GIOVANNI da Besate
Figlio di un Gotifredo originario di Besate (località sulla riva sinistra del Ticino, tra Milano e Pavia), ignoriamo la data della sua nascita, da porre, presumibilmente, sullo scorcio del sec. X.
Discendeva da una ricca e prestigiosa famiglia; tra i suoi membri si ricordano Giovanni (XIII) arcivescovo di Ravenna (983-997), Sigefredo vescovo di Piacenza (997-1027) e Cuniberto vescovo di Torino (1046-81), nonché ecclesiastici di curia a Pavia, Parma e Milano. Anselmo da Besate il Peripatetico, autore della Rhetorimachia, era suo nipote, in quanto figlio del fratello Rozo.
G. divenne vescovo di Lucca - secondo di questo nome - succedendo a Grimizio (morto il 22 ott. 1022) prima del 14 febbr. 1223, giacché è da porre successivamente a questa data il primo documento che nomina G. come vescovo, e che è datato nel decimo anno dall'incoronazione imperiale di Enrico II.
Con questo documento, per volontà di Enrico, G. ordinò nella pieve di S. Maria e S. Giovanni Battista di Triana il prete Alberto e il diacono Gerardo, che forse si trovavano alla corte dell'imperatore o facevano parte del seguito del vescovo. Il luogo da cui, infatti, è datato l'atto, benché la scrittura sia qui corrotta - si legge "Bermaht" o "Beruaht" - sembra segnalare una località in Germania.
Nei trent'anni e oltre del suo episcopato l'opera di G. fu davvero cospicua sia sul versante della vita ecclesiale, sia nell'ambito più propriamente politico ed economico, provvedendo il vescovo a creare o a rinsaldare alleanze con i potenti laici per la difesa giuridica e militare dei possedimenti e dei diritti della Chiesa di Lucca. L'azione di risanamento dei costumi del clero si espresse essenzialmente nel favorire il movimento canonicale: G. si dedicò cioè con zelo a promuovere uno dei principî guida della riforma, l'osservanza della vita comune di ecclesiastici non monaci stabilmente destinati al servizio di una chiesa.
Ai tempi della sua ascesa all'episcopato lucchese erano appena nate le prime canoniche: quella di S. Maria Forisporta e certamente anche quella di S. Michele in Foro, di cui presto G. ebbe a occuparsi. Il 27 apr. 1027 Corrado II il Salico confermò, in favore di questa chiesa, una cospicua donazione - nel diploma si parla di case, corti, castelli, rocche, chiese e terre - fatta un mese prima da Berardo detto Benzo. Dal gesto di Corrado, a pochi giorni dalla sua incoronazione imperiale, si potrebbe dedurre che G. si schierò in suo favore nella contesa che vide il Salico contrastato dal marchese di Toscana Rainerio. Nel medesimo diploma si accenna all'intenzione di G. di fondare presso S. Michele un monastero, ma di tale proposito i documenti posteriori non fanno parola. Più di dieci anni dopo, precisamente il 22 febbr. 1038, fu riconfermata a G. l'investitura dei beni di Benzo donati a S. Michele.
Ben sei furono le nuove canoniche fondate da Giovanni da Besate. Già nel 1025 egli cedette la terza parte delle oblazioni, spettanti al vescovato, fatte alla pieve di S. Maria a Monte (ai confini orientali del territorio lucchese, oggi nella diocesi di San Miniato), perché i quattordici ecclesiastici ivi ordinati si iniziassero alla vita regolare. Benché Eugenio III nel 1151, prendendo sotto la protezione apostolica la pieve, non accenni ai canonici, non si vede motivo per pensare che il tentativo di G. di istituirvi la vita comune non abbia avuto successo. In una bolla del 1195 (cfr. Kehr, p. 475), poi, con cui Celestino III si faceva carico della pieve del borgo di San Genesio (già Vico Wallari) ai piedi del colle di San Miniato, furono confermati l'ordo vitae canonicae professato dal suo clero e inoltre "omnia quae felicis memoriae Iohannes episcopus canonicae vestrae concessit ecclesiae". Il documento, cioè, attesta l'esistenza di questa canonica già durante l'episcopato di G.; è anzi più che probabile che sia stata da lui stesso fondata e dotata di mezzi di sostentamento come quella di S. Maria a Monte. Con l'appoggio di G. nacque anche la canonica di S. Pantaleone sul "mons Heremitae" (tra Lucca e Pisa), laddove i signori di Vaccoli avevano in precedenza donato ai preti Bonaldo, Giovanni e Bonatto, al chierico Pietro e al laico Villano un appezzamento di terra per costruirvi una chiesa. Nel 1044 i cinque, con un atto stipulato lassù quando l'edificio fu terminato (un raro e interessante atto di fondazione ancora conservato), rinunziarono in favore della nuova canonica ai loro diritti individuali sulla chiesa e diedero inizio alla vita regolare. A dimostrare la solennità dell'avvenimento, tutti i firmatari - il vescovo G., l'arciprete, l'arcidiacono, il primicerio, il cantore e altri quattro canonici della cattedrale, gli abati di S. Ponziano, S. Frediano, S. Pietro, un giudice imperiale, due giudici del Sacro Palazzo e due notai imperiali - affrontarono l'impervia salita del "mons Heremitae" per partecipare alla cerimonia. Datano a partire dagli anni di episcopato di G. anche la canonica di S. Pietro Maggiore (1034) e la chiesa di S. Pietro Pozzeveri (1039). Anche l'importante canonica di S. Frediano, il cui prestigio culminò nel corso del XII sec. con l'esenzione dall'autorità episcopale, vide i natali sotto l'egida di Giovanni. Già nel 1042 sono ricordati i preti, i diaconi e i chierici pertinenti alla chiesa, mentre una donazione del 1046, compiuta da Enrico III, mostra in quell'anno ormai costituita la canonica, impropriamente detta monasterium.
