GANTI, Giovanni Cristoforo (Gian Cristoforo Romano)
Figlio dello scultore Isaia da Pisa, uno dei principali tra quelli attivi a Roma alla metà del XV secolo, nacque in data non precisabile da collocare secondo alcune indicazioni documentarie intorno al 1460. L'origine ebraica della famiglia è frutto d'ipotesi che, allo stato attuale delle conoscenze, non sembra possibile comprovare (Férarès).
L'unica fonte antica che riguardi la giovinezza del G. è la cursoria menzione nelle Vite di Giorgio Vasari, il quale ne ricorda la presenza nella bottega di Paolo Romano (documentato tra il 1451 e il 1467): nessun segno dello stile ferocemente antichizzante, arcaico e severo di Paolo si riconosce, tuttavia, nell'opera del G., che mostra invece precisi legami con il classicismo della successiva generazione artistica.
Il linguaggio figurativo padroneggiato dallo scultore in Lombardia farebbe infatti pensare a una precoce frequentazione della bottega di Andrea Bregno, il maggiore scultore operante a Roma alla fine del secolo, mentre il suo stile decorativo sembra mostrare assonanze anche con Giovanni Dalmata, compagno alcune volte dello stesso Bregno, e con le realizzazioni tarde di Mino da Fiesole.
Il tentativo di individuare lavori del G. precedenti all'attività in Lombardia è rimasto finora senza risultati apprezzabili; la tradizione critica ottocentesca aveva ripreso l'affermazione vasariana (nella seconda edizione delle Vite), secondo la quale il G. avrebbe lavorato in S. Maria in Trastevere a Roma senza tuttavia riuscire a dar corpo a questa notizia; poca fortuna hanno avuto anche le attribuzioni proposte da Giordani e da Bode.
A partire da un passo del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, nel quale il G. afferma essergli da tempo familiare la corte di Urbino, alcuni storici (Rotondi) ne hanno supposto la partecipazione alla decorazione del palazzo ducale all'epoca di Federico da Montefeltro, in particolare nell'esecuzione di alcune porte marmoree, quelle "della guerra", databili a prima del 1482. Tuttavia, la supposizione di un precoce soggiorno urbinate del G. va lasciata cadere, fino all'individuazione di prove più stringenti (Norris; Brown).
Un'interessante anche se labile traccia per giustificare la chiamata del G. alla corte milanese potrebbe essere fornita da un documento sforzesco del 16 apr. 1490 (Malaguzzi Valeri, 1902), dal quale si apprende che Ludovico il Moro voleva far restaurare a Roma da "un magistro da Roma" un Bacco antico, onde mandarlo in dono al re di Francia sotto scorta di Caradosso Foppa: considerando la dimestichezza che il G. stesso dichiara avere con la scultura antica fin da molto giovane, e l'amicizia con il Caradosso, non è impossibile che il giovane artista fosse stato messo alla prova con questo genere di lavori prima di esser chiamato al Nord come esperto del nuovo stile antiquario.
La prima attestazione documentaria certa del G. in Lombardia si desume da una lettera del 22 giugno 1491, con la quale Isabella d'Este scriveva alla sorella Beatrice e al suo sposo Ludovico il Moro chiedendo che il G., autore del ritratto di Beatrice, le fosse inviato per qualche giorno onde poter a sua volta farsi ritrarre. Venturi (1888) collegò per primo a questo documento un busto del Louvre raffigurante Beatrice.
Il ritratto sarebbe stato eseguito, secondo lo studioso, prima del matrimonio, avvenuto il 17 genn. 1491, poiché nell'iscrizione sul piedistallo non è fatta menzione della casata sforzesca e sul corsetto è ricamata la sola impresa estense del diamante. Lo stile della scultura dimostra che il G. era già in possesso di una tecnica scaltrita dell'intaglio e del rilievo nonché di uno stile maturo e adatto a coniugare un giusto grado di naturalismo, la somiglianza al modello, con l'idealizzazione imposta dalla valenza araldica del ritratto e dal dilagante gusto antiquario. Non si hanno notizie certe su un giovanile soggiorno ferrarese che non può essere confermato da una lastra a bassissimo rilievo di collezione Cavriani di Mantova, con un ritratto di profilo di Eleonora d'Aragona, che Luzio (1909) attribuisce al Ganti. Poco seguito ha ugualmente trovato la recente proposta di individuare la mano del G. nei bassorilievi con i ritratti di Mattia Corvino e Beatrice d'Aragona al Museo di belle arti di Budapest, generalmente considerati lombardi ed eseguiti prima del 1490, data della morte del sovrano (Gerevich).
