DA EMPOLI, Giovanni
Nacque a Firenze il 24, ott. 1483, come ha dimostrato in un saggio nel 1923 E. Masini basandosi sul registro dei battesimi in S. Giovanni, e non il 27, come ha ripetuto la maggioranza dei biografi seguendo quanto scritto dallo zio Girolamo nella Vita, che, nonostante non poche inesattezze, resta pur sempre la maggior fonte di notizie, soprattutto per gli anni giovanili.
Il padre Leonardo aveva un banco di cambio. I Da Empoli avevano ottenuto la cittadinanza fiorentina nel 1372; la famiglia era stata ascritta a diverse arti e alcuni suoi membri avevano ricoperto cariche pubbliche nel Comune e poi sotto il governo mediceo.
Il D. ricevette una buona educazione, improntata a severi principi religiosi. Come suo padre, fu solerte seguace del Savonarola e sembrava indirizzato a prendere il saio, ma, dopo la caduta del frate domenicano, preferì dedicarsi completamente alla mercatura, entrando a far pratica nel banco paterno. Si impadronì rapidamente dell'arte e il 14 marzo 1502 parti da Firenze diretto a Bruges per conto della casa fiorentina degli Scarfl e Buonagrazia. Rimase nelle Fiandre poco più di nove mesi: un'altra casa commerciale, quella dei Gualterotti e Frescobaldi, lo scelse per mandarlo nelle Indie. Il 27 dicembre partì per Lisbona, dove si imbarcò su una delle quattro navi della spedizione portoghese comandata da Alfonso de Albuquerque, in buona parte finanziata da mercanti fiorentini, fra i quali erano i Marchionni e i Giraldi.
Questo fu il primo dei tre viaggi in Oriente del D., iniziato il 6 apr. 1503 e conclusosi il 16 sett. 1504 a Lisbona e il 22 ott. 1506 a Firenze, dopo una lunga sosta a Bruges per render conto ai suoi principali dei cospicui guadagni che erano stati fatti.
Di esso il D. diede notizia con una relazione fatta in Palazzo Vecchio alla presenza del gonfaloniere P. Soderini e di numerosi altri illustri cittadini, messa poi periscritto ma andata perduta; e con una più breve, di cui esistono due mss. nella Biblioteca nazionale di Firenze (B. R. [Banco Rari] II.IV.347, cc. 204r-206v e B.R. 237, cc. 1r-9r) e che venne pubblicata per la prima volta da G. B. Ramusio (ed. 1550, I, ff. 156r-158r) col titolo Viaggio fatto nell'India per Gioanni Da Empoli fattore su la nave del Serenissimo Re di Portogallo per conto de Marchionni di Lisbona. Non avendo avuto una posizione di rilievo nella spedizione, le fonti portoghesi non menzionano il suo nome. La sua relazione contiene però interessanti notizie sui popoli e sui paesi visitati: l'isola dell'Ascensione, il Brasile, il Capo di Buona Speranza, la costa africana fin quasi alla Somalia, la costa del Malabar.
Il D. ci informa che, dopo aver toccato l'isola dell'Ascensione, "di nullo valore, per quanto potemmo comprendere", la spedizione preferì seguire una rotta più occidentale anziché procedere direttamente verso il Capo di Buona Speranza. "Navigando in detta volta ci trovammo tanto avanti, per mezzo della terra della vera croce, over del Bresil così nominata, altre volte discoperta per Amerigo Vespucci, nella qual si fa buona somma di cassia, e di verzino... Le genti d'essa sono di bona forma, e vanno ignudi, così huomini, come donne, senza coprire niente; sforacchiansi così in pelle insino alla cintura, e s'addomano di penne verdi di pappagalli, e le loro labbra sono piene d'ossa di pesce. Le loro arme sono come dardi, le punti coperte di dette ossa di pesce. Fede nessuna non hanno, salvo epicurea; mangiano per commune uso carni humane: le quali seccano al fummo, come noi la carne di porco".
Più brutti gli apparvero gli abitanti dell'Africa australe: "Gli huomini sono senza capelli, col capo tignoso e brutto, con gli occhi cispi, e il corpo fino alla cintura è vestito di pelli pelose, e portano le loro nature in un cuoio piloso, a modo di guaina, sempre diritta. Le donne portano detto habito di pelli, e a esso appiccano una coda pilosa di simil bestia, le quali pendono dinanzi, e di dietro, per coprir le lor vergogne. Hanno le poppe loro molto lunghe, cosa molto deforme... Legge nessuna non tengono, mangiano carne cruda, per quanto habbiam veduto, parlano in gola, e con cenni e fischi, e già mai gli habbiam veduti esplicar parola espedita, perché avevamo fra noi huomini che sapevano varie lingue, e già mai potettono pigliar construtto di loro lingua, e in conclusione sono huomini bestiali" (Ramusio, f. 156rv).
