CAVALCANTI, Giovanni
Di questo scrittore, che è tra i più significativi, a Firenze, della civiltà letteraria quattrocentesca, si posseggono scarsi e saltuari dati biografici, frutto recente delle ricerche compiute da M. T. Grendler. Nacque da un ramo minore della celebre famiglia fiorentina nel 1381 e morì in data prossima al 1451. Nel 1422 fu capitano di Parte guelfa, incorrendo poi nelle sanzioni comminate dalla Signoria contro coloro che non vollero o non poterono ottemperare ai gravami fiscali previsti per far fronte alla guerra antiviscontea (si ha notizia di scarsi possedimenti goduti dal C. a Monte Calvo e a San Casciano). Sulla fine degli anni ’20 venne quindi imprigionato e trattenuto alle Stinche sino allo scadere del ’30, come si deduce da una petizione alla Signoria in data 22 ag. 1439 in cui il C. computa il periodo della propria detenzione in circa dieci anni. In prigione egli attese alla stesura delle Istorie fiorentine, narrando avvenimenti compresi tra il 1420 e il 1440; l’interruzione delle Istorie corrisponde grosso modo all’uscita dal carcere, talché l’anno seguente egli poteva accingersi, ormai libero anche se gravato ancora dai debiti, alla compilazione delle cosiddette Seconde istorie che espongono i maggiori avvenimenti fiorentini e italiani compresi, appunto, tra il 1441 e il ’47. Gli ultimi anni furono probabilmente dedicati dal C. alla stesura di quel Trattato politico morale che ha avuto un’edizione critica solo ai nostri giorni.
Compito delle Istorie fiorentine è quello di far luce sui fatti che determinarono l’allontanamento da Firenze e poi il richiamo dall’esilio di Cosimo de’ Medici (1433-34), ma per questo l’autore avverte il bisogno in una più ampia ricognizione degli eventi che giustifichino gli squilibri cittadini di un quadro di politica internazionale: l’interesse monografico si articola in una cronaca che in quattordici libri “rappresenta”, da un’angolazione antinobiliare, le sorti della collettività fiorentina dal momento in cui si decide la guerra contro Filippo Maria Visconti alla battaglia di Anghiari.
Sin dal I libro il C. scinde il destino dei pazienti (“il nostro comune”) da quello degli attori della storia (“i nostri potenti”), sì che la decisione stessa della guerra antiviscontea viene attribuita alle ambiziose mire dei “grandi”, a una volontà politica astratta e dispotica, mentre la prospettiva dell’opera – ove si ravvisa l’intento di capovolgere la drammatica discriminazione da cui prende l’avvio il racconto – comincia a convergere al punto di una gestione politica dell’economia fiorentina, fondata essenzialmente sulla ricchezza mercantile e garantita dal gruppo di potere che fa capo ai Medici. Nel libro II, in una scena tra le più celebri dell’opera, lo scrittore personifica la vecchia politica del ceto oligarchico, che brucia “nel Palagio” le velleità del comando, in Niccolò da Uzzano, il quale decide l’intervento armato contro il Visconti dopo aver assistito sonnecchiando al dibattito dei “queriti” e dopo che i Signori ebbero garantito l’assoluta pariteticità delle tesi avanzate. L’elezione dei Dieci di balia avviene con l’inganno dei popolani e la campagna, condotta da Pandolfo Malatesta, si conclude con la sconfitta di Zagonara (1424), che getta Firenze nello sconforto ribadendo le conquiste del Visconti conseguite in Romagna. Rinaldo degli Albizzi tenta allora una serrata dei “grandi” per il disgravio delle imposizioni fiscali e propone a Giovanni de’ Medici la riduzione delle arti minori (libro