventare comodi aggiustamenti anche per le tragedie shakespeariane, debilitate in flebili "azioni patetiche" (Otello, 1813 e Giulietta Cappelli, 1817) e opportunamente risistemate con un incredibile lieto fine.
La tendenza al romanzesco indolore lo indusse anche al travestimento leggendario della biografia dantesca, che venne interpretata in chiave di dramma della gelosia nell'opera Dante a Ravenna (non rappresentata), che è di tutte le storpiature del C. la più avventurosa e sbrigliata. Le disgrazie politiche di Dante sono infatti ascritte alla gelosia di Iacopo della Gherardesca che, innamorato di Gemma Donati, perseguita il rivale con intrighi e insidie di ogni genere. Inseguitolo fino a Ravenna, egli riesce a farlo scacciare da Guido da Polenta infastidito del trattamento riservato nell'Inferno a Paolo e Francesca, nonché a provocare la gelosia di Gemma con la complicità di una falsa Beatrice. Quasi una coreografia è il convulso epilogo allegorico, in cui si vede Dante abbracciare Guido da Polenta, mentre la figlia Bice è tenuta in braccio da Giotto.
La fama del C. è tuttavia legata alla rappresentazione che delle sue opere fu data dal 1818 per oltre un ventennio nell'antico teatro de' Fiorentini a Napoli, prima dalla compagnia Fabbrichesi e, a partire dal 1825, dalla compagnia Tessari. Uno dei primi lavori ivi rappresentati, Untraviamento di ragione (1818),presenta già i toni esasperati del melodramma, bassoromantico (come la morte dell'eroina dilaniata dal rimorso per un amore colpevole) e un gusto per gli effetti scenici inattesi e per le forti tensioni emozionali, che passarono come il segno più caratteristico della fluviale ispirazione dell'autore.
Il C. fu incapace di operare una selezione fra gli indirizzi teatrali contemporanei e accettò con acritica disponibilità sia gli avanzi del melodramma settecentesco e della comédie larmoyante, sia le più recenti mode di impronta francese e tedesca dei dramma storico; ma non disdegnò nemmeno la rappresentazione dei fatti di cronaca nei drammi di "costumi moderni". Egli mirò a creare un teatro di stampo romanzesco adatto a diffondere un'ideologia populistica, grettamente conservatrice, che si fondava sul mantenimento degli ordini sociali e sulla carità dei ceti privilegiati; in esso perciò anche le peripezie dei personaggi sono parte di un progetto di moralizzazione sociale e si configurano come altrettante prove create appositamente per consolidare il trionfo conclusivo del bene. Questa lezione, destinata al vasto pubblico, ma non certamente al diletto o alla riflessione delle masse, si manteneva sdegnosamente lontana dal dialetto, preferendo civettare, anche se grossolanamente, con i temi della letteratura alta.
Il tono serio e l'intonazione colta della produzione del C. sono infatti attestati da drammi come Madamigella Clairon (1819),che ha per protagonista il Goldoni, dal Pietro Chiari (1821)e dal Salvator Rosa (1822),che realizzano un disegno di biografia letteraria romanzata. Ma più volentieri l'autore pigia il pedale dell'ammorumento sociale e deplora il sovvertimento delle gerarchie, come nell'Erede dell'usuraio (1823), che contiene un'aperta disapprovazione dei parvenus che tentano la strada dell'emancipazione e del successo.
Vasta notorietà arrise per questo ai drammi di scoperta finalità moralistica, come Il berretto nero (1823), che, rappresentato anche a Torino dalla Compagnia reale sarda, suscitò tuttavia scandalo per l'audacia con cui si discuteva e si rappresentava un caso di adulterio.
In effetti il dramma, che presenta delle analogie con il Sospettofunesto del Giraud (citato nell'opera stessa) si ispira liberamente alle tragiche vicende familiari di Francesco Albergati (corrette come di consueto dell'epilogo luttuoso), protagonista di un altro lavoro, la commedia L'Albergati in terze nozze. Grezzamente edificante è lo sviluppo della vicenda che schiude i baratri del peccato solo per poter meglio additare i sentieri della rettitudine. Il dramma in realtà propone solo un progetto di adulterio tra Celestina, moglie dei presidente Monsenico, ed Eduardo, giovane parente beneficato; i due peccatori sono infatti fermati dal "berretto nero" dell'uomo di legge che, lasciato a bella posta nel luogo del convegno, costituisce un richiamo all'ordine e spoglia di fascino le passioni fallaci. Sicché nello scioglimento il marito-maestro può dare alla moglie pentita un abbraccio di perdono che è "il compenso di una virtù, resa più salda dall'esperienza del vizio". Solo la serva-mezzana non beneficia della clemenza del magistrato che è spietato verso i falli dei subalterni, come invece e misericordioso verso gli adulteri mancati passibili di riscatto e di salvezza.
Sempre legata a modelli di massima esemplarità (come nell'Amore a dispetto, che ripete nella figura della contessa Bismondi la goldoniana Mirandolina), l'opera del C. non si astiene nemmeno dall'affrontare argomenti satirici (nella commedia I pazzi per progetto che, ambientata in un manicomio, svolge il topos dell'inutilità della scienza medica) o dal cimentarsi nel genere della farsa.