Arrivato alla costa del Malabar, si trovò a prender parte agli attacchi che Albuquerque e suo cugino sferrarono contro il rajah di Calicut; quindi si recò a Quilon, nell'estremità meridionale della penisola indiana, dove partecipò alle trattative con gli abitanti del posto. Si sofferma a lungo su questa tappa, particolarmente proficua dal punto di vista dei commerci e dove ebbe la sorpresa di incontrare una comunità di cristiani: i cosidetti nestoriani di S. Tommaso, già visitati dai francescani italiani del '300: "E chiamansi per nome christiani, sì donne, come huomini come noi. E d'essa sorte sono un numero tremila, poco più o meno. E subito ci menorono a vedere una chiesa fatta al modo nostro, mediocre con santi e croce intitolata santa Maria. E al circuito d'essa habitano e detti christiani chiamati Nazzareni" (Ramusio, f. 157r). Da Quilon andò a Cochin e a Cannanore, dove, caricate le provviste, il 27 genn. 1504 iniziò il viaggio di ritorno, che fu particolarmente laborioso, soprattutto a causa delle calme incontrate nel golfo di Guinea, e che si concluse dopo quasi nove mesi.
Il D. non rimase a lungo a Firenze. Il 14 genn. 1507 ne ripartì diretto sempre a Bruges, dove i Gualterotti, fattagli fare ulteriore pratica di mercatura, decisero di inviarlo di nuovo in Oriente con l'incarico di spingersi fino ai porti della Malacca. Tornato quindi a Lisbona, dopo un viaggio per mare attraverso il golfo di Biscaglia in cui rischiò di perdere la vita, partì su una delle quattro navi armate da mercanti italiani con la spedizione comandata da Diego Méndez de Vasconcellos. Diretta in Malacca, la spedizione si proponeva finalità mercantili da perseguirsi in maniera indipendente, senza sottostare all'autorità di Albuquerque, viceré in India. Il D., insieme ad un altro mercante italiano, Leonardo Nardi, ne fece parte in qualità di "feitor" o fattore. Partì il 16 marzo 1510 e fece ritorno a Lisbona il 22 ag. 1514.
Di questo secondo viaggio, particolarmente legato alle vicende dell'espansionismo coloniale portoghese, abbiamo notizia oltre che dagli storici portoghesi, che naturalmente danno rilevanza alle imprese dell'Albuquerque, e da quanto scrive lo zio Girolamo nella Vita, anche da una lunga lettera che il D. terminò di scrivere il 20 luglio 1514 nelle Azzorre, poco prima del suo arrivo a Lisbona, e quindi spedì al padre il 6 novembre. Ne esistono due mss. nella Biblioteca nazionale di Firenze (B. R. II.IV.347., cc. 208r-232r e B. R. 237, cc. 9r-50r), il primo dei quali fu pubblicato da J. Gråberg da Hemsö nel 1846 (pp. 35-84) e più recentemente da A. Bausani nel 1970 (pp. 31-81) con il titolo Lettera mandata da Giovanni da Empoli a Lionardo suo padre, del viaggio di Malacca.
La lettera contiene notizie particolarmente interessanti che fanno luce sul carattere dell'Albuquerque. Egli si risentì per il fatto che la spedizione di Vasconcellos, giunta al largo di Goa il 16 ag. 1510, era stata sottratta al suo comando, considerando ciò come una inutile e pericolosa dispersione di forze ed un'offesa al suo prestigio. Pretese subito che le navi del Vasconcellos si unissero alle sue per riconquistare la città, da cui era stato scacciato da una rivolta popolare, ingigantendo ad arte i pericoli cui sarebbe andato incontro il dominio portoghese in India se ciò non fosse avvenuto. Vasconcellos si lasciò convincere e partecipò alla battaglia nel corso della quale il D. si distinse tanto da esser fatto cavaliere. Presa Goa (25 novembre del 1510) l'Albuquerque non lasciò libero Vasconcellos di proseguire, ma riuscì a trattenerlo con vari pretesti, finché lo fece arrestare allorché questi, resosi finalmente conto della malafede del viceré, si era ribellato e aveva cercato di riprendere il viaggio. Per sua fortuna il D. si trovava in quel momento a Cannanore e quindi riuscì a scampare all'ira dell'Albuquerque, il quale - liberatosi del rivale e impadronitosi delle sue navi - decise di guidare personalmente la spedizione in Malacca.