Il 1° luglio 1491 lo scultore scriveva a Isabella di non poter partire subito da Milano dovendo attendere alcuni marmi ordinati per opere commissionategli da Marchesino Stanga, ma che appena giunte le pietre avrebbe lasciato i disegni ai suoi lavoranti e avrebbe raggiunto Mantova; per guadagnare tempo Isabella avrebbe dovuto procurarsi intanto a Venezia due pezzi di marmo senza imperfezioni per compiere l'opera (Venturi, 1888). Il 18 ottobre, tuttavia, il G. non era ancora giunto a Mantova e lo Stanga stesso se ne scusava adducendo le necessità del cantiere della certosa di Pavia, e un viaggio a Genova nel quale lo scultore avrebbe accompagnato la duchessa Beatrice in qualità di cantore. Un busto di terracotta della collezione Thyssen Bornemisza è stato di recente proposto come modello per il ritratto di Isabella: l'ipotesi è, tuttavia, assai problematica poiché, ammesso che la scultura sia veramente del secolo XVI e non un assemblaggio dell'Ottocento, permangono non poche incongruenze stilistiche e iconografiche, non ultima l'assoluta mancanza nelle vesti d'insegne araldiche gonzaghesche che è poco probabile dovessero essere affidate solo alla policromia, ora perduta, vista la compiaciuta capacità del G. di rendere ricami e ornamenti con un sensibilissimo e quasi impercettibile bassorilievo.
Quanto ai lavori per lo Stanga menzionati nella corrispondenza di quell'anno, si è pensato che potessero essere connessi al palazzo cremonese della famiglia, specialmente al grandioso portale ora conservato al Louvre; documenti d'archivio successivamente rinvenuti hanno tuttavia comprovato la paternità di tale complesso a Giovanni Pietro da Rho e ad altri intagliatori lombardi. È stato poi supposto che nelle scuse accampate per il ritardo il G. intendesse come opere per lo Stanga quelle che il ministro del Moro seguiva per conto del suo signore alla certosa di Pavia (Norris). Un'attività dello scultore direttamente per lo Stanga potrebbe essere comprovata dalla continuità di committenze famigliari: è stato infatti convincentemente attribuito al G. (Luzio, 1886; Fabriczy, 1887), almeno come ideazione, il Monumento funebre a Girolamo Stanga, ordinato nel 1498 dalla moglie Barbara per S. Maria delle Grazie a Curtatone presso Mantova e composto da un sarcofago a vasca con lo stemma del defunto legato da nastri svolazzanti, poggiante su di un basamento marmoreo ornato da una grande epigrafe rinserrata da paraste finemente intagliate a girali vegetali.
Dell'attività documentata del G. per i signori di Milano la parte preponderante fu quella svolta alla certosa di Pavia, principalmente per il Monumento funebre di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano e fondatore del cenobio: tale opera è anche la principale sulla quale si può basare una compiuta disamina dello stile architettonico, figurativo e decorativo dello scultore. La nuova tomba ne sostituiva una precedente situata dietro l'altare maggiore secondo la tradizione commemorativa della dinastia visconteo-sforzesca da Bernabò a Ludovico il Moro. Spostata nel transetto destro la tomba riceveva comunque le devote attenzioni dei certosini al loro primo entrare in chiesa dalla porta del chiostro aperta giusto in fronte alla conca absidale che la ospita.
Il monumento è composto da un baldacchino retto da sei archi, due nei lati lunghi e uno nei brevi, inquadrati da pilastri su plinti: sopra tali sostegni vi è un attico scandito da parastine e formato da due nicchie centrate nei lati lunghi con le statue della Vergine con Bambino e del defunto in maestà e da riquadri con scene della vita del duca. Sull'architrave si trova, incisa in lettere capitali, l'attestazione dello scultore: "Joannes Christophorus Romanus faciebat". A coronamento si alternano statue di virtù, sfingi e candelabri. Sotto il baldacchino, formato da un celino ornato di due riquadri con il Padre Eterno e la Vergine e retto da peducci con angeli che recano i simboli della Passione, è la figura del defunto giacente appoggiata su un più tardo sarcofago a vasca e fiancheggiate da due figure allegoriche della Fama e della Vittoria scolpite da Bernardino da Novate nel settimo decennio del Cinquecento. Nel progetto originale il giacente doveva riposare sopra una cassa di cristalli, legati con metalli preziosi e gemme, dove erano le ossa del defunto, alla stessa maniera delle reliquie di un santo: la cassa fu ordinata il 27 nov. 1495 a Giovanni Antonio da Desio con un esaustivo contratto; vi si lavorò fino al 1506 almeno ma non sembra sia mai stata portata a termine.
