Cavalcanti, Giovanni
Nato a Firenze nel 1381 da un ramo in declino dell’antica e famosa famiglia Cavalcanti, della cui grandezza e nobiltà orgogliosamente continuava a sentirsi erede, ebbe mezzi economici assai modesti e visse in ristrettezze che ne condizionarono l’intera esistenza. Fu, secondo quanto egli stesso afferma, capitano di parte guelfa nel 1422. Le crescenti difficoltà a far fronte al carico fiscale e la scarsità di mezzi – documentate a partire dal catasto del 1427 fino al 1451 (Grendler 1973) – lo condussero in uno stato di povertà e alla detenzione come debitore del comune nel carcere delle Stinche dal 1429 al 1440 circa. Qui scrisse le Istorie fiorentine che narrano gli avvenimenti compresi tra il 1420 e il 1440 (con l’aggiunta, in fine, delle ultime vicende riguardanti Rinaldo degli Albizzi e la sua morte, nel 1442). Uscito di prigione – ma la sua situazione finanziaria restava precaria – si dedicò alla stesura della Nuova opera, tradizionalmente nota come Seconda istoria, relativa agli eventi dal 1441 al 1447. Mise poi mano, con qualche ulteriore ambizione, al cosiddetto Trattato politico-morale, dedicato a Neri Capponi. L’ultimo atto che ne documenti la presenza in vita è il catasto dell’agosto 1451.
La sua condizione di emarginato sul piano sociale si riflette incisivamente anche sul carattere «eccentrico» (Kent 1979) della sua scrittura storiografica. Espressione della forte e moralisticamente risentita personalità dell’autore, le Istorie travalicano i moduli propri della tradizione cronachistica per impianto, connotazioni e peculiarità di uno stile frutto di un singolare connubio tra espressivismo popolaresco e retorica artificiosità, con fitte citazioni, soprattutto dantesche. La disposizione a tema, la drammatizzazione degli eventi, le numerose orazioni, le appassionate allocuzioni richiamano con energia l’attenzione del lettore alla centralità di quei cruciali fatti interni – entro la dinamica connessione con le vicende esterne, in particolare la guerra antiviscontea e quella contro Lucca – che portarono al potere Cosimo de’ Medici: fatti la cui narrazione è disattesa non solo dalla storiografia ufficiale, ma anche dalla cronachistica coeva.
L’individuare nella rinnovata «divisione de’ nostri cittadini» – «Uzzani» contro Medici, a partire dal 1420 – la chiave di volta per ricostruire e interpretare il «cacciamento di Cosimo», il suo ritorno e «quello che seguì di questo malfatto cacciamento» (Istorie fiorentine, a cura di G. Di Pino, 1944, p. 3) dà luogo a uno straordinario spaccato del quadro politico-sociale e ideologico della Firenze del primo Quattrocento di cui resta vivo l’interesse, pur dovendosi tenere conto della particolare angolatura e della parziale informazione (non di rado basata su dicerie) che ne condizionano non poco l’attendibilità. Il caso più clamoroso è relativo all’introduzione del catasto nel 1427, voluto e non avversato – come sostiene C., che scambia le parti in causa – da Rinaldo degli Albizzi. Quest’ultimo, tra i maggiori capi della fazione oligarchica, è rappresentato nel corso dell’opera a forti tinte chiaroscurali e contrapposto al ritratto idealizzato e filopopolare di Giovanni de’ Medici e, dopo la morte di questo, alla figura di Cosimo. Nei quattordici libri dell’opera campeggiano, con poche eccezioni, le ambizioni e le prevaricazioni dei cittadini potenti, tesi a perseguire mire private piuttosto che il bene comune, l’iniqua politica fiscale, la guerra fatta per guadagno e per grandigia, il disprezzo per l’agire della «pazza» plebe: un quadro in larga misura in negativo, che precipita appunto nella «malfatta» cacciata, cui segue il vittorioso ritorno di Cosimo.
La polemica contro i «presenti» tempi, già espressa nelle Istorie – dove pur prevalgono le aspettative, riposte nella sconfitta del dispotismo dell’oligarchia albizzesca e nella vittoria di Cosimo –, travalica in amara e sarcastica rampogna nella Nuova opera, in cui si riflette la delusione di tali speranze, in un primo tempo alimentate da alcuni provvedimenti del nuovo regime. La Nuova opera trae anzi la propria giustificazione dalla necessità di illustrare le conseguenze di quanto narrato nella precedente storia, poiché la «dolcezza» del «reggimento» di cui in essa si erano viste le cause e il principio aveva partorito «amarissimo fine». La battaglia di Anghiari (1440) è ora posta come un drammatico spartiacque a contrassegnare l’ormai compiuta e universale corruzione degli antichi costumi cittadini, alla quale l’imperante regime «cosimesco» aveva impresso il suo sigillo, con la riproposizione di una non minore iniquità finanziaria e fiscale e dello strapotere e ambizione della «setta» reggente; a questo si aggiungeva la conquista di sempre maggiori spazi e potere da parte di homines novi e «veniticci», alle spese dei discendenti degli antichi cittadini di Firenze. Sia per lo stile sia per i contenuti la Nuova opera, immaginosamente aperta da una visione e carica di invettive e digressioni moralistiche, rende ulteriormente vistosa l’«eccentricità» dell’autore rispetto alla cronachistica coeva.