L'atteggiamento dell'Albuquerque, deciso a perseguire fini non solo mercantili, ma anche e sopratutto di conquista per affermare il dominio portoghese su tutto l'Oceano Indiano, non poteva non soddisfare l'orgoglio nazionale portoghese e ciò spiega perché gli storici del suo paese nel complesso sorvolino sul suo comportamento sleale verso Yasconcellos. Ma al D. e agli altri mercanti, che avevano finanziato l'impresa, non poteva piacere di divenire strumenti delle sue ambizioni imperialiste, soprattutto se ciò poteva influire negativamente sulle finalità meramente mercantili propostesi. Il D. non risparmiava quindi critiche all'Albuquerque, di cui metteva in risalto la doppiezza, la crudeltà e l'ambizione sfrenata, ma che alla fine dovette rassegnarsi a servire. Lo segui così nell'impresa di Malacca, venendo impiegato in missioni sovente pericolose e prendendo parte anche alle battaglie per la conquista della città di Maiacca (25 luglio e 10 ag. 1511), che descrisse coa la solita vivezza di stile: "Noi eravamo circa mille cinquecento uomini; avamo e Cini in aiuto, che erano circa quattrocento; il principe di Zamatora, con altrettanti: e così denuno battaglia il giorno dello Apostolo Santo Jacopo, padrone e intercessore di Spagna. E così, davanti giorno, dato l'assalto, e montati su lo steccato, dove si combatté assai; e si difesono gentilmente, e massime con elefanti armati, in uno de' quali era il figliuolo del re: facevangli mugghiare che era cosa da spaurire il mondo. Ammazzammone uno con l'artiglieria, ferimmo il principe, facemmo grandissima uccisione: e, come miracolosamente Nostro Signore sempre dà vittoria a' sua Cristiani contro agli infedeli, sendo nostro capitano l'Apostolo San Iacopo, con poca gente che eravamo, si superò la grandissima moltitudine di nimici, che sono valentissimi uominì e bene istruiti nella guerra, abbondanti d'ogni generazione d'arme, molto buone. E così quello giorno guadagnammo la città, e rubammola in molta parte" (J. Gråberg da Hemsö, pp. 63 s.).
Subito dopo la conquista, Albuquerque vi fece erigere un forte, alla cui costruzione dovette lavorare anche il D., che a causa delle fatiche e del clima, si ammalò al punto quasi di morire. Quindi l'Albuquerque tornò in India e il D. ottenne di partire con lui, ma neppure a Cochin, dove era arrivato dopo un viaggio disastroso, riuscì a riposare a lungo. Il 12 ag. 1512 fu rimandato in Malacca a prendervi tre navi che vi si trovavano.
Fece il viaggio di ritorno al comando di una delle tre, la "Sant'Antonio", vecchia e in cattive condizioni, e si trovò a fronteggiare una rivolta dell'equipaggio indigeno, stroncandola con decisione e con la necessaria durezza: "Loro... con spade e lance alle mani, si levorono contro a noi in sulla mezza notte, e presono il castello di prua e lo ponte di mezza nave: ammazzaronmi tre uomini, ferironmi undici malamente, e avevano già preso circa mezzo il casteilo di poppa. Io, aveva poco che m'ero andato a riposare; e sentendo le grida, credetti fussi la nave se n'andasse in fondo; e uscito di camera, mi vidi tre o quattro persone ferite a piè di me: in maniera che, intesa la cosa, missi mano all'arme, cavandone di sotto al castello, io con cinque altri che erano rimasti; di modo che n'ammazzammo bene venti, e altri mandai a gittare in mare vivi: di modo che rappacificai la cosa..." (ibid., pp. 75 s.).
Rimase in India abbastanza a lungo per sistemare le sue cose, riparare le navi, caricare la merce riferire all'Albuquerque, il quale avrebbe voluto rinviarlo ancora una volta in Malacca con un incarico più duraturo. Il D. faticò non poco per sottrarsi a questo nuovo ordine e il 14 genn. 154 partì finalmente per l'Europa al comando della "Sant'Antonio", mentre altre due navi, anche queste cariche di mercanzie, lo precedevano sulla via del ritorno.