Tutta la costruzione della grande macchina si può datare tra il 1491, quando è documentato l'acquisto dei materiali, e il 1497, data del saldo finale di quanto dovuto al G. e ai suoi soci (Maiocchi); bisogna ricordare tuttavia che la nuova mole marmorea è citata già in una composizione poetica di Bernardo Bellincioni in lode di Gian Galeazzo, e indirettamente di Ludovico il Moro, pubblicata a Milano nel 1493 e che qualcosa, dunque, ne doveva essere visibile già entro quella data. La precisa disamina dell'autografia nelle singole parti figurate e ornamentali del monumento è ostacolata dal fatto che nei cantieri lombardi, soprattutto quando le opere erano realizzate in un breve lasso di tempo, era amplissima e regolamentata per contratto la collaborazione di una numerosa schiera di aiuti di bottega e di maestri con qualifiche diverse. Così avviene anche in questo caso dove al G. si affiancano Iacopino de Boni per la fornitura dei marmi e quindi Benedetto Briosco; il pagamento finale del 4 apr. 1497 (Maiocchi) cita, poi, espressamente, oltre al G., dei non meglio individuati "sotios suos".
Il progetto generale, i modelli figurativi, il sistema decorativo si possono ascrivere comunque al G. e si può essere certi che la realizzazione venne da lui attentamente controllata. Il suo scalpello è stato individuato per le parti figurate nel bassorilievo con la Madonna e il Bambino del celino, in diverse parti delle storie del Visconti, in alcuni particolari decorativi come il segno zodiacale dei Gemelli (Norris), ai quali andranno forse aggiunti parte della figura di Gian Galeazzo in maestà e alcune delle figure del coronamento. Quanto al defunto giacente, scolpito forse con l'ausilio di una maschera funeraria o sulla traccia di esempi trecenteschi, sebbene sia stato avvicinato allo stile del Briosco (ibid.), sembra avere qualche affinità con il naturalismo iconico e quasi caricaturale di certi più tardi ritratti del Ganti. Il monumento visconteo ebbe una sua fortuna letteraria sovraregionale per merito della laudativa citazione di Sabba da Castiglione (ricordo 109).
Una frase della quietanza del 4 apr. 1497, nella quale si accenna a non meglio specificati lavori per la certosa, ha indotto gli studiosi ad avvicinare al G. altre parti decorative dell'edificio, per esempio, alcuni tondi con teste dei Visconti, specie delle duchesse, sulle porte delle sagrestie, altri più piccoli sempre sui finestroni della facciata e addirittura il progetto e l'esecuzione dei finestroni medesimi (Malaguzzi Valeri, 1902; Arslan). Nel 1495 Ludovico il Moro richiedeva allo scultore di seguire l'esecuzione di una lastra marmorea con un'iscrizione dedicatoria e con le armi sforzesche per la chiesa di S. Maria della Misericordia a Vigevano: l'opera descritta ancora nel XVII secolo è andata in seguito dispersa.
Ancora da chiarire nel dettaglio sono gli indubbi rapporti del G. con Leonardo da Vinci: quest'ultimo gli fece recitare il personaggio di Acrisio nella Danae di Baldassarre Taccone da lui messa in scena a Milano il 31 genn. 1496 e certamente lo frequentò negli anni milanesi. Comune poteva essere l'interesse per le antichità e per i monumenti romani che il G. aveva cominciato a studiare e rilevare fin dalla sua giovinezza a Roma. Günther (1988; 1989), notando l'unicità di un disegno di base attica nel codice Foster III di Leonardo, ne ha supposto la derivazione da un modello del G. che annovera simili rilievi tra i fogli copiati da suoi disegni. In tal caso si dovrebbe pensare che il G. fosse arrivato a Milano nel 1491, già con un taccuino dedicato all'architettura antica.
