CONTARINI, Giovanni
Primogenito di Tommaso (1606-1650; straordinario a Sebenico, conte a Zara e, nel 1645 "castellan" al Lido) di Giovqnni e di Elena di Angelo Miani, nacque nel 1632. Ebbe una sorella, Foscarina, sposa nel 1662 ad Alessandro Maria Vianoli (lo storico e un po' anche giurista moralista e verseggiatore) di Agostino, e tre fratelli, Carlo, Bemardo che diverrà "tolentin" e Angelo (1648-1676) che sarà "venturiero" nel 1656 durante la guerra antiturca.
Da non confondere col Giovanni Contarini (1612-1663; questi è conte a Zara nel 1638-39, rettore a Crema nel 1647-48) di Francesco e soprattutto, come è stato fatto, col Giovanni Contarini (1600-1675; ufficiale alle "raxon vechie", conte a Pola, nobile in armata, provveditore al Cottimo d'Alessandria, giudice del Proprio, censore, è questi, infatti, non il C. - come erroneamente asserito da Cappellari Vivaro e Valori il capitano della galea "La gran fortuna", accorsa, con altre, alla fine di gennaio del 1647 in soccorso di quella dello sventurato Tommaso Morosini aggredita, nelle acque di Negroponte, da ben 47 galere turche) di Nicolò.
Il C. viene nominato, il 9 sett. 1654, governatore di nave armata. Donde la sua partecipazione al conflitto con la Porta e la sua presenza allo scontro, del 21 giugno 1655, ai Dardanelli. "Armirante delle navi" nel 1656, nel maggio, quando Lorenzo Marcello organizza il blocco dei Dardanelli, la sua nave, l'"Almirante" appunto, occupa, come attestano le relazioni del tempo, "il luogo più avanzato", tallonata dalla "Patrona" di Girolamo Malipiero e dalla "Capitana" di Marco Bembo. Di spicco, dunque, il suo ruolo nel disporsi della flotta "dalla punta nominata de' Barbieri... sino alla costa della Grecia", sì da sbarrare "il passo" al nemico, costretto così ad accettare "una fierissima battaglia", quella del 26 giugno, nella quale viene duramente battuto. Quindi il C., agli ordini del provveditore d'Armata Barbaro Giacomo Badoer che, caduto in combattimento Marcello, ha assunto il comando delle operazioni, prende parte alla presa, del 13 luglio, di Tenedo. Una conquista importante, a detta di Badoer, punto di forza per il controllo delle "bocche" e per ulteriori azioni offensive, base d'appoggio per "ogni nostra squadra", minaccia per Scio Metelino Leinno e per la stessa "terraferma" turca "qui all'intomo", donde "ferir nelle viscere più interne l'inimico". "Piazza stimabile maggiormente - aggiungerà il capitano straordinario delle galeazze Lorenzo Renier - per il rancore" col quale i Turchi "ne sopportano il discapito". Perfezionato l'insediamento, la "consulta" - come il 25 luglio Badoer informa il Senato, il quale, il 28 ottobre ratificherà le nomine - prepone al "governo" dell'isola il C. quale provveditore ordinario, affiancato dal nobile in Armata Gerolamo Loredan di Pietro, scelto quale provveditore straordinario. Distinte e complementari le compe - tenze dei due: al C. spetta l'amministrazione della giustizia civile e penale "verso questi popoli e chiunque non havrà paga dal publico", mentre è compito di Loredan occuparsi del "commando e direttione di tutte quelle cose che sono pertinenti alla fortificatione e alla militia".
Presidia la fortezza un contingente di 504 soldati agli ordini del colonnello Claudio Arasi (o Arassi), cui rendono conto gli altri nove ufficiali. Circa 54 i pezzi d'artiglieria: cannoni di bronzo e ferrei, 6 falconetti, 5 "colombrine". In pessimo stato le fortificazioni, al cui riattamento presiede il "cavalier Verneda ingegnier maggiore"; pel momento nel "recinto basso", non senza vanità dei due provveditori, si costruiscono "doi piccoli mezi baloardetti, l'uno nominato Loredano et l'altro Contarini", mentre il "cavaliere" tra loro s'intitola a Lazzaro Mocenigo.