In questa produzione l'autore rivela debolissime capacità comiche, confermandosi in grado di battere le sole vie dei patetico e di moralizzare, nei felici scioglimenti che fungono ancora una volta da exemplum, contro i perturbatori della morale derivante dall'ordine costituito: "e la fine di Montreville sia di tremendo esempio a' prepotenti calunniatori" (Lacabala, Napoli 1863, scena ultima). Analoga incapacità di movimentare l'azione comica si rivela nella farsa in un atto Don Saverio Cacciasugo al castello di Baccellana ossia Il diavolo muto, in cui l'autore tento una ripresa dello stereotipo del miles gloriosus nella figura del protagonista, che, peraltro, rimane pressoché inutilizzato nell'economia della vicenda. Questa è costituita da un ennesimo congegno avventuroso e viene ambientata in un improbabile castello, dove due falsari insidiano la vita di Agnese che si finge muta, venendo poi salvata dalla fortuna (che "assiste i coraggiosi per opprimere i vili scellerati") e dal capitano che si scopre in ultimo suo fratello.
Più consoni alle sue qualità di grezzo ideatore di copioni mélo rimangono drammi come Un odio ereditario (1823), che si avvalse per la parte del bourru bienfaisant duca di Drombel dell'interpretazione di Luigi Vestri, proprio per quest'opera gratificato di un successo che sanzionò la sua grandezza; e soprattutto drammi come il più tardo Marta Hall (1835), trucissimo "fatto storico" in quattro atti, che descrive il processo di abiezione di una donna che, traviata dal marito, viene giustiziata per un delitto non commesso.
Accompagnata dall'alterno favore del pubblico, l'opera del C. mancò di un ripensamento e di una rielaborazione che le dessero non pur dignità letteraria, ma almeno una professionale attendibilità. Adamo Alberti, consocio nella direzione del Fiorentini, e più tardi cronista di quest'importante istituzione culturale napoletana (Storia del Teatro de' Fiorentini, Napoli 1878) rilevava i limiti di cultura e di stile delle operazioni tentate dal C. e la dispersività di lavori di cui nemmeno l'autore "ricordava il numero e i titoli" (p. 52).
Negli anni in cui veniva affermandosi anche in ambienti periferici la cultura romantica, egli riuscì a conseguire un insperato successo, riproponendo la ricetta, altre volte sperimentata nella sua efficacia, della trasposizione sulle scene di testi letterari. Egli portò così a compimento l'opera di mediazione tra narrativa contemporanea e teatro, razziando le trame dei romanzi storici e dei drammi romantici di grande divulgazione per ricavare intricati scheletri narrativi. Dopo l'Ettore Fieramosca del 1831, nel fortunato biennio 1837-38 il C. ridusse il Marco Visconti (diviso in sei "epoche"), Margherita Pusterla (che riscosse uno strepitoso successo) e Niccolò de' Lapi, di cui l'Alberti si vantò di aver rimaneggiato i due mediocrissimi atti conclusivi all'insaputa dell'autore stesso ma con la sua successiva approvazione (Storia..., p. 53); ricavò ancora nel 1836 una Gemma Garbina dal Tiranno di Padova di V. Hugo.
Ma tanto consenso di pubblico doveva essergli avvelenato dalla sapida parodia di Pasquale Altavilla, che derise il teatro in lingua del C. e le sue velleità di alta letteratura nella commedia Na tragedia scombussolata e no concierto stravisato ossia Il fanatismo di un autore tragico e le impertinenze di una compagnia comica (1838),che sconfessava tutto un genere impiantato sulla difesa delle istituzioni e su un concetto di falsa popolarità. Il C. tuttavia rappresenterà ancora altri lavori, come L'eccesso delle passioni (1840), fino al conclusivo Sofia Cottin (1843), ambientato nella Francia rivoluzionaria.
Morì a Napoli il 25 febbr. 1851 dopo lunga malattia, "compianto dalla sua nobile famiglia e da quanti lo conobbero" (Alberti, p. 108).
Opere: Teatro comico italiano inedito, I-X, Napoli 1824-30; Teatro drammatico italiano completo, I-II, Napoli 1840. Tra le opere pubblicate singolarmente: La cabala,Napoli 1865; Don Saverio Cacciasugo al castello di Baccellana, Firenze 1875.
Bibl.: F. Regli, Diz. biogr. dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, Torino 1860, ad vocem;A. Alberti, Storia del Teatro de' Fiorentini, Napoli 1878, pp. 52-55 e passim;G. Costetti, Il teatro ital. nel 1800, Rocca San Casciano 1901, pp. 84-86; C. Del Balzo, Dante nel teatro, in Nuova Antologia, 1º giugno 1903, pp. 395-6; A. Scalera, Il teatro dei Fiorentini dal 1800 al 1860, Napoli 1909, pp. 42-44; C. Levi, Dante "Dramatis Persona", in Arch. stor. ital., LXXIX (1921), I, pp. 130-131; I. Sanesi, La Commedia, Milano 1935, II, pp. 482-483; V. Viviani, Storia del teatro napol., Napoli 1969, pp. 519-23 e ad Ind.; Enc. dello Spett., III, coll. 1546 s.