III); questi tuttavia non aderisce all’invito e comincia a scoprire, rispetto allo schieramento magnatizio, una posizione di dissenso che trova credito anche a seguito degli sbandamenti politico-militari della Repubblica (come nell’impegno, gravosissimo, di un’azione bellica nel Bresciano, secondo i patti della rinnovata alleanza con Venezia, proprio mentre Niccolò Piccinino negozia la pace tra Firenze e Milano). Il IV libro descrive la vittoria dei collegati sotto le mura di Cremona, ma l'autore non tralascia di sottolineare le perdite, in sostanze e in vite umane, che siffatta vittoria aveva comportato. È in questo clima di sfiducia verso il ceto politico responsabile della guerra e inabile a mantenere la pace in Toscana (Volterra si è ribellata ed è stata duramente ricondotta al dominio fiorentino) che muore Giovanni de’ Medici, lasciando un’eredità e un prestigio tali da favorire la più incisiva politica di Cosimo (libro V). La disgrazia degli Albizzi si aggrava in occasione della guerra contro Lucca: un’impresa impopolare, inventata da Niccolò Fortebraccio e poi sostenuta da Rinaldo degli Albizzi con malversazioni – dice l’autore – che provocano una crisi nell’egemonia in Toscana e quindi la ribellione di Pisa, una lega tra Siena, Piombino, Genova, e naturalmente il ricorso di Lucca al Visconti, che manda in sua difesa il Piccinino (libri VI - VII). Ristabilita la pace per l’intervento dell’imperatore Sigismondo (libro VIII), l’Albizzi gioca l’ultima carta della propria autorità, accordandosi col gonfaloniere Bernardo Guadagni per fare arrestare Cosimo, accusato di aspirare a un governo dispotico. Ma è proprio qui che il disegno dell’Albizzi riceve una cruda smentita – ed è a questo punto che si svela la chiave di volta dell’intera narrazione: perché Cosimo mostra di volersi piegare all’arbitrio, egli teme la violenza, ha paura di essere ucciso e rifiuta in prigione i cibi che sospetta essere avvelenati, accetta la sentenza dell’esilio come un atto da cui può scaturire, con l’eliminazione delle discordie, il benessere dello Stato, e si reca a Padova, confortato dalla solidarietà degli amici e dei propri ospiti (libro IX). La sua ricchezza è sempre convertibile nel beneficio naturale dell’agio e del reciproco conforto, la sua disponibilità politica è come la sostanza liquida e immobile che sopravvive all’infuriare della tempesta. Per questo il suo ritorno è inevitabile al pari di un costume di vita, il benessere dei Fiorentini, mentre vengono esclusi dal consorzio civile Rinaldo degli Albizzi, Ridolfo Peruzzi, Niccolò Barbadoro, e si registrano in città processi ed esecuzioni sommarie da cui viene sempre allontanata la figura del Medici (libro X). I libri XI e XII tornano a esporre gli avvenimenti della guerra di Lucca: i Genovesi si alleano con i Fiorentini, l’Albizzi dall’esilio chiede aiuti a Filippo Maria Visconti e al Piccinino, che penetra con una fortunata azione militare fino al Mugello (libro XIII). Dal momento in cui si unisce al Piccinino il conte di Poppi la situazione di Firenze torna a farsi critica e Cosimo mostra ancora una volta di volersi rassegnare alla violenza scegliendo la strada dell’esilio, ma il progetto si rende vano allorché il Piccinino si ritira dalla Toscana e Rinaldo degli Albizzi muore (libro XIV). Ormai sembra scongiurato ogni pericolo imminente per la città e lo scrittore acconsente allo stabilimento della fortuna medicea, non tralasciando di lodare in Maso degli Albizzi l’antecessore del riprovevole Rinaldo.
