GIOVANNI da Firenze (Giovanni Bertini)
Non si conosce la data di nascita di questo scultore, d'origine fiorentina, attivo a Napoli intorno alla metà del XIV secolo.
Nei documenti che lo riguardano G. è quasi sempre citato insieme con il fratello Pacio (o Pace): "Magistri Iohannes et Pacius de Florentia marmorarii fratres" sono infatti attestati nei regesti angioini dell'Archivio di Stato di Napoli quali autori, tra il 1343 e il 1345, del Monumento funebre di re Roberto d'Angiò nella chiesa di S. Chiara (Bertaux, 1898).
Il sepolcro, commissionato nel 1343, anno di morte del sovrano, dalla nipote Giovanna I, doveva essere completato entro un anno ma, ancora nel 1346, non era terminato. È opportuno precisare, tuttavia, che la maggior parte dei documenti relativi a questa committenza non è più reperibile e perciò bisogna ancor oggi affidarsi alle ricerche di Minieri Riccio (1876; 1877).
La critica si è a lungo divisa sulla proposta fatta da Bertaux (1898) di identificare i due maestri fiorentini attivi a Napoli con i "Iohannes et Pacinus Bertini" iscritti in un registro dei tagliatori di pietra a Firenze nel 1351; e, se l'ipotesi di questo studioso infine è stata accettata, la Chelazzi Dini, pur confermandola nella sostanza, ha stabilito una differenza cronologica tra i due artisti: G. risulta infatti iscritto all'arte dei maestri di pietra e di legname il 26 nov. 1351; mentre Pacio compare nel medesimo registro solo dal 10 giugno 1357. Inoltre, a partire da Venturi (p. 299), alcuni hanno ritenuto di potere identificare il "Giovanni da Firenze" che firma nel 1320 un angelo reggicandelabro nel battistero di Firenze, con il medesimo Giovanni attivo a Napoli circa vent'anni dopo; tale ipotesi tuttavia è stata rigettata da Toesca. Per quanto riguarda Pacio, sembra doversi accettare la proposta, sempre risalente a Venturi, di identificare il fratello di G. con quel "Pacio de Florentia" che, in qualità di aiuto di Tino di Camaino, figura in un documento del 1325 come scultore di colonne per la certosa di S. Martino a Napoli (Minieri Riccio, 1877, p. 42).
La penuria di notizie riguardanti i due artisti non permette neanche di stabilire con certezza chi dei due fosse il maggiore oppure, nell'ambito della corte angioina, il più noto; infatti, in alcuni documenti, sempre relativi al monumento di re Roberto, è Pacio a venir nominato per primo, in altri è Giovanni. Certo è che la committenza della regina Giovanna giunse nel momento in cui i due artisti, dopo la morte di Tino di Camaino nel 1337, dovevano godere a Napoli di notevole fama, mantenendo al contempo un legame con la vasta e organizzata bottega del maestro senese. Va inoltre sottolineato che all'inizio del loro lavoro in S. Chiara il sovrintendente regio era, forse non casualmente, il fiorentino Iacopo de Pactis, probabilmente un rappresentante della famiglia Pazzi (Schulz, p. 70).
Nell'osservare l'unica opera certa di G. e di Pacio, appare sicuro che i due non ebbero la medesima formazione, anche se problema ancora arduo si rivela il distinguere con certezza la mano dell'uno da quella dell'altro, tanto più che essi dovettero tenere, specialmente per rispettare i tempi stretti di quel lavoro, una bottega composta da numerosi aiuti, alcuni dei quali provenienti dalla cerchia napoletana di Tino. Non da ultimo, a completare una situazione incerta c'è il grave danneggiamento subito dal sepolcro nel bombardamento - e nel successivo incendio - dell'agosto del 1943.
Il sepolcro del re angioino, tutto in marmo dipinto, era in origine alto circa 15 m e rendeva più complessa, nello schema generale, per chiare esigenze simboliche, la tipologia del monumento funebre ideata a Napoli da Tino di Camaino. I pilastri del baldacchino, che terminava con un acuminato frontone, erano segmentati da nicchie alloggianti numerose statuine; il tabernacolo, con la tomba del defunto, si sviluppava in cinque piani: dai pilastri con addossate figure di Virtù, all'urna la cui fronte presentava la figura del re e della sua famiglia scolpiti a bassorilievo, al padiglione funebre con il giacente fra gli angeli reggicortina e le Arti liberali, alla rappresentazione a tuttotondo del re sul faldistorio; infine, sopra l'architrave, era la lunetta che ospitava le statue, tutte perdute, della Madonna col Bambino, di S. Chiara, di S. Francesco, dei Reali angioini inginocchiati e di due Angeli.
