GIOVANNI da Bologna
Non si conoscono le date di nascita e di morte di questo pittore di origine bolognese, attivo nel Veneto, tra Treviso e Venezia, e forse in Emilia, nella seconda metà del XIV secolo.
Un documento trevigiano del 27 luglio 1377 cita espressamente un "magister Johannes pictor quondam ser Albertini de Regio, qui moratur Tarvisii", fornendo importanti precisazioni circa il nome del padre dell'artista e la sua origine reggiana. In un secondo atto notarile, risalente al 29 maggio dell'anno successivo, è ancora menzionato un "magister Johannes de Salamone impictor", avente lo stesso patronimico e sempre residente a Treviso. Le indagini archivistiche condotte da Gargan (1978), sulla traccia di Liberali (1935), hanno reso note, oltre a quelle appena segnalate, altre testimonianze di rilievo: il 17 ag. 1378 G. ricompare negli atti con il titolo di "aurifex" e negli anni seguenti - il 1° marzo e il 19 apr. 1379, il 30 apr. 1382, il 24 genn. 1383 - è documentata la sua effettiva residenza a Treviso. In questa città "magister Johannes pictor de Bononia" è pure registrato il 29 ag. 1385, ma come "habitator Veneciis", indicazione ribadita anche in un atto trevigiano del 31 agosto dello stesso anno, dove G. risulta domiciliato nella contrada di S. Luca. In questa circostanza egli figura quale "fideiussor" del pittore Giacomello da Bologna - pure abitante a Venezia - che si era impegnato a eseguire una tavola ("quam numquam fecit") per il notaio Vittore da Colfosco. Non avendo il collega restituito "una anchona et uno armarollo" ricevuti in pegno dal committente, G. si sdebitò per lui, ricevendo il permesso di lasciare Treviso "libere et expedite".
A Venezia, sempre nella contrada di S. Luca, tra il 23 e il 24 ott. 1389, G. redasse il proprio testamento: l'atto notarile - brevemente segnalato in un primo tempo da Molmenti (1903), quindi da Testi (1909, p. 297), poi integralmente pubblicato dalla Leoni (1986, p. 153) - palesa la volontà del pittore di dividere i suoi beni tra i familiari, in primis la moglie, e altri beneficiari, tra cui spiccano i non ben specificati "magister Andreas incisor" e "Nicolao suo disipulo", che sarebbe suggestivo riconoscere nel giovane pittore veneziano Nicolò di Pietro (Leoni, p. 152; Guarnieri, 1996, p. 49; De Marchi, 1997, p. 6). È assai probabile, come suggerito dalla Guarnieri (p. 51 n. 22), che la morte abbia colto G. non molto tempo più tardi, giacché in esordio lo stesso documento lo descrive "infirmus corpore, sanus mente et conscientia pura, timens periculum mortis".
Di fronte a questa frammentaria documentazione biografica, cui sfugge qualsiasi contatto effettivo con l'area emiliana di cui G. risulta essere originario, la critica continua a mostrare divergenze di giudizio nello stabilire una concorde scansione cronologica delle sue opere, supportate nella maggior parte dei casi da firme autografe. In base a criteri stilistici, la più antica fra quelle pervenuteci può essere giudicata la Madonna dell'Umiltà e santi (Venezia, Gallerie dell'Accademia, inv. 230) proveniente dall'albergo della Scuola di S. Giovanni Evangelista, i cui confratelli inginocchiati sovrastano la firma del pittore in veneziano; un indizio che, accanto al rilievo di questa e di altre commissioni, attesta l'integrazione professionale raggiunta da G. in laguna già ai tempi degli esordi (Testi, p. 297; Pallucchini, 1964, p. 186). L'incidenza di tale contatto si precisa culturalmente nell'assoluta adesione ai modelli figurativi di Lorenzo Veneziano, nella cui bottega è verosimile che il pittore abbia compiuto il proprio apprendistato artistico.
I Santi del polittico Lion (Venezia, Gallerie dell'Accademia: Pallucchini, 1964, figg. 499-502), fungono da immediato precedente per i quattro santi della tavola di G., cui sfugge tuttavia l'essenza capziosamente naturalistica e dinamica del linguaggio di Lorenzo, presto congelata in ritmi rallentati e movenze appena accennate, in una sorta di "accademizzazione" della potente virata gotica impressa dal caposcuola nella pittura veneziana del secondo Trecento.
A questa fase, risalente agli anni Settanta circa, dovrebbe appartenere anche la Madonna con il Bambino fra due schiere di angeli della Pinacoteca di Brera a Milano, pure firmata. L'impianto iconografico di ascendenza veneziana coniuga la sagoma chiusa e semplificata della Madonna dell'Umiltà, molto vicina a quella di Venezia, alle scattanti figure degli angeli, di sapore guarientesco. Ostico è il rapporto con un'altra Madonna dell'Umiltà affrescata in S. Corona a Vicenza, ridipinta da Marcello Fogolino nel primo Cinquecento, che fu attribuita a G. da Arslan (1956), ma per la quale è stato suggerito un riferimento allo stesso Lorenzo Veneziano (Guarnieri, 1998).
