BONOMO, Giovanni Cosimo
Nacque a Livorno il 30 nov. 1666 da Stefano, uno speziale francese, e da Barbara Boccacci. Nel 1676 intraprese, sotto la guida di D. Zerilli, gli studi di medicina nell'università di Pisa, dove si addottorò in filosofia e medicina il 22 giugno 1681. È forse in questo periodo che si trasferì a Roma, dove viveva lo zio paterno Iacopo, per ascoltare il Lancisi (se così vanno intesi alcuni accenni contenuti in una polemica avuta con lui). Il 18 dicembre 1683 sostenne l'esame presso il Collegio dei medici e degli speziali di Firenze ottenendo la licenza per il libero esercizio della medicina. Tra gli esaminatori era anche Francesco Redi, che ben presto diverrà il suo maggior patrocinatore.
Nel 1684 il B. era nuovamente a Livorno dove, certo per consiglio del padre, prese a frequentare la spezieria del celebre naturalista e intimo collaboratore del Redi, Giacinto Cestoni. Fu appunto quest'ultimo (alla morte di Stefano Bonomo, avvenuta nella prima metà del 1684) a segnalare il giovane B., ora in disagevoli condizioni economiche, al Redi, per interessamento del quale, nel maggio del 1684, egli ottenne dal granduca l'ufficio di "medico di galera", al seguito della spedizione navale contro i Turchi, culminata con lo sbarco di Santa Maura. La "grazia" del granduca si rivelò ben presto una dura prova. Il viaggio, infatti, come scriveva il B. al Redi, fu un susseguirsi di "malattie", "infezioni" e morti che ridussero di oltre la metà l'equipaggio. Lo stesso B., "non di maggiore robustezza degli altri", cadde due volte malato, con conseguenze che risentirà per tutta la vita. Il ritorno avvenne con partenza da Corfù il 15 genn. 1685 e con arrivo a Livorno il 31 seguente.
Dopo questo viaggio inizia la stretta collaborazione del B. col Cestoni, soprattutto con le ricerche sull'acaro della scabbia. Ricerche difficilmente pensabili senza la vasta esperienza di indagini naturalistiche del Cestoni e, soprattutto, senza le suggestioni teoriche del Redi. In capo a due anni di osservazioni e di esperienze i due decidono di annunciare la loro scoperta. L'iniziativa è del B. che il 20 giugno 1687, da Livorno, invia una lettera al Redi in cui espone la sua teoria sulla natura acarica della scabbia.
Rispetto alle dottrine tradizionali che vedevano nella scabbia gli effetti di una discrasia umorale, ovvero, con gli iatrochimici, una espurgazione dei sali corrosivi contenuti nella linfa, il B. sosteneva l'origine unicamente acarica della scabbia. Lo stile è perentorio e il ragionamento lucido: dopo un esame del problema col Cestoni, s'erano dati a provare l'ipotesi che i "bacarelli" o "pellicelli" della scabbia fossero causa e non effetto di essa; esaminati "molti rognosi" avevano indagato sulla presenza e sulla forma degli acari col loro "povero e debole microscopio", osservandone l'insediamento nella cute e il loro fare "straducole da un luoco ad un altro con lo smangiare e rodere". Inoltre - e qui stava il dato fondamentale che tagliava corto con l'ipotesi che considerava gli acari un effetto della rogna in quanto generati spontaneamente dagli umori corrotti - avevano veduto una delle loro "ova" uscire da un acaro durante l'osservazione al microscopio. Sicché, affermava il B., "non mi pare resti luogho di dubitare che questi istessi pellicelli faccino la loro generatione, come le razze tutte d'animali perfetti, e quelli dell'insetti conosciute: cioè per via di mastio, e femmina... e da questo potrà scorgere se l'errore sia stato massiccio di tutti i medici, che sin qui hanno discorso della rogna". Sicché, in base alle sue reiterate osservazioni ed esperienze, ha "motivo provato di concludere che la rogna... non sia altro che una morsicatura e rosicatura continua fatta alla cute dei nostri corpi da bacarelli di questo genere". Le manifestazioni patologiche della pelle divenivano così "conseguenze" dell'azione corrosiva dell'acaro, e la scabbia veniva in tal modo riconosciuta come una malattia "esterna". Peraltro il trasmettersi della malattia, trattandosi di animaletti "prontissimi ad appiccarsi" e a prolificare, era giustificato col contagio. Riprova di tale teoria era stata la terapia condotta dal B. su una quantità di scabbiosi, basata su "sole solissime untioni, lavamenti e bagni, composti con sali, mercuri, zolfi, vitrioli, solimati, et altre robbe di questa sorta corrosive e penetranti" ben altrimenti valide se confrontate col "poco frutto de i medicamenti interni... soliti a prescriversi da tutti i Professori in questi casi". "Questa sola osservatione per hora l'invio", concludeva il B. "per saggio delle continue vo facendo".