Nonostante tutte le traversie, anche questo secondo viaggio si era concluso in attivo, ché le merci trasportate erano più che sufficienti per soddisfare sia le autorità portoghesi sia i committenti italiani. Il D. avrebbe voluto recarsi di persona a Bruges per render conto ai Gualtierotti, ma poco dopo il suo arrivo ricevette nuovamente l'ordffle del re di Portogallo di ripartire per l'Oriente quale fattore a Sumatra. Rimase così a Lisbona meno di un anno.
Di questo periodo restano di lui due lettere a Lorenzo de' Medici, datate rispettivamente 19 ott. 1514 e 9 genn. 154 [= 1515] (Firenze, Archivio di Stato, Mediceo avanti il Principato, nr. 116, cc. 405rv e 40rv) e pubblicate da A. Giorgetti nel 1880 e il Testamento fatto il 5 apr. 1515 a bordo della nave "Spera" (Archivio di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano, b. 1953, cc. 11r-44r), pubblicato da A. Giorgetti nel 1894: un nobile documento in cui lasciava come eredi suo padre e, subordinatamente, i fratelli, indicandovi dettagliatamente i Pagamenti da fare ai suoi soci, i crediti da riscuotere, i lasciti, ecc.Partì subito dopo insieme ad altri italiani, Benedetto Pucci e Raffaello (Alessandro) Galli detto Torello da Casentino, per il terzo ed ultimo viaggio (7 apr. 1515-ottobre 1517), che lo portò in Cina dove morì.
Di questo viaggio possediamo di lui soltanto la lettera che scrisse il 15 nov. 1515 da Cochin, di cui esistono due manoscritti (Firenze, Biblioteca nazionale, B. R. 233, cc. 127v-131r e B.R. 237., e. 50v-50vr) e che fu pubblicata da J. Gråberg da Hemsö nel 1846 (pp. 85-88) col titolo Capitoli di una lettera che scrive Giovanni Da Empoli Fiorentino, de' di 15 di Novembre 1515 in Cuccino, città d'India; venuta in Cananor per Cambaia 7 detto, e ricevuta in Lisbona a di 22 d'ottobre 1516; nonché le Postille testamentarie, fatte nel porto di Singapore il 4 luglio 1517 (Archivio di Stato di Firenze, Conventi soppressi, 90, S. Verdiatta, n. 66, e. 1rv) e pubblicate da M. Spallanzani nel 1978 (pp. 597-599). Dobbiamo perciò integrare tali notizie con quelle date dallo zio Girolamo nella Vita; dal suo compagno di viaggio R. Galli in una lettera da Sumatra del 10/20 sett. 1516 pubblicata da A. Giorgetti nel 1880 (pp. 170-173); dagli storici portoghesi, in particolare De Barros, Lopes de Castanheda, che lo citano in alcuni punti, e, indirettamente, da una fonte cinese e infine da documenti conservati negli archivi portoghesi (breve di papa Leone X al re Emanuele di Portogallo, datato 15 febbr. 1515, col quale si raccomanda il D. [Torre do Tombo, Maco 29 de Bulas n. 40] e un documento del 28 marzo 1515 col quale il D. viene nonúnato "feitor" in Sumatra [Torre do Tombo, Corp. Cron. parte II, Maco 55, n. 189], pubblicati in Arquivo Portugues Oriental, I, pp. 289-306, e in Cartas de Afonso de Albuquerque, V, pp. 254 s.). Secondo lo zio, il D. obbedì all'ordine del re di ripartire per andare ad aprire una fattoria a Sumàtra a condizione però di potersi recare in Cina, servendosi di tre navi che si trovavano già nelle Indie, nel caso in cui il progetto della fattoria si fosse rivelato inattuabile. Così infatti avvenne, sempre secondo lo zio; il D.. avrebbe comandato le tre navi fina in Cina, dove fu colto dalla morte. Sulla base di queste parole, molti biografi italiani gli hanno attribuito troppo leggermente un ruolo di comando, che effettivamente non ebbe e che non trova conferma nelle fonti portoghesi.
