CORSI, Giovanni
Nacque a Firenze nel 1472 da Bardo (del ramo di Domenico) e Francesca Tedaldi.
Non sembra probabile che, come ipotizza Iacopo Gaddi, il padre sia da identificare con quel Bernardo che, nell'anno 1465, aveva ricoperto la carica di ambasciatore presso il sultano e il re di Cipro.È certo tuttavia che la famiglia del C. costituiva una delle maggiori case fiorentine, annoverando fra i suoi membri (a partire dal sec. XIII sino alla fine del XV) ben trentaquattro signori e sette gonfalonieri. Col C. la presenza della famiglia Corsi nelle maggiori cariche della città si rinsaldò ulteriormente nei primi decenni del sec. XVI, anche se si verificò una sensibile modifica nella posizione politica, che i contemporanei non mancavano di rilevare e che avrebbe condizionato le successive vicende della casa. Iacopo Nardi, ad esempio, commentava le differenze introdotte dal C. nell'orientamento politico della famiglia sottolineando come questi apparisse "confidente et affezionatissimo alla casa Medici, contro alla naturale disposizione d'animo di Bardo suo padre e de' suoi antichi; segnalati amatori della libertà" (Nardi, II, pp. 222 s.).Se la fama del C. appare soprattutto legata all'aver egli occupato importanti cariche pubbliche dopo il rientro dei Medici a Firenze nel 1512, è pur vero che le prime manifestazioni delle sue tendenze politiche cominciano a palesarsi sin dai primi anni del sec. XVI, nel periodo cioè in cui entrò in contatto con l'ambiente degli Orti Oricellari. Gli amici che frequentò in questi anni, come Francesco Vettori, Pietro Martelli, Pietro Crinito, Francesco Cattani da Diacceto, appartengono tutti a quel circolo umanista in cui era viva l'opposizione aristocratica al governo popolare del Soderini. Nel successivo periodo di maggiore fioritura degli Orti Oricellari, fra il 1513 e il 1522, quando essi sarebbero divenuti il centro dell'opposizione repubblicana, il C. si sarebbe gradualmente allontanato mantenendosi coerente con i suoi ideali aristocratici di governo ristretto. Nell'ambiente degli Orti Oricellari, e soprattutto attraverso l'insegnamento di Francesco Cattani da Diacceto, il C. entrò in contatto con la filosofia del Ficino. Una testimonianza dei vincoli di amicizia che lo legarono al Diacceto è la dedica che questi fece al C. di un panegirico sull'amore. La prova dell'ammirazione del C. per il pensiero del Ficino è costituita dalla stesura, nel 1506, della Marsili Ficini vita, la prima biografia del filosofo.
In essa, non certamente priva d'imprecisioni, il C., che non aveva conosciuto personalmente il filosofo, rielaborava le testimonianze desunte dall'ambiente umanistico che frequentava. Dedicata a Bindaccio Ricasoli, fu composta soprattutto "per fare cosa gradita al Ricasoli e per esaltarvi la casa de' Medici e i suoi propri amici" (P. O. Kristeller, Un uomo di Stato..., p. 274).Il confronto fra la decadenza della Firenze del Soderini e la fiorente Repubblica dominata dai Medici appare chiaramente e testimonia una scelta politica a cui il C. si sarebbe mantenuto coerente anche in seguito: "in nostra civitate, pro disciplinis ac bonis artibus inscientia et ignorantia, pro liberalitate avaritia, pro modestia et continentia ambitio et luxuria dominantur" (Ficini vita, cap. 9).
Un'ulteriore conferma della formazione umanistica del C. è rappresentata dalla sua prefazione del 1508 all'edizione fiorentina del De prudentia del Pontano.
Il C. aveva personalmente conosciuto il Pontano in un viaggio a Napoli fra il 1501e il 1503 e da lui aveva avuto una copia del De prudentia, forse per diffonderne il contenuto nella cerchia dei letterati fiorentini. Il volume, apparso nell'agosto del 1508, fu dedicato dal C. all'arcivescovo di Firenze Cosimo de' Pazzi.