Il taccuino del G. si può in parte ricostruire attraverso copie più tardive nelle quali è indicata chiaramente la paternità dei rilievi, e cioè alcuni disegni di Antonio da Sangallo, del Maestro del taccuino di Kassel, di Sebastiano Serlio, di Palladio e di altri fogli anonimi conservati presso la Biblioteca nazionale di Firenze (Magl. II.I.429); i fogli originali dovevano contenere disegni di celebri fabbriche antiche accuratamente quotate con diversi sistemi mensurali, braccio fiorentino, braccio romano, e commentate con l'appropriata terminologia tecnica; tra questi figurano, per esempio, l'arco di Costantino, quello di Settimio Severo, quello di Traiano a Benevento, quello dei Sergi a Pola, il Pantheon, i mausolei dei Cercenii, dei Calventii, di Romolo, e forse anche qualche progetto moderno per altari e monumenti funebri all'"antica" confrontabili con quelli di Andrea Sansovino in S. Maria del Popolo (1505).
È assai difficile immaginare per chi il G. abbia potuto scolpire, negli anni Novanta, il bassorilievo con busto ideale di guerriero al Musée Jacquemart-André di Parigi che un'iscrizione dichiara di Cappilliata di Galeazzo Colleoni.
La scultura, già attribuita a Tullio Lombardo, appare di alta qualità e stilisticamente vicinissima al busto parigino di Beatrice d'Este (La Moureyre-Gavoty) tanto nel disegno netto del profilo, araldicamente ghiacciato, che nel trattamento grafico del marmo intagliato in un rilievo quasi impercettibile; meno curate che nelle altre iscrizioni del G. appaiono invece le capitali antiche dell'epigrafe che potrebbe essere stata aggiunta successivamente con un'identificazione spuria (una replica in bronzo, quasi certamente non originale, si conserva presso l'Art Museum di Saint Louis).
Il 3 apr. 1497 Isabella d'Este richiedeva nuovamente il G. a Mantova per alcuni lavori; il 9 settembre di quell'anno lo scultore doveva già essere presso di lei, poiché quest'ultima faceva recapitare a un suo emissario di stanza a Venezia una lettera del G. ad Antonio Rizzo nella quale si richiedevano materiali marmorei per i lavori dei camerini. Altre simili richieste datano ai mesi successivi.
Sebbene non ve ne sia alcuna specifica prova documentaria, tali lavori sono stati dalla critica identificati con la mostra marmorea della porta dello studiolo, finemente decorata con tondi figurati, motivi classicheggianti e incrostazioni di porfidi e marmi colorati (1497-1505). Il programma iconografico non è mai stato spiegato in maniera conclusiva ma sembra chiaro debba consistere in una rappresentazione allegorica delle virtù e delle arti possedute dalla committente; quattro allegorie, delle quali sono riconoscibili con certezza la Fortuna e la Fortezza, si accompagnano a raffigurazioni simboliche di animali.
Ancora anni dopo, nel 1500, il G. era coinvolto nell'allestimento dei camerini di Isabella e sottoponeva a Pier Iacopo Alari Bonacolsi, detto l'Antico, il progetto relativo a una porta, che lo scultore tuttavia dovette rifiutarsi di eseguire essendo occupato in altri lavori (Allison).
Da due lettere di Isabella, una al G. stesso ancora a Milano il 15 sett. 1495, l'altra a Giacomo Filippo Faello del 10 sett. 1499 (Marani - Perina; Brown), si può circoscrivere in questo lasso di tempo anche l'esecuzione della celebre medaglia, della quale l'esemplare conservato dalla marchesana stessa nella "grotta" è quello aureo montato con decorazioni di smalto e un'iscrizione in diamanti ora conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Tale gioiello unisce il classicismo del profilo della committente e della complessa e ancora non spiegata allegoria antiquaria del verso (una Vittoria sovrastata da un sagittario), con il gusto di una oreficeria moderna, transalpina, nelle lettere gemmate di foggia gotica del bordo. La medaglia, fusa in numerosi esemplari di diversi metalli, doveva servire come dono di Isabella ai sudditi benemeriti e infatti reca la scritta, suggerita dall'umanista Niccolò da Correggio, "Benemerentium ergo". Altre medaglie già attribuite al G., come quella famosa di Lucrezia Borgia, sono state ricondotte al catalogo di altri medaglisti.