Vero è che egli partì da Lisbona il 7 apr. 1515 con la flotta inviata nelle Indie al comando di Lopo Soares de Albergaria, destinato a sostituire l'Albuquerque. Di essa faceva parte Ferfiao Perez de Andrade, che a sua.volta avrebbe dovuto proseguire per la Cina per stabilirvi relazioni commerciali su navi che gli sarebbero state messe a disposizione una volta arrivato in India. Era previsto che il D. lo avrebbe accompagnato (De Barros, ed. 1628, III, 1, f. 1v). Il 15 nov. 1515 il D., come abbiamo visto, arrivò a Cochin in India. Poco dopo si incontrò al largo di Dabul con l'Albuquerque, al quale anticipò probabilmente la notizia della sua destituzione: "mui particularmente lhe contou cousas, que pera sua saude forão veneno, e pera a quietacão do seu espirito mui dannosas" (De Barros, ed. 1628, II, 10, f. 237v), togliendosi così una soddisfazione nei confronti di colui che per vari anni si era comportato come un capo dispotico, crudele e infido. L'Albuquerque non resse al colpo e morì subito dopo, il 16 dic. 1515, appena arrivato a Goa. Alla fine di aprile del 1516, come risulta dalla lettera sopracitata di R. Galli, il D. era Pacem (Pasai, Passang) a Sumatra per aprirvi Ia fattoria, che avrebbe dovuto occuparsi del commercio del pepe da spedire anche in Cina, ma incontrò subito ostacoli frappostigli sia dagli indigeni sia dagli stessi Portoghesi di Malacca, preoccupati per la concorrenza che la nuova iniziativa avrebbe potuto far loro.
Otto giorni dopo il suo arrivo, un incendio, molto probabilmente doloso, distrusse la nave su cui aveva già caricato le mercanzie: riuscì a salvare solo il denaro. Questo fatto lo convinse della inopportunità di insistere nel progetto della fattoria. Frattanto era arrivato a Pacem Ferñao Perez de Andrade, che gli affidò una missione diplomatica presso il re di Pacem (Lopes de Castanheda, trad. it., 1577, II, 4, f 4v). Un anno dopo, il 17 giugno 1517, allorché Perez, dopo un primo tentativo, salpò di nuovo da Malacca per la Cina, il D. parti con lui. Durante la sosta a Singapore, il 4 luglio, fece il secondo testamento sopracitato a bordo della nave "Spera", ammiraglia della piccola flotta (Spallanzani, 1978, pp. 599-600). Secondo gli storici portoghesi, le navi arrivarono il 15 ag. 1517 a Tamao (Tun-men), sull'estuario del fiume delle Perle, dove incontrarono una squadra cinese, cui chiesero di poter proseguire fino a Canton. Il comandante cinese consigliò a Perez di richiedere il permesso al funzionario responsabile della difesa costiera, che aveva sede a Nanto (Nan-t'ou) e che nelle fonti cinesi è conosciuto come il Pei-wo tu-chih-hui ed in quelle portoghesi più brevemente come il "Pio". Il D. fu incaricato di condurre le trattative (De Barros, ed. 1628, III, 2, f. 47v), che ebbero successo, tanto che le navi poterono proseguire fino a Canton, dove giunsero dopo tre giorni di navigazione, gettando l'ancora dinanzi alla stazione marittima di Huai-yüan. Era la fine di settembre. Di nuovo il D. fu inviato a terra per discutere anche dell'invio di una ambasceria a Pechino. Fu ricevuto dai dignitari locali (De Barros, ed. 1628, III, 2, f. 49v). Di questa sua missione è data conferma anche dal mandarino Ku Ying-hsiang (1483-1565), che in quel momento comandava la stazione marittima e che così ha lasciato scritto: "Nell'anno ting-ch'ou dei periodo di regno Cheng-te [1517], allorché ricoprivo la carica di assistente supervisore del Kwangtung ed avevo l'interim della sopraintendenza al traffico marittimo, arrivarono improvvisamente due grandi navi, che si diresselo alla stazione di Huai-yüan della città di Canton. Dissero di essere dello Stato di Fu-lang-chi e di portare tributo. Il loro capo si chiamava chiapi-tan. Quegli uomini avevano tutti nasi prominenti, occhi infossati e si fasciavano la testa con stoffa bianca come costumano i maométtani. Fu subito informato il governatore generale, S. E. Ch'en Hsi-hsien, che venne a Canton e, poiché questi uomini non conoscevano le regole del cerimoniale, ordinò che facessero pratica per tre giorni nella moschea di Kuang-hsien; dopo di che essi gli furono introdotti..." (Cheng Jo-tseng, ed. 1562, XIII, f. 36v).
