GIOVANNI d'Anagni (Giovanni di Preneste)
Originario di Anagni, nacque presumibilmente poco dopo il primo quarto del secolo XII; appartenne alla famiglia dei conti di Segni, la quale nel corso del Duecento riuscì a far eleggere ben tre papi tra i suoi esponenti; in particolare G. fu lo zio di Innocenzo III.
Dovette fare parte del capitolo della cattedrale anagnina, da cui ebbe in beneficio parecchi beni fra i quali quelli di Acuto e di Anticoli. Nel 1159, o forse poco prima, papa Adriano IV lo nominò cardinale diacono del titolo di S. Maria in Portico, in un periodo di forte tensione con l'Impero, a seguito dello scontro di Besançon (settembre 1157), tra i legati papali e Federico I, e della rigida politica anticomunale avviata dal sovrano dopo la Dieta di Roncaglia (11 nov. 1158).
Anche se non esistono precise testimonianze, G. dovette partecipare alla confusa vicenda che portò, il 7 sett. 1159, alla duplice elezione di Alessandro III Bandinelli e di Vittore IV. Come la quasi totalità dei cardinali, egli si schierò dalla parte del Bandinelli: il suo nome compare infatti sia nella lettera enciclica, con la quale i prelati informarono i fedeli della vicenda della doppia elezione, sia in quella inviata dagli stessi a Federico I per chiedergli di intervenire contro il messo imperiale Ottone, che stava devastando i territori soggetti alla Sede apostolica. Ma l'imperatore procedette altrimenti, convocando a Pavia, per il 5 febbr. 1160, un concilio, al quale però Alessandro III non riconobbe alcuna legittimità. Proprio in previsione delle possibili conseguenze, il papa nominò G. suo legato in Lombardia; egli si trovava appunto a Piacenza, insieme con il suddiacono Giovanni Piozzuto, quando venne raggiunto dalla convocazione imperiale, alla quale non dette ovviamente alcuna risposta. Il 13 febbraio G. venne perciò solennemente scomunicato da Vittore IV, insieme con Alessandro III e i suoi sostenitori.
Alla notizia delle decisioni sinodali G. si portò a Milano, dove il 28 febbraio, insieme con l'arcivescovo Oberto, scomunicò a sua volta Federico e Vittore. Questa iniziativa - evidentemente concordata in precedenza tra i due - possedeva anche un chiaro risvolto politico, perché legittimava la guerra che Milano, già da alcuni anni, conduceva contro il sovrano.
Identica prospettiva hanno le scomuniche successive del 12 marzo, contro i presuli Garsendonio di Mantova, Oberto di Cremona e Alberico di Lodi, ai quali vennero altresì accomunati i consoli e i rettori delle ultime due città, nonché di Pavia, di Novara, di Vercelli, del Seprio e della Martesana. Pure scomunicati furono Guido da Biandrate - che aveva sostenuto Vittore IV fin dalla sua elezione - e Guglielmo di Monferrato, mentre il 28 aprile venne colpito Loderico, castellano del Monte Baradello presso Como. In quello stesso giorno, infine, il legato estese la protezione apostolica alla Chiesa e alla città, dichiarando nulli tutti gli atti compiuti da Federico, fino alla sua pacificazione col papa.
Durante la permanenza a Milano G. accolse anche il ricorso del parroco di S. Giacomo di Porta Nuova contro una precedente sentenza, emanata dal cardinale Oddone, favorevole al monastero di S. Dionigi, da cui la chiesa dipendeva. Tuttavia un successivo provvedimento di Alessandro III (1164) assicurò nuovamente all'abate i suoi diritti sulla chiesa "illius portae quae dicitur Porta Nova" (Pflugk-Harttung, III, p. 212 n. 204).
Tra il 1163 e il 1164 G. venne incaricato di una legazione in Ungheria, insieme con i suddiaconi Teodino e Vitellio, quindi si occupò di assicurare alla fedeltà papale la provincia ecclesiastica di Ravenna: soddisfatto del suo rappresentante, Alessandro III lo elevò al titolo presbiterale di S. Marco, alla fine del 1167 o ai primi dell'anno successivo, giacché la sua prima sottoscrizione come cardinale prete è del 23 genn. 1168. Negli anni successivi lo troviamo al seguito del pontefice impiegato in funzioni di Curia, un ruolo che G. ricoprì fino al 1183, quando fu inviato da Lucio III in Germania, insieme con Pietro vescovo di Luni. La missione doveva risolvere la contesa sui beni matildici, appianando così i dissensi con Federico I, poi effettivamente risolti al concilio di Verona dell'anno dopo. In Germania G. visitò anche le sedi episcopali di Siegburg e di Colonia, dove tra aprile e maggio proclamò santo Annone di Colonia, scontrandosi però con una parte del clero locale che non riconobbe tale canonizzazione considerata giuridicamente sospetta.