È stato datato al momento dell'arrivo presso la corte mantovana, alla fine del 1497, un sonetto dedicato al G. da Antonio Tebaldeo, forse scritto proprio in risposta al dono di una medaglia della marchesana (Agosti): è la prima importante menzione letteraria dello scultore e testimonia insieme del nuovo ruolo tecnico del G. quale giudice supremo della bellezza e dell'operare artistico.
In quegli stessi anni il G. preparava imprese anche per il marchese Francesco come dimostra una corrispondenza tra quest'ultimo e il fonditore di cannoni Federico Calandra circa un modello in cera dell'impresa del crogiolo, da applicare su di un cannone.
Calandra scriveva al marchese il 2 dic. 1498 proponendo alcuni schizzi del G., che sono ancora oggi conservati presso l'Archivio di Stato di Mantova e sono gli unici disegni autografi dello scultore finora identificati; il marchese aveva infatti rigettato la più classicistica soluzione del crogiolo appoggiato entro un vaso all'antica tra le fiamme, un'immagine che si può vedere usata sul busto del Gonzaga modellato dal Ganti. Anche le nuove soluzioni non piacquero a Francesco, il quale, rispondendo già il giorno seguente, ordinava di riutilizzare un precedente disegno (Brown). Lo stile grafico del più compiuto dei due disegni del G. è singolarmente vicino a certi modi grafici leonardeschi, che fondono un'impostazione naturalistica al decorativo e simmetrico disporsi dei vortici fiammeggianti.
Altra opera mantovana del G., ormai unanimemente riconosciutagli, è il citato busto di terracotta del marchese Francesco nel palazzo ducale di Mantova, attribuitogli per la prima volta da Venturi (1907) che lo datava prima del 1498 ritenendo di poterlo collegare, appunto, all'elaborazione della nuova impresa del crogiolo; Brown suppone più verosimilmente che il tempio di Giano con le porte aperte, sempre raffigurato sulla corazza, sia spiegabile con la volontà di commemorare l'inizio di una fortunata campagna militare.
A quest'opera andrà collegato un altro busto di terracotta nel Museo Bardini di Firenze, già creduto di Cristoforo Solari ma da Lensi riconosciuto al G. come altro ritratto del marchese, mentre rappresenta più probabilmente il mantovano Gerolamo Andreasi.
L'attribuzione, ragionevolmente sostenibile quanto allo stile, è confortata dall'essere Gerolamo intimo della marchesana e forse coinvolto nel progetto della tomba della beata Osanna Andreasi, progettata dal G. tra il 1504-05 e innalzata nella chiesa di S. Domenico. Nel palazzo Nievo di Mantova, dove il ritratto di Gerolamo Andreasi era conservato nell'Ottocento, è stato attribuito al G. un altro busto di cui non si conosce l'attuale ubicazione (De Benedictis).
Marcantonio Michiel sottolinea la paternità del G. per la Tomba di Pietro Francesco Trecchi, morto nel 1502, già nella cappella di S. Gerolamo in S. Vincenzo a Cremona e ora trasferita nella chiesa di S. Agnese.
Il sarcofago a urna di marmi mischi e di bianco di Carrara poggia su un alto basamento scandito da paraste e decorato da finissimi intagli. Se l'attribuzione del progetto allo scultore romano è unanime, l'autografia della decorazione è stata discussa e sono stati addirittura fatti nomi precisi di aiuti cremonesi, come quello di Giovanni Gaspare Pedoni (Nova), che avrebbero tradotto l'idea del maestro. Per altri la tomba sarebbe invece stata approntata dal G. in tutto (Bacchi) o in parte (Norris). Lo stile e la qualità degli intagli, se confrontati con quelli del sepolcro pavese e della porta mantovana, sembrerebbero testimoniare la diretta mano dello scultore in varie parti del monumento; per Bacchi, inoltre, i due putti dormienti sarebbero di fattura tardocinquecentesca.
Il maturo classicismo dell'urna Trecchi è servito a collegare alla cerchia del G. il sepolcro di Bernardo Corradi, in S. Maria delle Grazie a Curtatone di analoga impostazione formale (Luzio, 1900; Fabriczy, 1904), e la più tarda (1504) tomba di Andrea e Giacomo Grati in S. Maria dei Servi a Bologna.