Nel libro delle Seconde istorie (ottantotto capitoli lacunosi che attendono un’edizione più attendibile di quella fornita a suo tempo dal Polidori) l’“imparzialità” del C. non risparmia neanche i Medici, che si sono consolidati come élite di potere lasciando la gestione economica alla “turba cosimesca”, “che non altrimenti né altro luogo tenevano che sono i mannerini in tra l’armento delle vacche” (cap. XX). In siffatti termini lo scrittore giudica la smodata disponibilità di Giovanni Pucci: “Queste ricchezze eran tutte di penne d’uccelli tarpati dagli affamati cittadini; le quali penne tutte tornavano non meno a danno che a pericolo del povero Comune. Conciossiacosaché il pericolo era grandissimo pel perduto credito. Avvegna dio che la libertà del Monte era corrotta, e la libertà de’ cittadini perduta” (cap. XXIII): con le inevitabili conseguenze dei brogli elettorali e delle alterazioni nel computo dei cespiti catastali, mentre i nobili, anche tradizionalmente fedeli al potere mediceo, disertano la città e Cosimo si impegna in una disaccorta politica di opere pubbliche (capp. XXVIII - XXXIII). A questo quadro della situazione interna corrisponde una altrettanto vigorosa critica del C. alla politica estera del Medici, soprattutto in ordine ai favori che questi concede a Francesco Sforza, incorrendo nelle rappresaglie del duca di Milano, che invia un contingente militare nelle Marche al comando ancora del Piccinino (cap. XL), e nell’opposizione di Eugenio IV preoccupato dalle conquiste dello Sforza (cap. XLI). Dopo aver accennato alle vicende interne di Bologna (capp. XLII-XLVIII) e all’assedio di Cremona (cap. L), il C. esamina le relazioni diplomatiche intercorse tra Francesco Sforza, Venezia, e l’ambasciatore fiorentino Neri di Gino Capponi, che si risolvono con un'intesa ai danni del duca di Milano e una vittoria militare dei Veneziani (cap. LII). Tale accordo si rivela tuttavia gravoso per gli impegni finanziari che lo Sforza pretende da Firenze anche quando, abbandonata l’idea di conseguire successi nelle Marche, formula propositi di riconciliazione col Visconti. Cosimo deve poter disporre del denaro occorrente in fretta, ma con una legge spietata, afferma il C., forse personalmente implicato nell’operazione: “questa legge diceva che i detti ufficiali avessero autorità e balia di riscuotere da ogni ciascuno debitore del comune; e che nulla sicurtà valesse ... non avendo riguardo a nulla concordia fatta con chi poteva per lo passato” (cap. LXXIII). Per la mediazione di Niccolò V, successo nel 1447 a Eugenio IV, anche i collegati Veneziani e Fiorentini stipulano la pace col duca di Milano, ma le “lascive miserie” di Firenze rimarranno, sostiene lo scrittore, come esempio di malgoverno, “acciocché, per questa così iniqua satira – e di qui ci si ricollega al fine moralistico della cronaca – piuttosto si nieghi le sfacciate audacie che seguire le vituperose opere de’ perversi uomini” (cap. XVI). Il libro si conclude con la morte di Filippo Maria Visconti (cap. LXXX): Francesco Sforza è sostenuto dai nobili milanesi mentre il popolo, in odio ai tiranni, distrugge porta Giobio (cap. LXXXVIII). E l’episodio vale evidentemente un più generale monito.
A ben guardare, non è ideologica la differenza fra le due opere, quanto espressiva e stilistica, sì che l’unica vera cronaca – con quel tanto di schematismo, di incompiutezza e di compensazione moralistica proprio del genere – appare la seconda storia, laddove la prima s’impone come un prodotto di squisita capacità verbale che investe il solo oggetto possibile per l’arte: la natura degli uomini e delle cose, convertibile in azione, in ricchezza, in possesso che è decoro individuale, senso di sicurezza, e insieme distinzione civile, vanto di un’intera collettività. C’è un brano molto significativo per intendere la presunta ideologia dei Cavalcanti. Riguarda la morte di Giovanni de’ Medici: “Due topi, uno nero e uno bianco, avendo rose le barbe di quel pomo che alimentato aveva l’ottimo cittadino, Giovanni de’ Medici, cominciò forte a piegare le sue cime verso la dura terra. Per questa cotale infermità, conobbe Giovanni che la vita sua voleva gli umori umidi e frigidi all’acqua riducere, e il suo fiato all’aria tramischiare, le carni alla terra rendere, e così il caldo con le cose secche, al fuoco restituire” (cap. III). Segue il messaggio del morente: fidando nella ricchezza, egli spera tranquillità e gloria per i familiari (“Io vi lascio nelle infinite ricchezze, le quali la mia fortuna mi ha concedute, e la vostra buona madre, col mio affaticare, mi ha aiutato a mantenere... Voi rimanete con la grazia d’ogni buon cittadino, e colla moltitudine del popolo, che sempre la nostra famiglia hanno eletti per loro tramontana stella, e se voi non vi stranate da’ costumi de’ vostri maggiori, sempre vi fia il popolo larghissimo donatore delle sue dignità”), ma è chiaro che tale continuità politica si invera soltanto nella globalità di una concordia elementare che circoscrive metaforicamente il personaggio. La pianta-uomo è un tutto – in relazione alla terra e alla linfa, all’aria e al fuoco – in quanto è una creazione linguistica sfidante l’assolutezza naturale: quel tutto che Cosimo avoca a sé ricorrendo all’eloquenza di un gesto spontaneo (“La natura ci ammaestra che la parte si deve mettere a non calere per lo conservamento del tutto. E per questo dava l’esempio del braccio sinistro, che, per difendere la testa, mette sé a non calere contro ai tagli delle mortali spade; e questo fa per lo conservamento del tutto”: cap. IX, 1), mentre Rinaldo degli Albizzi rappresenta la separazione del furto, della preda, che interrompe la contiguità della natura-ricchezza “...messer Rinaldo era, nel campo, di commissario fatto mercante di prede; e dicevano che comperava dalle nostre genti le predate cose” (cap. VI, 13).