Sappiamo quindi che il D. si trovava nella moschea di Canton allorché nel mese di ottobre una epidemia di colera uccise lui ed i suoi due compagni Galli e Pucci: triste destino per un uomo che, fin dal suo secondo viaggio in Oriente, aveva aspirato ad entrare in Cina per avviarvi quei rapporti commerciali che prevedeva molto proficui nella sua lettera del 15 nov. 1515 da Cochin: "Hanno discoperto la Cina.... la quale è la maggiore ricchezza che sia al mondo... Son tante le cose grandi che di là vengono, che sono stupende: che se io non muoro, spero innanzi che di qui mi parta, fare un salto là a vedere il Gran Cane, che è il re, che si chiama il re di Cataio..." (J. Gråberg da Hemsö, pp. 86 s.). Scompariva con lui l'uomo che di tutta la spediziore era il più preparato, per tatto e per cultura, a trattare con i Cinesi e che avrebbe potuto forse evitare l'insuccesso finale della missione.
A stare allo zio Girolamo, il D. scrisse un "sunto" di tutte le cose da lui viste e delle esperienze fatte, che inviò a Firenze (J. Gråberg da Hemsö, p. 20), che purtroppo non ci è pervenuto. Invece la lettera ad Antonio Pucci, vescovo di Pistoia, scritta il 1° genn. 1519 da Cochin (Firenze, Bibl. nazionale, cod. 110, p. IV) e pubblicata per la prima volta nel 1829 da V. Follini (nn. 240-242), che gliela attribuisce, non è sua, ma, come ha dimostrato G. Brenna nel 1885. di un certo Piero di Giovanni di Dino.
Di recente si è avuto un rinnovato interesse per la vita e l'opera del Da Empoli. In occasione del quinto centenario della nascita ebbe luogo, il 19 dic. 1983, una tavola rotonda a lui dedicata presso l'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente. M. Spallanzani inoltre ha in vari studi riesaminato attentamente i manoscritti dell'operp del D., curandone una edizione critica, chiarendo molti punti rimasti dubbi ai precedenti editori e correggendo non pochi errori e inesattezze in cui erano incorsi precedenti biografi.
Fonti e Bibl.: G. B. Ramusio, Delle navigationi et viaggi, Venezia 1550, I, ff. 156r-158r (ristampa anastatica della edizione del 1563, Navigationi et viaggi, I, Amsterdam 1970, p. 7 e ff. 145-147; nuova ed., Navigazioni e viaggi, Torino 1978, I, pp. 739-752; [trad. portoghese di S. Trigoso in Academia Real das Sciencias, Colleccâo de noticias Para a Historia e Geografia das Nacoes ultramarinas, que vivem nos dominios portuguezes, II, n. VI, Lisboa 1812, pp. I-IV e 219-229; ristampa, con note, in Arquivo Portugues Oriental, I, Bastorá 1936, pp. 289-306); F. Lopes de Castanheda, Historia do descobrimento & conquista da India pelos Portugueses, Coimbra 1551-1561, vv. 8 (3 ediz. conforme, ibid. 1928, II, pp. 242. 386 s. c. 421; trad. italiana di A. Ulloa: F. Lopes, Historia dell'Indie Orientali, Venetia 1577, I, f. 440r; II, ff. 4rv, 25r-32r); J. de Barros, Asia, Lisboa 1557 (trad. italiana di A. Ulloa: L'Asia del sig. Giovanni di Barros, Venezia 1561). nuova ed., Da Asia, Lisboa 1628, II, ff. 208r, 237v; III, ff. 1v, 40r, 47v, 48v, 49v; Cheng Jo-tseng, Ch'ou-hai t'u-pien (Compilazione illustrata della difesa marittima), ed. 1562, c. XIII, f. 36v; Wang Ming-hao, Teng-t'an pi-chiu (Ciòche un neo generale deve studiare), ed. 1599, c. XXIX, f 54r; Mao Yüan-i, Wu-pei chih (Documenti sui preparativi bellici), ed. 1621, C. CXXII, f. 7v; V. Follini, Sopra alcuni versi di Dante del canto I del Purgatorio, in Atti dell'Imp. e R. Acc. della Crusca, II, Firenze 1829, pp. 232-245; G. Tiraboschi, Storia della letter. ital., Milano 1833, III, p. 408; G. Da Empoli, La vita di G. D., a cura di G. Canestrini - F. L. Polidori, in Viola del Pensiero, Livorno 1841, pp. 101-132; [G. Capponi], Pensieri sull'Educazione, Lugano 1845, pp. 70-73; J. Gråberg da Hemsö, Lettera di G. 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