Quest'ultima attribuzione, oltre che da ragioni di stile, tanto nella decorazione architettonica quanto nella figura della Giustizia, l'unica sopravvissuta delle Virtù che dovevano una volta ornarla, è supportata dall'esistenza di rapporti cordiali intercorrenti tra la famiglia Grati e l'umanista Gerolamo Casio de' Medici, amico a sua volta del G. al quale dedica una menzione scritta. Nella Cronica del Casio, infatti, è ricordato, seppur in modo allusivo, il monumento funebre per una "Madonna Giustizia" che sembrerebbe essere stato progettato insieme da Giovanni Antonio Boltraffio e dal G.: nulla si sa di questa opera, tanto meno la data dell'eventuale esecuzione. La critica ha tentato, senza risultati convincenti, di identificare Madonna Giustizia da una parte con Beatrice d'Este, attribuendo così la figura giacente della giovane duchessa, ora alla certosa di Pavia, al G., dall'altra con la beata Osanna Andreasi (Pedretti). Quel che è certo è che i due artisti sembrano essersi conosciuti e frequentati a Milano, dove il Boltraffio è attestato nello studio di Leonardo fin dal 1491.
Ancora al periodo mantovano, poco prima della partenza per Roma, dovrebbe appartenere invece il bellissimo busto di bambino, forse raffigurante Federico Gonzaga, ora alla Ca' d'oro di Venezia, anticamente riferito a Francesco Laurana, ma in seguito attribuito al G.; la perdita del medaglione che pendeva dal collare e conteneva probabilmente lo stemma della casata, non permette di confermare l'identificazione.
Il 19 febbr. 1502 il G. scriveva alla marchesana da Venezia assicurandole l'espletamento di piccoli incarichi quotidiani; durante il suo soggiorno nella città lagunare eseguì forse il vaso di cristalli, incisi con Storie del Vecchio Testamento e legati in argento dorato, visto da Michiel in casa di Francesco Zio e in seguito nella collezione del grande antiquario Andrea Odoni. Lorenzo da Pavia, in una lettera del settembre 1503, descriveva a Isabella un bronzo greco che il G. avrebbe visto in occasione di un viaggio a Rodi e che è stato identificato con l'Adorante ora negli Staatliche Museen di Berlino (Perry).
Nel 1504 è edito a Bologna, nella raccolta Collettanee grece, latine… per diversi auctori… per Gioanne Philoteo Achillino (pp. n.n., ma 168), a cura di Gerolamo Casio, un componimento poetico del G. in onore di Serafino Ciminelli, detto l'Aquilano: il sonetto deve essere stato scritto dopo il 10 ag. 1500 quando il poeta morì a Roma. Il G. e l'Aquilano si conobbero certamente tra Milano e Mantova e furono forse uniti anche dalla comune pratica della musica. Un altro ricordo dell'attività letteraria del G. è nell'edizione volgare del 1525 del fortunatissimo De natura de amore di Mario Equicola, dove risulta tra coloro che collaborarono alla traduzione dell'opera.
Nell'inverno del 1505 il G. stimava insieme con Andrea Mantegna una testa di avorio inviata per l'acquisto a Isabella da Giovanni Gonzaga e la giudicava una contraffazione moderna. Anche a Milano, dove era ritornato nel 1505 e dove frequentava il medico e letterato Marcantonio Della Torre e l'"achademia" di Margherita Sanseverino, il G. continuava a rimanere in contatto con la corte mantovana: il 4 luglio lo scultore caldeggiava l'acquisto di un vaso di 49 pezzi di cristallo legati in oro e smalti di Caradosso Foppa, che il cardinale Ludovico Gonzaga tentava di avere per un prezzo troppo basso. Mentre ancora durava la trattativa per quella oreficeria, il 20 luglio, il G. tornava a caldeggiare l'acquisto di un calamaio sempre di Caradosso, progettato e iniziato anni prima per il cardinale Giovanni d'Aragona. Finalmente, dopo una corrispondenza durata tutta l'estate, Caradosso partì per Mantova in settembre con il famoso vaso di cristalli e un disegno affidatogli dal G. per la tomba di Osanna. Il 12 luglio, infatti, in seguito alla morte della Andreasi (18 giugno 1505), Isabella aveva chiesto al G. un progetto per un sepolcro monumentale della futura beata da collocare nella chiesa di S. Domenico (Brown - Hickson).