Nel 1048 G., dopo essere faticosamente riuscito a persuadere alcuni canonici della cattedrale di S. Martino ad accettare la vita comune, emanò disposizioni atte a estendere la riforma a tutto il suo clero. Egli stabilì infatti che, alla morte di un ordinarius, fosse preferito a succedergli chi promettesse di fare vita regolare; inoltre si riservò la più ampia facoltà di agire nei riguardi dei canonici che gli avessero disobbedito. Per coloro poi che accettarono la riforma, G. mise a disposizione una casa con terra nei pressi della cattedrale. Queste donazioni furono confermate negli anni 1051 e 1052 da Leone IX, il quale stabilì pure che i beni degli ecclesiastici che avessero vissuto scandalosamente fossero devoluti, alla loro morte, ai canonici che conducevano vita regolare. Sono proprio le asserzioni del papa a testimoniare che l'esperimento di riforma non sortì l'effetto sperato.
Maggior successo per la ricchezza e la sicurezza della Comunità lucchese ebbe la fitta trama di patti de placito et de bisonnio, cioè di assistenza giudiziaria e militare, stipulati da G. con conti e signori per ottenere il loro aiuto al fine di difendere o eventualmente riconquistare castelli di recente edificazione o ricostruzione. I conti Gherardeschi si allearono con G. nel 1034 per la difesa del castello di Perignano e nel 1051 per la sicurezza del castello di Rustica e dei beni vescovili di un vasto territorio circostante. Al patto del 1051 si accompagnò una donazione all'episcopio che includeva anche una quota del castello. Negli stessi anni G. stipulò accordi simili con un esponente della famiglia dei conti Ardengheschi per il castello di Montalto e con i signori laici della Lucchesia per la difesa dei castelli di Porcari e di Vaccoli, di alcune porzioni dei quali egli era già, o sarebbe divenuto, possessore.
Non è chiaro se fosse il vescovo a cercare aiuto dalle autorità laiche, oppure se fossero queste a prendere l'iniziativa per ottenere la protezione episcopale in cambio di parti di castelli oppure (o anche) del loro appoggio giudiziario o militare; comunque si interpreti, la documentazione rimastaci testimonia l'intraprendenza di G., mai venuta meno nei numerosi anni del suo episcopato, nell'assicurare - o reciprocamente assicurarsi, lui e i signori laici implicati - la debita protezione dalla violenza, legale o militare, di altre forze in campo, contribuendo a tessere le fila di un rapporto, nella sostanza, di carattere vassallatico-beneficiale, anche se non formalmente feudale.
L'ultimo documento in cui G. appare ancora nel pieno delle sue attività reca la data del 18 maggio 1055: egli sottoscrisse un giuramento di un tal Benedetto in favore di Azzo, abate del monastero dei Ss. Pietro e Benedetto, per un appezzamento di terra su cui era edificata la chiesa di S. Michele Arcangelo a Miate. Probabile, ma non accertata, è la sua partecipazione all'importante concilio di Firenze indetto da Vittore II e da Enrico III il 4 giugno 1055: è rimasta la documentazione di alcuni atti, quasi contemporanei al sinodo, che vedono l'intervento di G. e sono datati appunto da Firenze o dai suoi pressi.
Come si legge nel Necrologium Lucense (del sec. XII), G. morì il 28 maggio 1056. La notizia è confermata da una donazione al vescovato di diverse case e beni, fatta il giorno precedente da un chierico Benedetto per la salvezza dell'anima del vescovo, ancora in vita ma, con ogni evidenza, gravemente infermo.
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