CORAZZARI (Corrazzano), Giovanni
Scarsissime sono le notizie che possediamo sulla vita del C.: l'ab. Michele Giustiniani lo dice nativo di Lerici (La Spezia); Raffaele Soprani afferma che vestì l'abito domenicano e fu chiamato fra' Pietro. Dalle opere risulta, inoltre, che soggiornò a lungo a Genova, dove poté entrare in contatto con l'ambiente mercantile e finanziario cittadino e studiare la legislazione monetaria della Repubblica; a Genova strinse amicizia con Giovanni Agostino Marini, eletto doge nel. 1641 e morto, mentre era ancora in carica, l'anno seguente. Già nel 1636, tuttavia, il C. doveva essersi trasferito a Roma, perché in questa data egli risulta aver sottoposto il suo Tractatus all'esame di vari teologi romani. Non è nota la data di morte. Due sono le sue opere: Tractatus de augmento monetae, quo legum sanctionibus, curiarum iudiciis, gentium moribus, necnon firmitate rationum, communi doctorum omnium tum turistarum, tum theologorum consensu, in qualibet monetarum variatione, variisque contrahendiformis regulae solutionum pragscribuntur, Romae 1611 e Concordia generalis doctorunt ad regulas solutionum pro qualibet variatione monetarum, variisque contrahendiformis in tractatu de augntentatione monetae praescriptas, Romae 1642. Nel 1635, su richiesta del Senato della Repubblica di Genova, due giuristi espressero l'opinione che nell'estinzione di censi e frutti o nel pagamento di obbligazioni pecuniarie si dovesse tener conto dell'"augmentum monetarum"; ne derivò la pretesa da parte di molti creditori di rivalersi della svalutazione monetaria sui debitori, in difesa dei quali il C. scrisse il suo trattato, confutapdo il parere dei giuristi.
L'opera si divide in sei articoli: Quid universaliter de hac materia in iure definitum et ab omnibus communiter receptum reperiatur; Quodnam habeat nova positio augmenti fundamentum; Quid et quotuplex sit monetae augmentum; Cui et quale augmentum debeatur; Quid iuris et rátionis in nova positione censendum; Qualiter obiectiones in contrarium dissolvantur. Dopo aver giudicato l'argomento "rem gravem et ad commune bonum pro utroque foro maxime spectantem", il C. definisce alcuni principi universalmente accettati: qualora per contratto sia destinata al pagamento una certa specie e quantità di moneta, il pagamento deve avvenire nella stessa moneta, quando essa abbia corso; in caso contrario, o qualora essa sia stata alterata nella sua bontà intrinseca, occorre pagare l'equivalente della stessa moneta secondo il valore che essa aveva al tempo del contratto; qualora essa sia di difficile reperibilità, occorre versare l'equivalente della moneta secondo il valore che essa ha al tempo del pagamento; nel caso che si tratti di moneta generica, come lo scudo o la libbra genovese, il pagamento può avvenire in qualunque moneta, eccetto quella vilissima; lo scudo e la libbra si intendono essere dello stesso valore e ragione quando risultino dello stesso numero di quadranti o denari perché, essendo questi ultimi le monete minime, esse non possono venire deteriorate; qualora, invece, lo scudo o la libbra siano variati dal principe, in qualsiasi moneta avvenga il pagamento, essa deve essere calcolata secondo lo scudo o la libbra come erano al tempo del contratto; tutte queste affermazioni risultano valide purché non richieda il contrario una speciale consuetudine, "quia praccipue in hac materia monetarum, praesertim inter personas privatas, semper est aemulanda et cuicuinque Statuto et generali etiam consuetudini praeferenda". Il C. passa, quindi, ad analizzare il parere espresso dai giuristi genovesi. Avendo osservato che tutte le monete., a causa di una continua svalutazione, possono essere considerate deteriorate, ne consegue che anche la libbra, benché non sia variata nel numero, risulta variata nel valore dei soldi coi quali è stimata. Infatti, per la variazione del valore intrinseco della moneta minuta può accadere che muti il valore estrinseco di quella aurea o argentea (come si è verificato appunto a Genova); essendo universalmente ammesso che, in caso di variazione del valore intrinseco delle monete, si debba pagare secondo il valore corrente al tempo del contratto, i due giuristi concludono che anche le soluzioni dei debiti devono essere fatte secondo tale criterio. Questo parere teneva conto anche della difficile situazione monetaria verificatasi a Genova a partire dal 1606, dovuta al diffondersi di monete contraffatte, alla quale situazione non poté ovviare alcun provvedimento legislativo. Tuttavia, l'opinione dei giuristi si poneva esplicitamente contro numerose decisioni del Senato, secondo le quali il frutto di alcuni censi doveva essere pagato in monete calcolate secondo il valore corrente al tempo del pagamento. Il C., inoltre, obietta che in un contratto in cui entrambi i contraenti si espongono egualmente al pericolo di un guadagno o di una perdita, la eventuale rivalutazione o svalutazione della moneta ricade legittimamente su ognuno di essi. Dopo una rapida storia della moneta (intesa aristotelicamente