Di qualche rilevanza per precisare il tipo di formazione del C., appaiono anche le traduzioni in latino di quattro operette minori di Plutarco ancora inedite. Composte fra il 1511 e il 1513, furono dedicate agli amici del circolo umanistico (Palla Rucellai, Vincenzo Querini, Francesco Vettori, Francesco da Diacceto) e rappresentano uno degli ultimi contributi diretti del C. a quella "cultura latina dell'Umanesimo, parte retorica e parte filosofica come fu propagata dal Ficino e dalla sua scuola" (P. O. Kristeller, Un uomo di Stato…, p. 254). Ormai, dopo il rientro dei Medici nel 1512, con i numerosi incarichi pubblici ricoperti, l'impegno umanistico del C. avrebbe rappresentato un aspetto marginale della sua attività.
Dopo il 1512, nel periodo in cui i Medici rifondavano su basi nuove il proprio sistema di governo facendo appello ai maggiori esponenti dell'aristocrazia fiorentina per liquidare gli aspetti più stridenti del periodo popolare, anche un oppositore del Soderini come il C. poteva costituire un utile elemento di sostegno alla nuova realtà politica. La carica di ufficiale di Onestà, che aveva occupato nel 1498, nel periodo cioè successivo alla cacciata dei Medici, non costituiva certamente una macchia nel passato politico del C.,. che era rimasto sempre fieramente all'opposizione negli anni del Soderini. Proprio nel 1512 venne eletto membro della balia, dell'organo cioè che concentrava il potere legislativo e gran parte di quello esecutivo, e in cui erano rappresentate le maggiori famiglie aristocratiche. Dopo un incarico di ambasciatore a Venezia, sempre nel 1512, fu inviato, fra il 1513 e il 1515, quale rappresentante fiorentino presso la corte spagnola.
Il governo dei Medici, in questo, come in altri casi, affidando al C. un incarico diplomatico, sapeva mettere a frutto le capacità oratorie di un uomo di lettere che dai contemporanei veniva spesso "udito disputare ornatamente nelle pubbliche ringhiere, della integrità della vita, della giustizia, della Repubblica, della libertà, e di quei lodevoli uffici che si devono alla carità della patria" (Nardi, II, p. 199). Il compito di osservatore presso la corte di Ferdinando il Cattolico si rivelò al C. particolarmente arduo, come scriveva il 23 marzo 1514a Lorenzo de' Medici, dal momento che "questa Maestà è tanto cauta e segreta circa el suo negotiare che non solamente è difficile, ma al tutto impossibile potere investigare nessuno suo concepto". La lettera continuava: "Et ha ad sapere V. M. che in questa corte sono grandi baroni assai antiqui servitori di questa Maestà et con nessuno confida né mai comunica nessuno suo disegno ... Di modo che è necessario, al non volere qui errare, scrivere solamente gli effetti et quando sono venuti a luce" (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo avanti il Principato, XXVI, n. 626, c. 132).
Nel viaggio di ritorno dalla corte spagnola, il C. passò per la Francia, e tramite l'amico Francesco Vettori, fu introdotto presso il re Francesco I.
Negli anni successivi gli incarichi politici in Firenze e fuori si alternano con le missioni diplomatiche. Fra il 1517 e il 1522 occupò le cariche di capitano a Pistoia (1517), fu eletto fra i Conservatores legum (1518), fu console del Mare a Pisa (1518), fu fra i Boni viri stincarum (1520), fra gli Otto di guardia (1520). Dopo essere stato inviato quale ambasciatore a Siena nel 1521, poté infine accedere, nel gennaio 1522, all'ufficio più prestigioso della Repubblica, quello di gonfaloniere di Giustizia.