Si potrebbe inferire che il primum dell’opera consista nella onnicomprensività del linguaggio, il quale comincia a verificare, nella mediazione di un discorso rivolto ai contemporanei, le categorie (che gli sono proprie) del tutto e della parte, di un’organicità naturale-economica ed economica-politica, di fronte all’arbitrio del singolo o del gruppo. La mimesi della realtà è sempre un rispecchiamento delle possibilità linguistiche. Si tratta ora di stabilire criticamente la produttività culturale (e perciò stesso “iperreale”) di tale linguaggio in ordine ai fenomeni della vita individuale e associata, al ritratto e alla raffigurazione collettiva.
“Ogni vacuo era calcato, ogni tuorlo era circondato di masnadieri e di popolo”, afferma una volta il C., descrivendo un assembramento sedizioso (cap. X, 7), e il pensiero corre immediatamente a certe immagini plastiche, magari ghibertine, disposte con una estrema sapienza compositiva; senonché lo scrittore è pronto ad esibire una corrispondenza morale, “densa” come può esserlo una massima: “Così la povertà, per la dolcezza della vita, gli dié l’amaritudine della morte” (cap. X. 22). Molto spesso la descrizione corregge per eccesso la natura. È come se lo scrittore scoprisse una qualità ancora indecifrata degli elementi (“...mettevano per li vasi il viso, e co’ denti mordevano l’acqua, come fa il veltro quando per lunga cacciagione ha corso il fuggente animale”: cap. IV, 11), ovvero tendesse ad accertare in modo surrettizio, iperbolico, la spietatezza di una scena (“Il busso era grande; la zuffa mortale: egli era sì grande la tempesta delle voci che uscivano de’ due eserciti, che gli uccelli che per l’aria volano, molti sopra a sì fatta moltitudine cascarono come morti fussero. La terra tremava sotto i piedi dei cavalli, non in sembiante, ma in effetto”: ibid.). E l’indicazione può essere valida sino a comprendere la prodigalità portentosa della natura, con una motivazione che fa inclinare l’opera del C. più verso il Morgante che verso la tradizione delle cronache medievali (“Sempre pare che la natura abbia per un lungo privilegio di divina legge, che in lei consista di fare quello ch’ella vuole...”: cap. VII, 18).
Un effetto generalmente sinestetico è dato riscontrare nelle scene di battaglia, di cui si vuole offrire almeno questo scorcio, reso anche più suggestivo per una determinazione spaziale realizzata attraverso la visione degli stendardi nemici che avanzano: “Conciossiacosa che la terra era occupata d’uomini, più terra non appariva di dietro, né meno se ne mostrava dinanzi; e con questo la vista degli uomini non reggeva a sì lunga tratta. Ma, avvegna dio che l’aria sempre appare alle nostre viste che intorno si congiunga il suo orizzonte con la terra, per questa così fatta apparenza mostrava dietro alla moltitudine de’ gonfaloni crescere, ed innanzi scemare i suoi spazii... Egli è sì grandissimo il numero della gente, che io non so come la terra resistenza possa fare a tanto peso” (cap. IV, 14).