Nella imponente simbologia della macchina-mausoleo compaiono tutti gli aspetti esaltati dal disegno politico di Roberto il Saggio: l'ordine, la famiglia, la religione, la cultura. Non a caso, quindi, il defunto viene rappresentato quattro volte. Nel 1345 Francesco Petrarca inviò a Niccolò d'Alife, notaio della Cancelleria angioina, quello che, con ogni probabilità, sarebbe dovuto essere l'epitaffio per il monumento insieme con precise indicazioni esecutive; ma non è noto il motivo per cui le sue proposte non ebbero seguito (Aceto, 1992).
Nell'opera appaiono chiare le diverse esperienze cui si legava l'elaborazione dello stile dei due scultori. Uno sembra infatti maggiormente dipendere dalla lezione di Andrea Pisano, in particolare in quella fase dei lavori che va dalla porta del battistero di Firenze (1330-36) fino al primo gruppo di formelle per il campanile del duomo (1343 circa); l'altro sembra, invece, uniformarsi maggiormente alla lezione di Tino di Camaino. Già Toesca aveva rilevato forti affinità stilistiche tra l'artista da lui identificato come allievo di Andrea ed esecutore della formella con il Pianeta Venere e uno dei due artefici della tomba napoletana, probabilmente Giovanni. La critica (Chelazzi Dini) oggi tende a restituire ad Andrea l'esecuzione di quella formella e tuttavia il legame con i modi, forse proprio di G., rimane saldo. Nell'arrivare alla data di avvio del lavoro napoletano, c'è da notare come, nonostante i numerosi impegni a Napoli, G. fece probabilmente ritorno in Toscana più volte.
Un vero e proprio omaggio alla lezione di Andrea si può trovare anche nelle figure di Virtù poste alla base del monumento angioino nelle quali emergono la compostezza e la gravità quasi classiche, nonché i volti severi e dalla volumetria ancora giottesca, tipici del linguaggio del maestro di Pontedera.
Per Pacio la lezione di Tino di Camaino rimase, ancor più che per il fratello, punto di riferimento. A partire dal documento (cfr. Minieri Riccio, 1876, e De Blasiis, 1887-88) che sembra indicarne la presenza nella bottega del maestro senese a Napoli fin dal 1325, si può arrivare a ipotizzare che egli sia addirittura arrivato in questa città insieme con Tino intorno al 1324, direttamente da Firenze; inoltre, in tutti i documenti relativi a Tino e alla sua bottega, durante il periodo napoletano, solo Pacio è detto sempre "de Florentia" (Minieri Riccio, 1876). L'inflessione più narrativa, graziosa, "cortese" dell'ultimo linguaggio tinesco fu tenuta presente probabilmente più da Pacio il quale, comunque, dovette passare molto tempo accanto al maestro e probabilmente lavorare con lui, e forse già con il fratello, come ipotizzò Causa, alle tombe di Carlo di Calabria (1333) e di Maria di Valois (1332-37) in S. Chiara. Forse fu proprio la maturazione di un'arte di questo tipo, molto apprezzata a corte e tra le nobili famiglie locali, che dette notorietà a Pacio al punto di trattenerlo in città più a lungo del fratello.
La difficoltà d'identificare con certezza la mano dei due artisti nelle opere loro attribuite (tutte presenti a Napoli) dipende dalla fusione stilistica dei loro modi, che, nonostante la diversa formazione, trovò una sua omogeneità proprio in chiave postinesca. Per esempio, nei bassorilievi con le Storie di s. Caterina d'Alessandria in S. Chiara, di cui pochissimo rimane, il fondo scuro a tessere di marmo verde crea un deciso stacco cromatico con il marmo bianco delle figure modellate a schiacciato: un accorgimento analogo a quello adoperato da Tino a Napoli in alcuni monumenti sepolcrali, quali la Tomba di Maria di Valois.