Di nuovo in Spagna fu inviato nel 1522 insieme a Francesco Girolami per rivolgere a Carlo V le congratulazioni del governo fiorentino per l'elezione a imperatore, avvenuta nel 1519. Dopo una missione diplomatica a Venezia nel 1524, il C., sempre nello stesso anno, ebbe l'incarico di accompagnare a Firenze i due rampolli illegittimi della casa Medici, Ippolito, figlio di Giuliano, e Alessandro, figlio di Lorenzo.
Questo incarico testimonia il grado di fiducia raggiunto dal C. presso la famiglia Medici e in particolare presso Giulio de' Medici, che, eletto papa nel 1523 e costretto ad abbandonare il governo fiorentino, trasferiva la direzione effettiva degli affari nelle mani del cardinale Silvio Passerini e inviava a Firenze Ippolito e Alessandro come rappresentanti ufficiali della continuità familiare. Il C. diveniva una specie di precettore dei due giovani. Il Busini, a tale proposito, nota come il C. "con grandissima cura aveva cerco, essendo solo e ricco e dotto, il governo dei due fanciulli, avendo tolto quel guadagno a Rosso Ridolfi, che era carico di figliuoli e senza lettere" (p. 74). Evidentemente non tanto il desiderio di denaro quanto piuttosto il prestigio sociale era stata la ragione della "grandissima cura" con cui il C. aveva cercato di procurarsi l'incarico di guidare i due Medici.
Nel 1525, all'indomani della battaglia di Pavia, il C. fu nuovamente inviato presso la corte spagnola.
Questa missione diplomatica, nel momento in cui Carlo V estendeva la sua influenza in Italia nonostante l'opposizione di Clemente VII e debellando a Pavia l'esercito francese, appariva subito più complessa delle altre svolte dal C. in Spagna. In una lettera del 27 marzo esponeva le difficoltà incontrate: "veramente, doppo la capitulazione fatta da Sua Santità con el Re Christianissimo, ho havuto uno pessimo tempo a negotiare in questa corte; et benchè sia andato temporeggiando et iustificando con addurre quelle ragioni che mi parevano le migliori in excusatione di nostro Signore et nostre, nondimeno non è giovato" (Documenti per servire..., p. 321). I sottintesi presenti nei discorsi di Carlo V non potevano non preoccupare il Corsi. Come quando, ad esempio, l'imperatore, riferendosi alla vittoria di Pavia, tacitamente criticava l'atteggiamento degli ex alleati sostenendo che "quantunque tale felicità gli potessi parere tanto maggiore, quanto in essa non haveva havuto in compagnia alcuno delli amici sua, nondimeno voleva ch'ella fusse comune a tutti" (ibid.). Il C., di ritorno dalla Spagna, poteva riferire al governo fiorentino e soprattutto al papa l'ammonimento severo che l'imperatore gli aveva rivolto: "Ambasciatore, voi direte da parte nostra a Sua Santità che per cosa alcuna grande che Sua Santità facci contro di me io sarò sempre obbediente figliuolo alla sedia apostolica. Ma quando Sua Santità farà cosa che sia pernitiosa alla Christianità ditegli che al mondo non harà el maggiore inimico di me" (Rostagno, p. LXX).
Eletto dei Signori nel gennaio 1527, si trovava a Pisa, quando, nel maggio dello stesso anno, i Medici furono cacciati da Firenze.
In una lettera del 18 maggio, indirizzata al Vettori, il C. esprimeva i suoi timori, sulla nuova forma di governo dimostrando tuttavia anche le sue perplessità di uomo di Stato ormai disilluso e incapace di sottoscrivere completamente il "sistema" dei Medici, forse sempre più lontano dalle sue aspettative: "Intendiamo della nuova forma di governo della quale non ho altro dire senone che indicherò ogni governo essere buono, quale non solamente sarà adprovato dallo universale, ma che ancora succeda tale che rimedii alla imminente ruina del sacco ... Io per electione mi sono levato a curis reipublice et non mi essendo forza non vorrei più ritornarci" (Archivio di Stato di Firenze, Carte strozziane, s. I, 98, cc. 252, 259).Non poté tuttavia non condividere la sorte di coloro che nel periodo mediceo avevano ricoperto importanti cariche. Costretto ad abbandonare il territorio fiorentino, riparò a Lucca, col cardinale Passerini. Nella Repubblica lucchese si adoperò per impedire che le fortezze di Pisa fossero consegnate ai Fiorentini. In seguito, con altri esponenti del partito mediceo, si stabilì a Roma presso la corte di Clemente VII. Nel 1529, insieme ad altri ventotto cittadini "delle prime case di Firenze", che "fra 'l termine loro assegnato tornati non erano" (Varchi, II, p. 132), fu dichiarato ribelle.