come nomos e considerata res e merx), stabilita la differenza tra moneta reale o effettiva o specifica e moneta generica o universale o immaginaria, ribadita la differenza tra bontà estrinseca e bontà intrinseca, il C. afferma che solo la moneta minima, come il denaro genovese, rimane invariabile, perché non ha alcun termine col quale possa essere stimata e perché risulta coniata con materia talmente vile da non essere sottoposta ad alterazione di sorta; egli analizza successivamente la bontà intrinseca (essenziale per la moneta è il conio in metallo pregiato da cui dipende il suo valore) e le cause della bontà estrinseca, identificandole nelle "temporum varietates, commerciorum conditiones reruinque vicissitudines"; così a Genova, data la penuria di moneta aurea e argentea dovuta alla frequenza degli scambi, il suo valore estrinseco è aumentato col tempo, favorito anche dal frequente utilizzo dei metalli preziosi in suppellettili private e pubbliche. Esaminata, quindi, Torigine e l'essenza della giustizia commutativa, viene definito il principio generale nel pagamento dei contratti pecuniari; viene, quindi, ribadita la regola che in ogni contratto condizionato (quando, cioè, al pagamento sono destinati un certo tipo e quantità di moneta) il pagamento deve avvenire nella moneta dello stesso tipo e numero destinato al pagamento o, qualora essa non sia più in uso o sia totalmente rifiutata perché mutata nella sua bontà intrinseca, in altra moneta equivalente secondo la stima che essa aveva al tempo del contratto; in ogni contratto assoluto in moneta generica, il pagamento può avvenire in qualsiasi moneta al valore corrente, eccettuata la moneta più vile, come il denaro genovese, il cui utilizzo nei pagamenti dei debiti è regolamentato da leggi nei vari Stati. Tale norma, conclude il C., è in accordo con gli stessi usi della Repubblica di Genova dove, eccettuati i debiti di S. Giorgio e i contratti dotali, ogni altro tipo di obbligazione pecuniaria è saldato in moneta secondo la stima e il prezzo corrente. L'opinione dei giuristi genovesi viene respinta, infine, perché contraria ad una consuetudine inveterata: "consuetudo enim - nota il C. - pro lege custodienda est et efficacissime declarat voluntatem contrahentium ex qua contractus legern accipiunt".
L'opera, farraginosa e tradizionalista nella volontà di conciliare, attraverso il meccanico ripetersi delle citazioni, le opinioni dei teologi con la "opinio communis et approbata" dei giuristi, dimostra, tuttavia, il ripensamento profondo della produzione dei teologi-giuristi appartenenti alla "seconda scolastica".
La Concordia generalis, dedicata al doge G. A. Marini, si divide in dieci paragrafi: Praesuppositio terminorum; Primum priticipium iuris et medium ìustitiae contractus pecuniarii; Regula generalis solutionum bonitatis intrinsecae; Regula generalis solutionum bonitatis extrinsecae; Regula generalis solutionum valoris currentis; Conciliatio pugnantium locorum; Principalis thematis demonstratio; Confirmatio a fortiori in censibus; Novae positionis contrariae dissolutio; Facti iusta et conveniens satisfactio. È preceduta da una serie di pareri di teologi su questioni generali o su singoli punti affrontati nel Tractatus, in cui risalta soprattutto la preoccupazione di impedire che un eventuale aumento della somma da restituire possa cadere nel pericolo dell'usura. Tutti questi pareri, inoltre, concordano nell'affermare che in ogni tipo di obbligazione pecuniaria il pagamento deve essere fatto tenendo conto sia della bontà intrinseca della moneta al tempo del contratto sia della bontà estrinseca di essa al tempo del pagamento stesso. Il C. procede, quindi, ad una analisi dei vari termini utilizzati nella teoria monetaria e, dopo aver definito alcune regole generali, si sforza di conciliare le divergenti opinioni su singoli problemi, tenendo presenti lo ius commune, la consuetudo e la conventio. Dopo aver passato in rassegna vari problemi connessi alle obbligazioni pecuniarie, già affrontate nel suo precedente trattato, l'opera si conclude con una analisi dei contratti censuari, per confermare la validità dei principi assegnati all'estinzione dei debiti pecuniari. Oltre alle fonti già utilizzate nel Tractatus (Ludovico Cencio, Paolo Laymann, Sigismondo Scaccia, Iacopo Menochio e altri), il C. ricorre largamente al Tractatus de iure monetario di Johann Kitzel.
Fonti e Bibl.: M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma 1667, pp. 322 s.; R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1667, pp. 145 s.; A. Oldoino, Athenaeum Ligusticum seu Syllabus scriptorum Ligurum, Perusiae 1680, p. 316; J. Quétif-J. Echard, Scriptores Ordinis praedicatorum, II, Lutetiae Parisiorum 1721, p. 528; E. Gerini, Mem. stor. d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica e moderna Lunigiana, II, Massa 1829, p. 298;G. B. Spotorno, Storia letter. della Liguria, V, Genova 1858, p. 113; P. Grossi, Ricerche sulle obbligazioni pecuniarie nel diritto comune, Milano 1960, pp. 31, 94, 229, 243 s., 475.