Al Redi - non convinto delle idee del B. - lo stile parve poco garbato e l'appassionata certezza del giovane medico un'arroganza incompatibile con la compostezza accademica. Decise comunque di dare alle stampe la lettera, non prima però d'averla emendata e integrata (le due redazioni autografe, del B. e del Redi, conservate nella Bibl. della Fraternità dei Laici di Arezzo, furono trascritte e confrontate da A. Razzauti); questi interventi, più che di un epigono del metodo galileiano offrono l'immagine di un letterato dalle caute perifrasi: più che regole d'un metodo rigoroso, il Redi detta soltanto norme di buona creanza ("Io l'ho accomodata con galanteria", scriverà al Cestoni) - Inoltre, il Redi aggiungeva di suo, dandole come del B., alcune osservazioni su altri insetti quali lo scarafaggio peraiolo, la larva dello scarafaggio stercorario, ecc. Quello che potrebbe apparire solo premio e incoraggiamento al giovane medico, era in realtà sintomo del poco credito nella scoperta, ritenuta non bastevole a giustificare la pubblicazione, e dava modo al Redi di presentarla come un contributo all'indagine naturalistica. Decise quindi di pubblicarla in forma di lettera a sé indirizzata, e tale apparve a Firenze l'anno stesso, datata 18 luglio 1687 a firma del B., come Osservazioni intorno a' pellicelli del corpo umano, dove, è bene notarlo, non viene fatta parola della scoperta della causa della scabbia.
Subito, peraltro, il Cestoni si lamentava di veder misconosciuti i propri meriti di osservatore, ma il Redi lo rassicurava con dirgli che egli "forse è il primo che ha osservato la figura bizzarra del pellicello". Un "forse" che il Redi aveva già documentato nelle Osservazioni riportando la definizione di pellicello del vocabolario della Crusca; quanto a dire che anche per la scoperta dell'acaro - già ben conosciuto come presente nella rogna - non s'era andati oltre una più esatta osservazione. Sicché veramente misconosciuta rimaneva la scoperta dell'acaro come causa della rogna e della terapia efficace.
L'opuscolo, anche per merito del Redi, fu diffuso tra amici e colleghi, e per iniziativa del B., pervenne al Lancisi. Nella lettera d'accompagnamento del 4 ag. 1687 il B. presentava il "saggio mal composto" e "succintamente abbozzato" supplicando "da suo vero scolaro" l'archiatra pontificio a dirgli "sinceramente l'animo suo sopra questo". Quattro giorni dopo lo sollecitava nuovamente a sottoporre le Osservazioni agli accademici del congresso medico romano. Finalmente, il 23 agosto il Lancisi rispondeva con molto sussiego, riferendo la discussione tra gli accademici e le reazioni sostanzialmente negative sia per le osservazioni dell'acaro sia per la definizione della scabbia unicamente come effetto di esso.