Svaniti rapidamente gli entusiasmi della conquista, S'appalesano crudamente le difficoltà d'una salda presa di possesso. Impossibile approntare, coi pochi mezzi e colla scarsa manodopera disponibile, tempestivamente adeguate difese murarie, arduo provvedere (ed è questo il compito principale del C., che sovrintende, perciò, al "raccolto di grani", alla vendemmia, alla semina nei "campi di publica ragione", alla riscossione della "decima" sul raccolto complessivo, all'approntamento dei "bottame" per "conservare li vini") all'approvvigionamento. "Qui si trova grandissima carestia di tutte le cose pertinenti al vivere" - lamenta il C. nelle sue lettere -, poiché l'isola non è autosufficiente dal punto di vista alimentare, anzi dipende per "ogni cosa" dall'estemo. E, perché "resta il tutto trattenuto dall'armata, senza permetter alcuna portione alla piazza", egli deve assistere impotente al "patimento" delle "militie" e degli "habitanti", privi entrambi dei "necessari alimenti". È infatti, "miserabile" la loro condizione, specie quella degli indigeni, peraltro da lui costretti a cooperare ai lavori di fortificazione. E l'angosciano le "continuate esclamationi di questi poveri habitanti accompagnate da molte lacrime". Certo i "greci" non hanno alcun motivo di riconoscenza per il vessillo di S. Marco. E quando i Turchi - favoriti da un'incauta mossa di Lorenzo Renier che lascia senza la custodia delle galeazze la costa occidentale dell'isola - sbarcano nottetempo, il 24 ag. 1657, "i greci del paese" di guardia, lungi dall'opporre resistenza e dal dare, quanto meno, l'allarme, "immediate si ridussero alla divotione del Turco". E, senza che Renier riesca ad impedirli, seguono il 26 e il 27 altri due sbarchi. Ormai consistente la presenza ottomana nell'isola; bastano comunque 200 turchi aggressivi a fugare ignominiosamente 800 uomini sbarcati dalle navi a far acqua. Il panico dilaga, fomentato dalle "relationi degli ingegneri" concordi nel giudicare "la piazza in stato di niuna diffesa colle fortificationi ancora imperfette che riuscivano più di scala a' nemici per salire che di ostacolo a' loro tentativi". Arasi e altri ufficiali - non tutti però, ché taluno caldeggia un minimo d'impegno difensivo - a loro volta sostengono l'impossibilità della resistenza essendo "le militie in... poco numero et strache dall'esser continuamente per 5 giorni et 5 notti continue con il moschetto alla spalla senza speranza di haver il cambio, incapaci, pertanto di fronteggiare le truppe ottomane fatte ascendere - esagerando - a 8 mila uomini. Di qui la decisione, del 30, della "consulta" (formata dal C., Renier, Loredan) unanime, di sgomberare Tenedo, imbarcando uomini viveri munizioni artiglieria e facendo "volar la fortezza colle mine e fornelli" sì d'abbandonarla "devastata nelle mani" nemiche. Di fatto, però, quella che doveva essere una ritirata ordinata e dignitosa si risolve in una concitata caotica e "vile" fuga, ché vengono lasciate ai Turchi le scorte di viveri, le munizioni e quasi tutta l'artiglieria e le fortificazioni pressoché intatte dal momento che solo una mina esplode, danneggiando un piccolo tratto di mura. Uno spettacolo di "inaudita e turpe viltà" secondo il giudizio severo del Senato, che Renier s'affanna subito ad addossare ai due provveditori, mentre questi scaricano ogni responsabilità sulla mancata collaborazione dell'"armata", quindi, su Renier. Riparati nelle acque di Lemno il C. e Loredan scrivono, infatti, il 4 settembre, annunciando, "con animo afflitto e inconsolabile... la disfatta dei Tenedo", piangendone "il fine tragico al quale ha convenuto socomber... per non esser mai stato assistito dall'armata come si doveva et come io", Loredan, "in tutte le mie riverentissime lettere sempre ho portato a publica notitia".
Esibizioni di dolore che non placano lo sdegno della Repubblica, smaniosa di punizione. Per incarico del Senato l'avogador Francesco Molin svolge l'indagine ed il "processo" da lui "formato" viene trasmesso il 29 novembre al Consiglio dei dieci, il quale, il 3 dicembre, decide venga "accettato per proseguire gli effetti di giustitia". Meno gravi le responsabilità di Renier: è colpevole di scarsa "vigilanza" e "trascuratezza". Ben più pesante la posizione del C. e Loredan: al semplice "aviso" del primo sbarco nemico hanno subito "stabilito nell'animo" la cessione di Tenedo assicurandosi di mettere in salvo "le loro particolari robbe e capitali", scoraggiando con tale "esempio" il già avvilito spirito di resistenza del presidio. Ancora più scandalosa la precipitosa fuga senza nemmeno tentare di mettere in atto il piano di sgombero pur fissato da loro in sede di "consulta". Vengano, Pertanto, arrestati o, "non potendosi haver", debbano presentarsi, entro due mesi, alle "prigioni di capi" del Consiglio dei dieci "per diffendersi et escolparsi". In caso contrario si proceda egualmente in loro "absenza" e "contumacia". Ma, mentre Renier, più avveduto, s'affretta a presentarsi e riesce a scagionarsi sino a riprendere, assolto, la carriera politica e a conseguire l'"honore cospicuo di consigliere", i due scelgono la latitanza, rendendosi così colpevoli anche di "inobedienza" e disprezzo della "publica auttorità". Arrestati, nel gennaio del 1658, in Istria, guadagnatasi l'"intelligenza" del rettore di Capodistria Gaspare Soranzo e del "vicecollateral" Andrea del Sacco e da quest'ultimo muniti di "fedi" stampate "di sanità di diversi luoghi della provincia" opportunamente "falsificate", fuggono, "permettendo esso Soranzo che partino con le loro armi da fuoco lunghe e corte" e si pongono "in sicuro". Furente il Consiglio dei dieci procede contro di loro "absenti, ma legitimamente citati", emettendo, il 15 febbraio, una durissima sentenza che li priva della nobiltà (e in più un "marmo" da porre "al broglio" di palazzo ducale "in luogo patente e conspicuo" rechi l'"inscrittione" a perenne memoria della loro viltà), li condanna al bando perpetuo (e, in caso di cattura entro le terre venete, li attende la pubblica decapitazione tra le "due colonne di S. Marco"), alla confisca dei beni. Severissime le sanzioni per chi ardirà aiutarli. Allettanti le taglie per chi li farà catturare o li ammazzerà, favorito anche dalla facoltà di "liberare un bandito" o "un confinato". Fatto obbligo ai "comuni... ville contadi e luoghi del Dominio, dove ogn'uno" dei due eventualmente "capitasse" di "suonare campana a martello et curar ogni diligenza per prenderlo vivo".