La centralità dichiarata delle divisioni civili nella Firenze del primo Quattrocento e la peculiarità della versione dei fatti rispetto ad altre fonti rendono pienamente ragione dell’interesse di M., che della prima opera di C. si è avvalso in più libri delle Istorie, a partire dal III (cfr. A.M. Cabrini, Interpretazione e stile in Machiavelli, 1990, pp. 121-22, 143, 147-48). Il ruolo di C. è incisivo soprattutto nel IV libro, di cui è la fonte privilegiata, contribuendo anche a determinare la fisionomia narrativa e la dimensione scenica di questa parte delle Istorie di M., come risulta dall’evidenza rappresentativa, dalla presenza continua di alcune personalità dominanti e dal potenziamento del discorso – sia diretto sia indiretto – dei personaggi rispetto al racconto. Il confronto con C., di cui non mancano riprese letterali (per un’analisi specifica anche in relazione all’abbozzo autografo cfr. Marietti 1974, pp. 126-30), oltre a fare ulteriormente risaltare la ben diversa organicità e compattezza della narrazione machiavelliana, risulta di particolare rilievo per poter mettere a fuoco – sia nella nuova delineazione di ciò che da C. è ripreso, con altra funzionalità, peso e valore, sia nella valenza di quanto è del tutto modificato oppure omesso – la fisionomia e i ruoli che i personaggi cruciali assumono nel testo machiavelliano e la strategia interpretativa affidata ai discorsi (tra cui, di rilevante importanza, quello di Niccolò da Uzzano, nel cap. xxvii): un confronto tanto più prezioso e rivelatore data la necessaria cautela che l’argomento (le cause e i modi della presa del potere da parte di Cosimo) implicava per l’autore, con ciò richiedendo al lettore di decifrarne l’autentica lezione.
M. interviene a fondo nel ridisegnare rispetto a C. le figure principali e il significato del loro agire politico: Giovanni de’ Medici, di cui potenzia in chiave politico-civile il ritratto ideale di C. (evidenziandone per altro anche il ruolo di primo artefice, con mezzi privati, della potenza dei Medici) in modo tale da farne un vero e proprio contraltare di Cosimo, delineato a sua volta con tratti efficacemente chiaroscurali; Niccolò da Uzzano, fatto divenire la coscienza critica del regime ottimatizio; Rinaldo degli Albizzi, cui è attribuito in toto il ruolo di capo settario degli ottimati e di potenziale tiranno della città, ma anche, nella sconfitta finale, quello di cittadino sdegnoso dei mali della patria, di cui rifiuta la dichiarata servitù. Relative a Rinaldo degli Albizzi sono anche due delle circoscritte riprese da C. nel libro V: nel cap. viii lo spunto – svolto però in ben diverso modo – del discorso di Rinaldo al duca Filippo Maria Visconti, per sollecitarne la nuova guerra contro i fiorentini; nel cap. xxxiv le considerazioni sulle circostanze della morte, in esilio. È significativa inoltre nel cap. iv la presenza di C. in relazione ai provvedimenti presi dai partigiani di Cosimo contro nemici e avversari del nuovo regime: non tanto per i dati desunti quanto per l’omissione della parziale giustificazione che C. dà di Cosimo e della sua non diretta responsabilità.
Per quanto concerne la Nuova opera (di cui ci è rimasto, diversamente che per le prime Istorie – che ebbero un’indubbia diffusione – un unico manoscritto: cfr. Monti 1990) una significativa traccia affiora nel libro VI, nei capp. vi e vii, a proposito dell’assassinio di Baldaccio d’Anghiari, con differenze per altro non marginali: oltre alla positiva raffigurazione del condottiero (mentre aspro e negativo è il giudizio di C.), M. non distingue – come C., pur con qualche ambiguità – l’operato di Cosimo da quello degli altri cittadini responsabili del complotto e conferisce ulteriore spessore a Neri di Gino Capponi, il cui esempio di virtù e reputazione acquisita con i debiti e pubblici mezzi proietta sul suo antagonista, Cosimo, l’ombra delle private ambizioni e di sempre crescenti mire tiranniche.
Bibliografia: C. Varese, Giovanni Cavalcanti storico e scrittore, «La rassegna della letteratura italiana», 1959, 63, pp. 3-28 (con bibl. prec.); M.T. Grendler, The Trattato politico-morale of Giovanni Cavalcanti (1381-c.1451). A critical edition and interpretation, Genève 1973; M. Marietti, Machiavel historiographe des Médicis, in Les écrivains et le pouvoir en Italie à l’époque de la Renaissance, études réunies par André Rochon, Paris 1974, pp. 81-148; G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; D. Kent, The importance of being eccentric: Giovanni Cavalcanti’s view of Cosimo de’ Medici Florence, «The journal of Medieval and Renaissance studies», 1979, 9, pp. 101-32; A. Monti, introduzione a G. Cavalcanti, Nuova opera. Chronique florentine inédite du XVe siècle, éd. A. Monti, Paris 1990; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; A.M. Cabrini, Un’idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Roma 2001.