Con Clemente III G. ricevette un nuovo, complesso incarico, per assolvere il quale a fine febbraio del 1189 partì alla volta della Francia. Si doveva, innanzi tutto, porre termine al conflitto scoppiato il 13 gennaio tra Enrico II d'Inghilterra e Filippo II Augusto di Francia - appoggiato quest'ultimo anche da Riccardo duca di Aquitania, figlio del re inglese - che rischiava di compromettere la partenza dei due sovrani per la crociata. Il legato riuscì inizialmente a convincere i contendenti ad affidarsi al suo arbitrato, ma il 28 maggio le trattative furono nuovamente interrotte, forse anche a motivo della sua parzialità. G. minacciò allora di lanciare l'interdetto sul Regno, ma Filippo reagì con durezza accusandolo apertamente di essersi lasciato corrompere dal denaro inglese, mentre Riccardo - secondo la testimonianza di Matthew Paris - si scagliò contro di lui brandendo la spada sguainata. A impedire il peggio si frapposero i magnates e gli arcivescovi del Regno che frenarono l'irruenza di Riccardo giustificando la minaccia e l'ardore del legato con i superiori interessi della crociata e l'onore della Cristianità. Ogni sforzo per la pace fu comunque inutile poiché in quel momento la guerra non si interruppe. Nondimeno G. si prodigò per raccogliere la decima, destinata a finanziare la crociata, nelle diocesi di Poitiers e di Limoges.
La missione aveva anche l'obiettivo di risolvere la controversia, ripresa nel 1186, tra l'arcivescovo di Canterbury Baldovino e il convento benedettino della cattedrale Christ Church, a seguito della decisione del presule di costituire una collegiata vicino alla città, sottraendo privilegi e beni al capitolo monastico. Quest'ultimo si era appellato a Roma, trovando in G. un deciso difensore; poiché però la sentenza favorevole di Urbano III era stata disattesa da Baldovino, Clemente III - dopo l'invio di un primo legato, morto poco dopo la partenza - incaricò G. di fare applicare la decisione del papa. Un incontro tra i monaci e Baldovino, promosso da G. il 19 maggio 1189 a Le Mans, ebbe però un andamento tempestoso e le gravi accuse reciproche resero inutile qualsiasi tentativo di mediazione. G. ordinò allora a Baldovino di restituire ai monaci la piena libertà di movimento e i beni a loro sottratti; l'arcivescovo tuttavia poteva contare sull'appoggio di Enrico II, che vietò al legato di recarsi in Inghilterra. A giugno G. si trovava ancora a Rouen: qui lo raggiunse una nuova delegazione dei monaci, poiché Baldovino aveva subito provveduto a modificare in loro sfavore le proposte fatte da lui stesso a Le Mans e da loro accettate.
La salita al trono inglese di Riccardo I, nel luglio seguente, non fece che peggiorare le cose: il nuovo re incontrò G. in agosto, confermandogli il divieto di accesso nel Regno e prospettandogli l'intenzione di risolvere personalmente la disputa. Riccardo invitò inoltre il legato a occuparsi della situazione della Chiesa di Normandia, cosa che egli fece, tra l'altro canonizzando, il 28 del mese, Stefano di Muret, fondatore dell'Ordine di Grandmont. Contemporaneamente però G. inviò lettere ai monaci e a Baldovino, ribadendo i termini della sentenza apostolica. Il 27 settembre Riccardo risolse apparentemente la contesa con un arbitrato, ma in novembre i monaci si rivolsero ancora a G., per lamentarsi degli abusi del priore, nominato da Baldovino, e denunciando l'arbitrato stesso riaprirono lo spazio per l'intervento del legato. Alla fine del mese G. giunse a Dover, dove fu fermato da un ordine di Riccardo e della regina che, solo in un secondo momento, lo autorizzarono a recarsi a Canterbury. Qui venne ospitato dall'arcivescovo e non poté accedere alla chiesa; incontrati quindi i monaci, G. consigliò loro di temporeggiare, emanando l'11 dicembre un documento, "omnibus ad quos presentes litterae pervenerint", con il quale cassava l'accordo con Baldovino poiché estorto con la forza e qualsiasi atto inerente a esso o contrario a quanto stabilito dal papa (Epistulae Cantuarienses, p. 323 n. 336).
La drastica soluzione data dal legato al conflitto non si spiega solo con la dura opposizione di Riccardo e del presule, ma anche con la lettera, pervenutagli da Roma qualche giorno prima, con la quale Clemente III lo informava della scomparsa del re di Sicilia Guglielmo II: ciò apriva la grave questione dell'eredità del Regno. Il papa inoltre aveva raccomandato a G. di rientrare il più presto possibile. Non di meno il suo documento lasciava aperta la porta alla ripresa del problema in tempi più propizi, come in realtà poco dopo sarebbe accaduto. Il 13 dicembre, prima di partire, però, G. ebbe modo di rivalersi ancora su Baldovino, annullando l'interdetto con cui l'arcivescovo aveva colpito le terre di Giovanni, fratello di Riccardo, che aveva sposato una consanguinea di terzo grado. Giovanni infatti si era appellato al papa, rendendo così inefficace il decreto arcivescovile prima della sentenza papale.
Tornato a Roma, G. venne nominato da Clemente III cardinale vescovo di Preneste (Palestrina) nell'agosto del 1190: un giusto riconoscimento per i difficili servizi svolti Oltralpe. Nel 1184 egli era entrato in possesso di beni ad Acuto, tra Anagni e Fiuggi, nel 1187 tali beni furono divisi tra lui e i figli di un certo Pandolfo, con il quale li teneva in comune; nel 1193, infine, G. lasciò in eredità tutti i possedimenti che aveva in Acuto e Anticoli alla chiesa di S. Pietro in Vineis. Ormai anziano, G. continuò a essere impiegato e a operare nell'ambito della Curia; il suo nome appare nelle sottoscrizioni degli atti fino al 22 marzo 1196, cioè nel pieno del pontificato di Celestino III.
È questa l'ultima attestazione documentaria nota di G. che, con ogni probabilità, dovette morire poco dopo.
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