Il C., comunque, si salva riparando all'estero ove vive, sia pure coll'onore infangato, sino al 1675.
"Si amazzò da sé con una pistolla", informa un'aggiunta alla copia del Correr delle Genealogie del Barbaro; "fu detto, perché, essendo in Fiandra, cedesse una piazza" per denaro. Un'ulteriore nota fosca, dunque, anche nel finale. Evidentemente ignaro della sua vicenda il minorita Agostino Macedo, in un suo poemetto latino, uscito nel 1680, rievocante la Victoria, del 26 giugno 1656, de classe turcica celeberrima ad fauces Hellesponti, ricorda il valoroso battersi del C. "nobile nomen", nonché "Turcarum exitio". Qualche anno dopo il napoletano Francesco Pazienza, docente nello Studio di S. Carlo a Modena, soffermandosi sulla resa di Tenedo, si mostra restio ad accreditare la versione della "colpa" dei due provveditori. Membri d'una "dignissima nobiltà", è impossibile non si siano comportati con dignità. Quanto al Vianoli, cognato dei C., egli aveva accennato brevemente al "disordine" dell'abbandono di Tenedo e alla punizione del "bando capitale" inflitta ai "chiamati ed absenti provveditori", omettendo, però, di precisare i nomi di questi.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Segretario alle voci. Elezioni dei Pregadi, reg 17, cc. 92v, 134r; Ibid., Senato. Lett. provv. da Terra e da Mar, filze 899, passim;1222, lett. nn. 8, 10 e, per Tenedo in genere, passim;1381, lett. di Lorenzo Renier del 17 agosto-20 sett. 1657 e docc. allegati; Ibid., Cons. dei dieci. Criminal, reg. 74, cc. 116v-117v, 143r-144v, 145v-148 (e filza 90, alle date 3 dic. 1657 e 15 febbr. 1657 m. v.);Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, I, cc. 294r, 308r (con inesattezze); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Gradenigo-Dolfin, 81: M. Barbaro, Genealogie..., II, cc. 316r, 317v; Ibid., Cod. Cicogna, 3123/84: copia della sentenza di bando; Ragguaglio della Vittoria ... 26 giugno 1656, Venetia 1656, non num., nell'elenco "de' vascelli"; G. Brusoni, Hist. dell'ultima guerra tra Ven. e Turchi..., Bologna 1674, I, pp. 251, 251; II, pp. 17-21; A. Valier, Hist. della guerra di Candia..., Venetia 1679, pp. 419, 422; A. Macedo, Elogia..., Patavii 1680, p. 126; A. M. Vianoli, Hist. ven., II, Venetia 1684. pp. 631, 635, 641; F. Piacenza, L'Egeo redivivo, Modena 1688, pp. 412 ss.; B. Nani, Hist. Ven., in Degl'ist. delle cose ven...., IX, Venezia 1720, pp. 370, 390 s.; G. Diedo, Storia ... di Venezia..., III, Venezia 1751, pp. 241, 250; G. Cappelletti, Storia ... di Venezia, X, Venezia 1855, pp. 282 (per Giovanni di Nicolò), 420, 433; E. Celani, Di una carta ... raffigurante la battaglia ... dei Dardanelli..., in Nuovo Archivio veneto, IX (1895), p. 461; G. Ferrari, Le battaglie dei Dardanelli..., in Memorie storiche militari, IX (1913), pp. 41, 60 S.; E. Tragni, Due manoscritti ... su due azioni navali..., in Rivista marittima, XLVI (1913), I, p. 74; G. Bustico, Una condanna ... per tradimento..., Domodossola 1915; M. Nani Mocenigo, Storia della marina ven., Roma 1935, pp. 153 (per Giovanni di Nicolò), 183, 204; G. A. Quarti, La battaglia dei Dardanelli..., estr. da Crociata, XVI (1938), 3, p. 7; R. Quazza, Preponderanze straniere, Milano 1938, p. 232; A. Valori, Condottieri.. del Seicento, Roma 1943, p. 94 (con confusioni); La civ. ven. nell'età barocca, Firenze 1959, p. 295.