Il 29 ott. 1505, in viaggio verso Roma, il G. scriveva a Isabella una lettera di commiato assicurando di aver lasciato progetti precisissimi per la tomba, che fu infatti costruita dopo la partenza del G. per Roma, molto probabilmente seguendo fedelmente i suoi disegni, e fu in seguito distrutta con la soppressione della chiesa nel 1797 (è nota solo attraverso un'incisione seicentesca pubblicata negli Acta sanctorum… iunii, III, Antverpiae 1701, p. 673). Il monumento si componeva di un catafalco sul quale era adagiato il corpo della beata coperto da un baldacchino su colonne doriche sormontato alla sommità da un'urna marmorea, ricalcata su quella Trecchi di Cremona e sormontata, a sua volta, da un'immagine a mezzo busto della defunta e da due angioletti cerofori.
Il 30 luglio 1505 Giulio II aveva richiesto il G. a Roma; Isabella nel congedarlo (27 settembre) lo aveva invitato a presentarsi come suo stretto famigliare, certa che avrebbe fatto onore alla corte mantovana. Il G. scrivendo da Bologna il 29 ottobre dimostrava di frequentare un ambiente assai scelto; ripartì infatti per Roma in compagnia di Annibale Rangone, Bernardo Cancellieri e Gerolamo Casio; la lettera seguente, scritta da Roma, è del 1° dicembre.
Mentre rimane assai problematica l'attribuzione al G. di un busto di terracotta già creduto di Teofilo Folengo e in realtà raffigurante Giulio II Della Rovere, ora conservato a San Benedetto Po (Signorini), fornita di sicura attestazione è invece la medaglia di papa Della Rovere, da datarsi tra il 1505 e il 1507: è infatti citata in una lettera di Giacomo d'Atri a Isabella nell'ottobre di quell'anno. La nettissima sagoma del pontefice di profilo, depurata da ogni elemento decorativo e per questo ancor più imponente pur nelle sue ridotte dimensioni, si staglia al centro di un campo ampio e limpidamente spaziato, circondato dall'elegante scritta in lettere capitali; tale impostazione corrisponde nel retro a una figurazione allegorica ispirata alle monete imperiali romane seppur attraverso la mediazione di esempi moderni come la medaglia di Marco Guidizani per Pasquale Malipiero o quella di Cristoforo Geremia a ricordare l'imperatore Costantino (Hill, nn. 414, 755). Nel 1506 il G. era poi pagato dalla Camera papale per i conî di altre due medaglie, una commemorativa della pace e l'altra della carestia, delle quali la prima è stata con verosimiglianza individuata (ibid., n. 877); lo scultore si dimostra così ferrato sia nella tecnica della fusione sia in quella del conio. Altri documenti rammentano ancora un più tardo pagamento del 1509 per due medaglie (Weiss), che sono state identificate una per S. Pietro e un'altra per la rocca di Civitavecchia (Hill, nn. 871 s.).
L'integrazione con l'ambiente artistico romano fu certamente immediata: nel 1506 il G. fu chiamato a dare il suo parere, insieme con Michelangelo, circa il gruppo del Laocoonte allora scoperto. In quei mesi continuava anche la caccia alle antichità per lo studiolo di Isabella non senza prendere le distanze dalla cupidigia collezionistica della marchesana quando le scriveva (1° dic. 1505) che il Cupido antico compratole da Lodovico Brognolo era oggetto bellissimo, e che se non fosse stato per lei avrebbe fatto di tutto per trattenerlo a Roma, poiché lo addolorava vedere la città spogliata dei suoi tesori. A questi anni, completamente privi di opere scultoree documentate, sono state assegnate dalla critica (Strinati) il dossale nella cappella del cardinale Giorgio Costa nella chiesa di S. Maria del Popolo, da datarsi sicuramente a dopo la nomina del committente a vescovo di Porto nel 1503, e il monumento sepolcrale a Lorenzo Cibo già nella medesima chiesa e oggi traslato e ricomposto in S. Cosimato sempre a Roma.
Le due opere sono indubbiamente stilisticamente affini e mostrano modi figurativi che sembrano evolversi, oltre lo stile più tipico di Andrea Bregno, verso un classicismo più maturo, che tuttavia non pare potersi accomunare a quello delle sculture o delle architetture lombarde del Ganti.