All’interno di questi grandi riquadri il C. opera con una sua tecnica che si potrebbe dire pittorica, a cui obbediscono le lunghe e snodate prospettive di limitata ampiezza: scoscendimenti, sentieri, gole, i luoghi dell’agguato e della strage (“co’ cavalli sopra a que’ corpi, l’umano posticcio calpestando, passò, e sopra le nostre genti cominciò forte a battagliare”), che d’improvviso si allargano per permettere un disegno di conversione (“Non potendo i nostri nemici seguire le nostre genti per la difesa degl’imboscati fanti, uscirono dal loro esercito circa di quattrocento cavalli, e diedero volta di grande spazio, e assaltarono dal lato de’ terghi delle nostre genti...”); l’illusionismo ottico con cui si evidenzia, in successione rapidissima, il movimento di una figura (“Da ciascheduna parte si vedeva spesso correre per lo campo i cavalli senza gli uomini: le selle chi le aveva in su i dossi, e chi le aveva da lato, e chi sotto i corpi, e chi le strascinava di dietro: e gli uomini erano alla terra giacenti, chi morto, e di tali mal vivi”: cap. IV, 11); la luminosità diversa che colpisce le varie zone del paesaggio, oscillante dal chiaroscuro di un'isola boschiva alla torbida opalescenza delle acque palustri, pervase di presenze ostili: “Quella cotale acquaccia è tutta piena di bisce e rospi e d’altri velenosi serpenti, e così da ogni lato la strada è confinata, e poi si rinchiude in un bucine, che, senza colpo di spada, vi si può ogni esercito assediare” (cap. IV, 17). Le voci umane amplificate e ritorte dall’eco, il riccheggiamento dei proverbi cui s’affida il monito svelto dei capitani (“Chi lava il capo all’asino, perde il sapone. Date loro come se faceste a selvatiche fiere; passate i loro petti degli acciai, e fate entrare i vostri ferri per le interiora inimichevoli al nostro principe”) costituiscono, auditivamente, altrettante linee di concentrazione verso il magma sensoriale del raffigurato: e sono proprio questi effetti di intrico, di tenacità materiale che si prefigge lo scrittore; donde una prosa fitta, compatta, ove si distingue a fatica il discorso diretto dalla narrazione e l’osservato dall’immaginario, una prosa ricca di cadenze colte, ma con una frequentazione mai elitaria degli storici classici, di Dante, di Boccaccio, e invece sostenuta da un ragionevole uso del parlato che ricorre non di rado alle corsive formule dialettali.
Riprendendo alcuni risultati delle analisi compiute dal Nencioni e dal Varese, si può affermare che il calco latino – soprattutto per quel che riguarda la sostituzione dell’aggettivo con il sostantivo, del termine concreto con l’astratto – corrisponde nello scrittore quattrocentesco alla tendenza di imporre dei momenti di stasi, delle cesure alla rappresentazione, che viene quindi ad articolarsi in una successione di momenti espressivi e si collega anche in questo alla tecnica dell’affresco. Ma la tradizione classica offre anche una possibilità divaricante e assimilatrice nel dettato del C., per esempio, tra la sostenuta eloquenza di Rinaldo degli Albizzi cadenzata su ritmi di scuola, e il commento del volgo che replica – coralmente – con detti ed episodi memorabili. Gli eroi di questo mondo ancipite, tra signorile e popolare, sono i condottieri di ventura, il Piccinino, Fortebraccio, Nicolò da Tolentino, che assolvono nel racconto una funzione copulativa tra il potere politico (innaturale e lontano) e la rabbia, l’ambizione, il desiderio di vendetta, accomunati da un’ostinata volontà di autodeterminazione: “Io vi ricordo un proverbio volgare che si dice tra i Toschi... – replica una volta il Piccinino al duca di Milano – E’ dicono: Tosco rosso, Lombardo nero, e Romagnolo d’ogni pelo. Io son perugino, e del grembo de’ Toschi, e il mio pelo si scrive bruno: sicché adunque io non sono segnato per maestrevole a così fatte cose; ma cercate la provincia di Romagna, che secondo il proverbio, è