Il Lancisi, per parte sua, pur senza escludere il caso descritto dal B., rimaneva dell'idea che la rogna fosse originata dalla "mordacità dei sali" e da "vitio di sangue verminoso". Decisa e assai poco formale fu la risposta del B. che, riportando lucidamente le sue esperienze di cura, rigettava le obiezioni degli accademici e definiva "solennissima baia" (forse ignaro a chi appartenesse) l'opinione del Lancisi. La reazione dell'archiatra pontificio, colma di freddo risentimento, fu una erudita e solenne elencazione di auctoritates in sua difesa e un monito a spogliarsi "un tantino d'un tal quale affetto" contratto dal B. con esperienze "nel solo corso d'un anno, le quali non possono contrastare co le già fatte da altri in molti secoli intieri". La secca replica del Lancisi piegò il B. che si scusava con lui con "sommo cordoglio", rinunciando a ogni volontà di "contradire" ("tanto più che mi fa conoscere, che fino la storia sacra mi persuade il contrario"). Tuttavia la polemica continuò ancora, non senza qualche battuta vivace del B., fino a che, sollecitato dalle lamentele del Lancisi, non intervenne il Redi con una lettera al Cestoni del 14 ott. 1680("col Sig. Lancisi consiglierei il Sig. Bonomo a non multiplicare in lettere. Se... ci riparleremo... farò restar capace lui... della verità del fatto. Il Sig. Bonomo è un poco ardentetto nello scrivere. Basta, ci parleremo"). Il giorno dopo, con un'ultima lettera, il B. chiudeva la polemica. Tutto il materiale di essa fu poi raccolto dal Lancisi, con l'intento evidente di darlo alle stampe, in un volume rimasto poi manoscritto, col titolo di Dissertazione apologetica fra... G. C. Bonomo e... G. M. Lancisi, dedicato a G. Brasavoli (ora conservato alla Biblioteca Lancisiana, cod. LXXIV 3e pubblicato dal Faucci, La polemica...).
Tra l'ostilità del Lancisi e il tiepido atteggiamento del Redi (che nella pratica ignorò la scoperta), le Osservazioni, ovviamente, non sortirono "nessun effetto" (come disse il Cestoni, che spiegava: "La verità è che tocca la borsa di medici, cirusici e speziali"). I soli echi furono un Estratto pubblicato nel Giornale de' Letterati di Parma (1687 [II], pp. 137-40)e una traduzione latina (fatta da G. Lanzoni su proposta del Redi), inclusa come Observationes circa humani corporis teredinem nei Miscellanea curiosa sive Ephemeridum medico-physicarum germanicarum Academiae... naturae curiosorum (dec. II, X, Norimbergae 1692, Appendix, pp. 33-44).Dieci anni dopo l'opuscolo fu scovato dal medico inglese R. Mead, di passaggio in Italia, che ne incluse un Abstract nei Philosophical Transactions della Royal Society di Londra (XXIII [1702-03], n. 283, pp. 129-699;una traduzione francese si ebbe nella Collection Académique, part. étr., IV, Paris 1757, pp. 574-81).
Molto si è discusso della paternità dell'opera, attribuita ora al Redi (nelle cui Opere fu inclusa) ora al Cestoni, fino a dubitare della esistenza stessa del Bonomo. Di fatto, oltre una furbesca rivendicazione della scoperta da parte di Cinelli Calvoli (Bibl. volante, Roma 1689, pp. 50 ss.), vasegnalata quella, troppo tarda e di comodo, del Cestoni che tornò a propagare la scoperta in una lettera al Vallisnieri del 1710, mentre in altre affermò che fu fatta da sue "osservazioni" (il B., diceva, "era mio scolaro e l'insegnavo") e che fu lui l'ispiratore della polemica con il Lancisi. Ma, se indubbio fu l'apporto del Cestoni limitatamente all'osservazione e descrizione dell'acaro, non è meno certo che le conseguenze, essenziali, sul piano medico, furono tratte e difese dal B. che, peraltro, fu il solo a venire allo scoperto nella polemica col Lancisi.