Nei primi mesi del 1506 il G. doveva essere tornato a Mantova per un breve periodo e in seguito passato a Urbino, per tornare nell'estate del medesimo anno a Roma con una sosta a Fossombrone. Il soggiorno urbinate fruttò al G. la citazione letteraria più prestigiosa di tutta la sua carriera, quella di Baldassarre Castiglione che ne fa uno degli interlocutori del Cortegiano.
La posizione che lo scultore incarna nel dialogo, per altro progressivamente diminuita nelle diverse redazioni del testo, è in favore della superiorità della scultura sulla pittura in virtù delle più pedisseque potenzialità mimetiche e delle più selettive difficoltà tecniche. Simili idee sono destinate, nell'economia del dialogo, a essere perdenti e sembrano fondarsi su argomenti deboli e antiquati rispetto alla "maniera" moderna che propone un nuovo statuto concettualmente complesso della mimesi pittorica.
Di recente si è proposto (De Benedictis) di identificare un bassorilievo (New York, collezione F. Drey) con il ritratto in marmo, richiesto da Isabella nell'ottobre del 1506 per farne dono alla marchesa di Cotrono; il profilo non pare essere della mano del G. e potrebbe anzi trattarsi di una falsificazione del secolo XIX ricavata, quanto all'acconciatura, dalla medaglia di Lucrezia Borgia. Lo stesso sospetto concerne un bassorilievo con un busto di donna di profilo dai capelli trattenuti da treccioline annodate a formare nodi d'amore conservato nei depositi della National Gallery di Edimburgo: lo stile dell'intaglio e la foggia degli abiti e delle pettinature non è, infatti, priva di incongruenze. Al G., in questo ultimo periodo romano, è stata pure attribuita una medaglia per Gabriele de Gabrielli, cardinale di S. Prassede, verosimilmente eseguita tra il settembre 1507 e il novembre 1511, data di morte del porporato (Hill, n. 230).
Il perenne viaggiare di corte in corte, in parte per ragioni artistiche e in parte per ragioni diplomatiche, continuò anche negli anni seguenti: nel 1507 il G. era a Napoli, dove diveniva famigliare del cardinale Luigi d'Aragona ed eseguiva una medaglia per Isabella d'Aragona (ibid., n. 223). Non è invece a lui attribuibile quella per Beatrice d'Aragona, regina d'Ungheria (ibid., n. 238). Nel 1510 il G. era ancora a Roma, dove valutava per la marchesana una gemma antica con due anatre che il Brognolo aveva procurato per lo studiolo mantovano, ma già il 17 dicembre era a Loreto, insieme con Donato Bramante, impegnato nel cantiere della basilica della Santa Casa. Nei documenti concernenti perizie e ordinativi di materiali è detto prima scultore, fino al 7 marzo 1511, poi dal 5 giugno dello stesso anno architetto della Fabbrica (Venturi; Weil-Garris). Della decorazione marmorea della Santa Casa, impresa per la quale era stato verosimilmente chiamato in virtù delle straordinarie capacità di ornatista, potrebbero essere avvicinati al G. solo alcuni pannelli decorativi del basamento con putti fitomorfi dalle lunghe e capricciose code di acanti, estranei al lessico ornamentale di Andrea Sansovino che gli subentrò dopo la sua morte.
Da Loreto il G. scrisse a Pietro Bembo: la lettera tratta soprattutto di avvenimenti mondani e di cronaca spicciola e testimonia una spigliata familiarità con l'umanista, attestata anche da una missiva di quest'ultimo alla marchesana del 5 nov. 1508 (Cian). In questo stesso periodo il G. continuò a frequentare anche la corte di Urbino. Nel medesimo anno Isabella e il cardinale Ippolito d'Este brigavano per ottenere al G. un benefizio ecclesiastico che gli garantisse una rendita sicura.
Il G. testava nella città marchigiana il 30 apr. 1512 (Venturi) chiedendo di essere sepolto nella cappella del Crocifisso nella basilica lauretana, lasciando tutti i suoi averi all'ospedale recanatese di S. Lucia e donando al notaio la sua copia degli Asolani del Bembo. Nel testamento, conosciuto solo attraverso una tarda copia, erano menzionate varie anticaglie, gemme, medaglie, sculture e gioielli, una raccolta tipica del gusto antiquario rinascimentale.
Il G. morì il 31 maggio 1512 a Loreto; e l'epitaffio compilato da Gerolamo Casio venne inserito nella Cronica di epitaphii di amore e virtute editi a Bologna nel 1525 (Venturi).
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