Solo nell'anno 1530, con la caduta della Repubblica, il C. poté rientrare in Firenze al seguito dei Medici e ricoprire cariche adeguate al suo passato prestigio politico. Nel 1530 fu eletto per la seconda volta gonfaloniere di Giustizia. Proprio in questo periodo il C. provocò l'esilio di Silvestro Aldobrandini, esponente dell'opposizione ai Medici, che fu confinato per tre anni a Faenza.
Nel 1531 fece parte dei ventiquattro accoppiatori, scelti per squittinare gli eleggibili alle varie magistrature. Nel 1532 fu infine eletto senatore per il quartiere di Santa Croce. L'ultimo incarico diplomatico gli fu affidato nel 1534, quando partecipò alla legazione inviata per rendere obbedienza al nuovo pontefice Paolo III, davanti al quale pronunciò un discorso solenne.
Legato da amicizia a Francesco Guicciardini, ebbe il privilegio di conoscere in questi anni, fra i primi, la Storia d'Italia a mano a mano che veniva composta dall'autore. Il giudizio secondo il quale le poche correzioni apportate al manoscritto dell'amico possono essere considerate "il maggior titolo della fama letteraria del Corsi", come è stato sostenuto da Roberto Ridolfi, appare dubbio e finisce per sminuire tutta l'attività di uomo di cultura svolta dal C. nel primo decennio del sec. XVI. In realtà i consigli, i giudizi, i suggerimenti che il C. andava annotando durante la lettura della Storia del Guicciardini hanno un valore limitato sia per lo scarso conto in cui il Guicciardini stesso li tenne, sia in quanto rappresentano notazioni marginali di stile piuttosto che contributi veramente nuovi, utili per l'elaborazione dell'amico. Maggiore interesse presentano per la ricostruzione delle vicende biografiche del C. in quanto permettono di evidenziare il suo impegno umanistico, che potrebbe apparire limitato al periodo giovanile, e che costituisce al contrario un aspetto costante in tutta la sua attività. Le osservazioni critiche al manoscritto dell'amico appaiono del tutto formali. Tale è, ad esempio, il rimprovero per la "familiarità e fiorentinità dell'elocuzione" (ibid., p. 205), e tale è anche il consiglio circa la suddivisione in libri della Storia: "Harei desiderato che almeno terminassi in XX libri et non in XIX come numero più perfecto" (Rostagno, p. LXXIII). Alcuni suggerimenti di carattere generale il C. espresse al termine della lettura riconoscendo nel Guicciardini il maggiore degli storici: "Omnes procul dubio quotquot historiam scripserunt longe superas" (ibid., p. LXXIV).
Dopo l'assassinio di Alessandro de' Medici, il C. cominciò a ritirarsi sempre più dalla vita politica. A ciò contribuì naturalmente l'età piuttosto avanzata. Non fu tuttavia estranea la difficoltà del C. di riconoscersi in una realtà politica sempre più lontana dai suoi progetti di governo aristocratico, che erano venuti prendendo forma nel periodo della prima fioritura degli Orti Oricellari, durante il quale aveva forse accarezzato il modello politico della Venezia aristocratica. Forse proprio per questa sua lontana formazione giovanile e certamente per la sua collocazione sociale di aristocratico, il C. fu contrario all'elezione di Cosimo I, dopo la morte di Alessandro. Ben presto tuttavia, proprio nel 1537, insieme con altri amici, quali Francesco Vettori, Francesco Guicciardini, Matteo Niccolini, Roberto Acciaiuoli, Matteo Strozzi, entrò a far parte del consiglio privato col quale Cosimo I si consultava per poter "negoziare più al ristretto e con maggior comodità" (B. Varchi, II, p. 256).