Un diverso problema è invece posto dal S. Cristoforo firmato (Padova, Musei civici agli Eremitani, Lascito Barbaran) che Zanetti (1771) e Lanzi (1809) ricordavano presso la Scuola dei mercanti a Venezia, oggi non più esistente. La sua esecuzione per quella confraternita è certificata dall'iscrizione tuttora leggibile a lato del santo, ma la sua identificazione con quel "penello", ovvero stendardo o insegna, ordinato nel 1377 dalla stessa Scuola dei mercanti non sembra al contrario palese e ha sollevato giustificabili dubbi (Guarnieri, 1996, pp. 46 s.). D'altronde, l'istituzione della Scuola avveniva precisamente in quell'anno, fornendo l'occasione per la commissione di un'opera di cui la tavola padovana, visti il supporto e le misure, poteva rappresentare uno scomparto, forse quello principale. Per altri (De Marchi, 1987; 1997) il grado di cultura impresso nel S. Cristoforo presuppone una fase più inoltrata, a conclusione dell'attività di G.; nondimeno, la solida costruzione del santo sembra proporre in scala monumentale il Battista e il S. Paolo della Madonna veneziana, e il suo rapporto con l'analoga figurazione affrescata in S. Marco a Pordenone e datata 1385 difficilmente può postulare un eccessivo avanzamento cronologico (Cozzi, 1993).
Ben diversa era tuttavia la cronologia proposta da Longhi, tendente a collocare agli esordi alcune opere di provenienza bolognese che in seguito Boskovits (1990) ha pensato di posticipare rispetto alle altre tavole note, creando una diversa immagine della maturità e dello sviluppo artistico del pittore. In effetti, l'esame di dipinti firmati come il polittico n. 227 della Pinacoteca nazionale di Bologna, già nella chiesa di S. Marco, e l'Incoronazione della Vergine del Museum of art di Denver (Kress Collection, K 428), che Cavalcaselle (1887) vide in casa Gualandi a Bologna, porta a calarli pienamente in quella corrente neogiottesca introdotta tra il Veneto e l'Emilia dall'attività di Altichiero e di Iacopo Avanzi. A Bologna tale indirizzo, che conduce a una semplificazione e a una razionale strutturazione massiva delle forme, trova un puntuale parallelo nell'opera di Iacopo di Paolo: la piccola Incoronazione della Vergine della collezione Thyssen a Madrid, densamente chiaroscurata sui volti, è pensabile entro il percorso di G. solo se collocata in una fase decisamente avanzata, oramai integrata nella cultura avanzesca dell'ultimo Trecento.
Un contatto con Bologna dunque si verificò probabilmente solo al termine della sua carriera ("sconosciuto in patria", lo definisce ciò nonostante Lanzi) e non agli esordi, come talvolta si è creduto (Rosini; Filippini), opinando per una sua formazione emiliana presto tradottasi in una conversione ai modi di Paolo Veneziano (Coletti; Berenson), o di Lorenzo (Sandberg Vavalá, 1931; Lucco, 1986). La soggezione al linguaggio di quest'ultimo, osservata dalla maggior parte degli studi, non rese mai G. figura in tutto parallela a personalità come Stefano da Sant'Agnese o Iacobello di Bonomo, laurenziani autentici; mentre alcune opere del Maestro del Polittico di Torre in Palme - i due Santi di collezione milanese (Pallucchini, 1964, figg. 654 s.) o l'Incoronazione della Vergine del Museo Correr a Venezia, già accostata a G. (Leoni) - rivelano significative affinità con le sue tavole ultime. Giudicato pertanto "imitatore pedissequo di Lorenzo" (A. Venturi, 1907, p. 935), "debole artista" (Testi, p. 296), "personalità piuttosto modesta" (Flores D'Arcais, 1995, p. 715), la sua esperienza, al contrario, deve essere storicamente compresa entro quei fenomeni di riflusso che caratterizzarono la pittura veneta e quella emiliana nell'ultimo quarto del Trecento e come riflesso di un rinnovato interesse per la sintesi giottesca, che ha indotto a prospettare relazioni, in verità affatto generiche, con l'arte di Giusto de' Menabuoi (Bologna; Pallucchini, 1964; Flores D'Arcais, 1995).
Tra le opere variamente attribuite a G., ma non pertinenti alla facies stilistica di quelle fin qui considerate, si possono elencare gli affreschi in S. Caterina a Treviso (Leoni; Gibbs), diversamente giudicati da Boskovits (1994) e De Marchi (1997, p. 17 n. 30); il Crocifisso del Museo civico di Treviso (Lucco, 1980), connotato da una cifra espressionistica inusuale per l'artista; la Madonna orante del Museo civico Amedeo Lia a La Spezia (Longhi, in Zucchini, 1948), opera veneziana del tardo Trecento (De Marchi, 1995, p. 255 n. 53); infine, i due sportelli raffiguranti una serie di santi (Parma, Collezione d'arte Fondazione Cassa di Risparmio di Parma; Guarnieri, 1996, p. 48), che evidenziano un'accesa qualità umorale degna dello stesso Lorenzo Veneziano o di un suo più fedele continuatore operoso in area adriatica.
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