doviziosa di così fatti maestri” (cap. VI, 25). Tutti i maggiori personaggi della storia vivono, del resto, in una dimensione gestuale che li sospende tra la civiltà e la natura. Questo è lo Strozzi, colto nell’atto di decidere su una pericolosa alleanza: “Messer Palla, dolce e gentile, il quale era più atto alle delicatezze de’ conviti e alle oziosità delle camere che alle sollecitudini degli eserciti, o alle crudeltà delle armi, o agli spaventi delle grida de’ popoli diceva: tutte le cose che portano pericolo, vogliono essere piuttosto con tardità di consiglio che con sollecitudine di soperchia volontà giudicate e condotte” (cap. X, 5). E “Niccolò Barnadoro, nonostante che alla sua superbia aggiugnere non si potesse, lo stimolo dell’avarizia e della viltà il fece commendare l’aspettare del Palagio l’assalto. E’ diceva che il mangiare insegna bere, e che il ballare si vuol fare come mostra lo strumento, e non che lo strumento impari dal ballo” (ibid.). Al limitare della storia, con una puntualità biografica considerevole, si autorappresenta anche lo scrittore, intimidito dal prestigio dell’Uzzano, inquirente popolano sulla crisi della democrazia fiorentina: “Detto che ebbe Niccolò questo così fatto parere, tutti i consigliatori si accordarono al suo detto. Allora, avendo io tenuto a mente i modi di Niccolò, per me si giudicò che lui, con altri potenti, aveva sopra quelle lettere, nel luogo privato e segreto, accordato e concluso che quel consiglio fusse per lui dato, e per gli altri confermato e concluso. Allora, per essere certo se il mio credere era d’accordo col suo essere, dissi con alcuni de’ miei compagni quello che ne credevo, e com’egli mi pareva che nella Repubblica ne dovesse seguire tirannesco e non politico vivere... La risposta che mi fu data col mio credere fu d’accordo, dicendo che, com’io credeva, così era, e che il Comune era più governato alle cene e negli scrittoi che nel Palagio; e che molti erano eletti agli uffici e pochi al governo” (cap. I, 1).
È come un richiamo posto al punto più accessibile per l’osservatore. Tra questo e l’autore si crea uno spazio analogo a quello stabilito tra la figura in primo piano e i suoi interlocutori: è lo spazio della convenzione linguistica, dell’intesa, che assume in prima istanza la forma di un rapporto dialogico, ma che già prevede l’opera nel nesso, più volte ribadito, di “credere” e “essere”. In letteratura la realtà e l’intelletto costituiscono due aree che non coincidono mai perfettamente, ma delimitano un luogo di contaminazione, per cui l’essere è tale per essere creduto (è il significato che comprometto in qualche modo i parametri della credibilità spostandoli ad un nuovo livello) e il credere è tale per essere, nel senso che si istituzionalizza un modo della realtà che prescinde dall’essenza (una “virtù” a cui, peraltro, la concezione platonico-aristotelica adottata nel Medioevo annetteva il dover essere delle cose). Sotto questo profilo il giudizio spettante il singolo oggetto si dirime nella rappresentazione di aspetti omogenei. L’una e l’altra direzione contempla la prosa della storia cavalcantiana determinante uno spazio molto ampio di interferenza: tra i modi di essere riattingono una dignità comunicabile gli impulsi del possesso, della conservazione, del godimento; si scopre la credibilità del mondo ipotizzando significati che hanno valenze diverse e inesplorate: così è della ricchezza, che è bene naturale e strumento di pace, concordia e orgoglio cittadino, come in un canto di carnevale (la Canzone del bene) posteriore solo di qualche anno all’esperienza del C., ma ugualmente rispondente al clima della cultura medicea. Ed ecco che la scena dell’ingenua conversazione appare già come un indizio di spessore dell’opera: al di qua di essa, sulla soglia dell’affresco, c’è la figura del parlante, al di là l’artificio delle cose, l’istituzione di un nuovo assetto civile.