Morì a Firenze il 17 luglio 1547.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Mediceo avanti il Principato, XXVI, n. 626; LXXII, nn. 279, 295, 300, 329; LXXXV, n. 392; CV, nn. 79, 82, 90, 91, 108; CIX, n. 2; CXI, nn. 534, 542; CXVI, nn. 18, 19, 46, 81, 163, 259, 326, 454; CXXIII, n. 153; CXXXVII, nn. 614, 616, 620-625, 627, 628, 633-635, 788; CXLV, n. 202 (lettere riguardanti per lo più le missioni diplom. svolte dal C. in Spagna); Ibid., Carte strozziane, s. 1, 98, cc. 252 ss.; 360 f., cc. 62-65; Firenze, Biblioteca nazionale, Manoscritti Magliabechi, cl. VI, 178 (panegirico di Fr. Cottani da Diacceto al C.); cl. VIII, 1443, cc. 91-105; Ibid., Manoscritti, II, IV, 192, cc. 119-153 (traduz. del C. di opere di Plutarco); Ibid., Poligrafo Gargani, 666; G. Corsi, Marsili Ficini Vita, a cura di A. M. Bandini, in F. Villani, Liber de civitatis Florentiaefamosis civibus, Firenze 1847, pp. 183-214; P. Delphinus, Epistolae, Venetiis 1524, libro VIII, n. 49 (lettera al C. dell'11 maggio 1056); Docum. per servire alla storia della milizia italiana, a cura di G. Canestrini, in Arch. stor. ital., s. 1, XV (1851), pp. 320-325; I. Nardi, Istorie della città di Firenze, a cura di A. Gelli, Firenze 1858, II, pp. 199, 222 s.; G. Busini, Lettere a B. Varchi sopra l'assedio di Firenze, Firenze 1860, pp. 60, 64, 74, 81, 117; B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di G. Milanesi, Firenze 1923, 1, pp. 65, 145, 193; II, pp. 132, 182, 267, 373, 397, 432, 457; III, pp. 203, 256; N. Machiavelli, Arte della guerra, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, pp. 281, 543; G. De' Ricci, Cronaca (1532-1606), a cura di G. Sapori. Milano-Napoli 1972, p. s; I. Gaddi, Elogi stor. in versi e 'n prosa, Firenze 1639, p. 66; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 279, A. Ademollo, Marietta de' Ricci, ovvero Firenze al tempo dell'assedio, a cura di L. Passerini, Firenze 1845, VI, pp. 2137 ss.; D. Tiribilli-Giuliani, Sommario stor. delle famiglie celebri toscane, Firenze 1855, I, sub voce;A. Virgili, Dopo la battaglia di Pavia (marzo-giugno 1525), in Arch. stor. ital., s. 5, VI (1890), pp. 253 ss.; L. Passy, Un ami de Machiavel, Paris 1913, 1, p. 139; E. Rostagno, La storia d'Italia di F. Guicciardini nei manoscritti originali e nella presente ediz., in F. Guicciardini, La storia d'Italia, a cura di A. Gherardi, Firenze 1919, pp. LXX-LXXIV; P. O. Kristeller, Un uomo di Stato e umanista fiorentino: G. C., in La Bibliofilia, XXXVIII (1936), pp. 242-257; R. Ridolfi, Opuscoli di storia letteraria e di erudizione, Firenze 1942, pp. 204 s.; P. O. Kristeller, Francesco da Diacceto and Florentine Platonism in the Sixteenth Century, in Miscellanea G. Mercati, IV, Città del Vaticano 1946, p. 298; R. von Albertini, Firenze dalla Repubblica al Principato, Torino 1970, pp. 68, 106, 180, 182, 216.