Dopo la sua scoperta il B. si adoperò vanamente alla ricerca di una condotta medica a Livorno, che, nonostante la protezione del Redi, non riuscì ad ottenere. Ancora nel 1690 non riusciva ad ottenere neppure un posto nell'Ospedale delle galere. Finalmente, nel maggio 1690 ricevette l'incarico di imbarcarsi sulla nave "S. Stefano" che partiva per la Spagna, come medico di bordo. Sempre lo stesso anno il B., a riconoscimento dei suoi meriti, viene decorato di "pubblica dignità" con delibera del 7 novembre. Infine, nel marzo 1691, grazie all'interessamento continuo del Redi, viene eletto medico della figlia di Cosimo III, Anna Maria, che andava sposa a Giovanni Guglielmo, elettore del Palatinato. Al suo seguito parte il 6 giugno 1691 per la Germania (durante il viaggio scrisse un Diario poi scomparso, che il Redi definiva "bellissimo"), dove risiederà prima a Neuburg e quindi a Düsseldorf, quando la corte vi si trasferì nel 1692. Lo stesso anno seguì la gestazione di Anna Maria, tenendosi in continuo contatto col Redi; continuava inoltre a eseguire indagini naturalistiche per le quali stava preparando un ampio materiale da pubblicare. Ammalatosi in Germania, dovette forzatamente far ritorno da Düsseldorf a Firenze, dove morì il 13 genn. 1696.
Fonti e Bibl.: G. Mazzatinti, Inventari..., VI, p. 225; R. Mead, Monita et praec. medica, Hamburg-Leipzig 1752, pp. 133-5; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 3, Brescia 1762, p. 1678; F. Redi, Lettere, I, Firenze 1779, pp. 122-181, 350-2, 368 s., 384, 387, 402, 420; II, ibid. 1779, pp. 54 s., 60 s., 63-73, 75, 77-80, 82-4, 89-93, 95 s., 98-107, 109, 113, 127; III, ibid. 1795, pp. 57-67; G. E. Wichmann, Etiologia della rogna, tr. it. Viterbo 1812, pp. 4, 6, 20, 28, 47 s., 54-81, 92, 217; F. Redi, Opuscolidi storia naturale, Firenze 1858, pp. 433-449, 453-467; F. Pera, Curiosità livornesi, Livorno 1888, pp. 111-5; A. Corsini, Il servizio sanitario nella marina toscana, in Annali di medic. navale e coloniale, XXIII (1917), I, pp. 283-321, 438-84; II, pp. 652-78, 789-828; A. Razzauti, F. Redi e la scoperta della patogenesi della scabbia, in Riv. di storia delle scienze mediche e naturali, s. 3, XVIII (1927), pp. 178-186; U. Faucci, Contributo alla storia della scabbia...,ibid., XXII (1931), pp. 153-170, 198-215, 257-371, 441-450; Id., La polemica B.-Lancisi sull'"Origine acarica della scabbia", Livorno 1937; C. Lombardo, G. C. B. a Pisa, in Riv. delle scienze mediche e naturali, XXIX (1938), pp. 97-121; G. Bizzarrini, D. Cestoni biologo…, in Atti e mem. dell'Acc. di storia dell'arte sanitaria, s. 2, V (1939), n. 1, pp. 28-36; A. Pazzini, Bibl. di storia della medicina ital., Milano 1939, pp. 118 s., 123, 170, 224, nn. 1583-7, 1654-o, 2414, 3425; G. Cestoni, Epist. ad A. Vallisnieri, a cura di S. Baglioni, I, Roma 1940, pp. 8, 20, 28, 30 s., 43, 48 s., 54, 57, 74, 79 s., 84, 141, 150, 156, 208, 317; II, ibid. 1941, pp. 481 s., 553, 558-63, 586 s., 633 s., 691, 782, 816.