Quel che manca in questo scritto è un uso oratorico, aprioristicamente selettivo del discorso letterario: caratteristica negativa che sembra invece intrinseca alla seconda storia. Anche qui il problema della particolarizzazione rispetto al tutto della vita individuale e sociale è posto correttamente, ma il discorso rimane quello di parte, cioè un discorso politico, laddove forse sarebbe potuto diventare un discorso globalmente eversivo. E certo avrebbe costituito scandalo per gli intellettuali affaristi della Firenze medicea una contestazione della ricchezza come libertà da parte di un emarginato, di un recluso per debiti alle Stinche. Ma il C., forse impegnato in una dissimulata azione di recupero sociale, preferì la strada della diatriba politica (della “satira”), celandosi dietro una acrimonia che lascia francamente rimpiangere il tono spregiudicato e avvincente delle prime Istorie fiorentine.
Non aggiunge neanche molto alla personalità del C. il Trattato politico-morale: una prova ulteriore, qualora ve ne fosse bisogno, della cultura vasta ed ecclettica dello scrittore, che cita Aristotele e Seneca, gli storici latini e Giovenale, ma nel complesso un’opera scolastica, che si vitalizza solo quando, tra gli esempi dedotti dai classici e posti sotto le rubriche “Prudenza”, “Iustizia”, “Fortitude”, “Temperanza” il C. riesce a iscrivere frammenti di esperienza vissuta, si tratti delle conseguenze economiche e politico-istituzionali del tumulto dei Ciompi (pp. 135 ss.) 0 dell’azione, psicologicamente ben motivata, di Maso degli Albizzi.
Bibl.: Per le Istorie fiorentine si è tenuta presente l’ediz. a cura di G. Di Pino (Milano 1944); il testo della cosiddetta “seconda storia” si legge nelle Istorie fiorentine, a c. di F. Polidori, Firenze 1838-39, II, pp. 555-308; quanto al trattato vedi M. T. Grendler, The “Trattato politico-morale” of G. C. A critical edit. and interpr., Genève 1973. Di D. Moreni, che fu il primo, parziale edit. del C. (Della carcere, dell’ingiusto esilio e del trionfal ritorno di Cosimo Padre della Patria, narraz. genuina tratta dell’“Istoria fiorentina” manoscritta di G. C., Firenze 1821), vedi la Bibliogr. Storico-ragionata della Toscana, I, Firenze 1803, pp. 235 s.
Sulla fortuna del C., soprattutto nell’ambiente fiorentino che faceva capo a G. Capponi, si rimanda al saggio di C. Varese, G. C. storico e scrittore, in Storia e polit. nella prosa del Quattrocento, Torino 1961, pp. 93-131. Oltre al Varese, buone osservazioni sulla lingua del C. si devono a G. Nencioni, Fra grammatica e retorica, in Atti e memorie dell’Accademia fiorentina... “La Colombaria”, XVII-XIX (1953-54), pp. 63 ss.; per i rapporti tra il C. e Machiavelli, che utilizzò l’opera del cronista quattrocentesco nelle Istorie fiorentine, vedi P. Villari, N. Machiavelli e i suoi tempi, III, Firenze 1882, pp. 252 ss., 270 ss.; del Di Pino, oltre all’introduz. all’ediz. citata delle Istorie fiorentine, si segnalano i contributi: Le Istorie fiorentine di G. C., in Annuario del R. Liceo-ginn. Galileo di Firenzeper gli anni scol. 1936-39, Firenze 1939, pp. 83 ss.; Le opere di G. C. secondo i codici, in Ann. della R. Scuola normale sup. di Pisa, s. 2, X (1941), pp. 129 ss.; I manoscritti della “Nuova Opera” e della “Politica” di G. C., in Linguaggio della tragedia alfieriana e altri studi, Firenze 1952, pp. 61 ss.; vedi inoltre V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1938, ad Indicem; Prosatori volgari del Quattrocento, a cura di C. Varese, Milano-Napoli 1955, pp. 135 ss.; E Garin, La trattatistica latina e volgare, in Storia della lett. ital., III, Il Quattrocento e l’Ariosto, Milano 1966, pp. 239 ss., 348.