Le Storie di s. Caterina erano costituite da undici riquadri posti originariamente sulla controfacciata della chiesa e trasportati all'inizio del XVIII secolo sulla balaustra del coro dei frati. Di tali riquadri, definiti da Toesca (p. 340) "tra le cose più belle della scultura del Trecento", non rimangono che pochi frammenti dopo l'incendio del 1943.
Tra le opere attribuite a entrambi si ricordano, in S. Chiara, la lastra per la sepoltura provvisoria di re Roberto (1343), la lastra tombale per la sepoltura di Ludovico di Durazzo (1343), un Redentore benedicente in legno proveniente dalla chiesa dell'Annunziata a Capua (ora a Napoli, Museo di S. Martino), due Angeli reggicortina del Museo di Cleveland, un paliotto di marmo con episodi della Passione di Cristo conservato nella cappella Tuffarelli in S. Agostino alla Zecca a Napoli. Sembra essere caduta, invece, l'attribuzione proposta da Toesca delle figure di Virtù che attualmente sorreggono un candelabro pasquale in S. Domenico Maggiore a Napoli.
Importante fu sicuramente il ruolo svolto dalla bottega dei due scultori; di dimensioni certamente notevoli e proseguendo la tradizione avviata da Tino, essa determinò la nascita di uno stile, a volte manierato, ma pur sempre di notevole livello qualitativo. Ad accreditare inoltre un legame non interrotto con la bottega dei Pisano è il legame stilistico, rilevato da Morisani (1946), tra alcune figurette di Apostoli, forse pertinente l'antico altare trecentesco in S. Chiara, e i modi di Andrea Pisano. Morisani rilevava in particolare nel S. Bartolomeo un impianto compositivo tratto dalla lezione di Andrea, ma proposto con una soluzione di piani più delicata e morbida che sembra suggerita anche dalla conoscenza dei modi del figlio di questo, Nino, quali si possono notare, per esempio nel monumento dell'arcivescovo S. Saltarelli in S. Chiara a Pisa. Tra le opere attribuite alla bottega dei due maestri fiorentini si ricorda anche la lastra marmorea con il Martirio di s. Eufemia in S. Chiara a Napoli.
Di G. non si conoscono luogo e data di morte.
Fonti e Bibl.: Napoli, Biblioteca Brancacciana, ms. 2.A.8: C. Tutini, Descrizione del monumento sepolcrale di re Roberto (sec. XVII); L. Catalani, Le chiese di Napoli. Descrizione storica ed artistica, II, Napoli 1853, p. 92; H.W. Schulz, Denkmäler der Kunst in Unteritalien, Dresden 1860, III, pp. 69-72; IV, p. 170; C. Perkins, Italian sculptors, London 1868, pp. 54-56; C. Minieri Riccio, Studi storici sopra 84 registri angioini, Napoli 1876, pp. 62 s.; Id., Notizie tratte da 62 registri angioini nell'Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1877, p. 42; Id., Saggio di codice diplomatico formato sulle antiche scritture dell'Archivio di Stato di Napoli, II, Napoli 1880, p. 19; N.F. Faraglia, Le memorie degli artisti napolitani, in Arch. stor. per le provincie napoletane, VIII (1883), p. 269; G. De Blasiis, Le case dei principi angioini nella piazza di Castelnuovo, ibid., XII (1887-88), p. 304; A. Maresca, La tomba di Roberto d'Angiò in Napoli, in Archivio storico dell'arte, I (1888), pp. 307 s.; E. Bertaux, Magistri Iohannes et Pacius de Florentia marmorarii fratres, in Napoli nobilissima, IV (1895), pp. 134-138, 147-152; S. Fraschetti, Dei bassorilievi rappresentanti la leggenda di s. Caterina in S. Chiara a Napoli, in L'Arte, I (1898), pp. 245-255; E. Bertaux, S. Chiara di Napoli, in Mélanges d'archéologie et d'histoire de l'École française de Rome, XVIII (1898), pp. 194-198; S. Fraschetti, Il mausoleo di Roberto d'Angiò, in Rivista d'Italia, 1900, n. 3, pp. 247-278; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, IV, Milano 1906, pp. 299-311; W. Milliken, The two angels in the John Huntington Collection, in The Bulletin of the Cleveland Museum of art, XIII (1926), pp.51-54; W.R. Valentiner, Catalogue of an exhibition of Italian-Gothic and early Renaissance sculptures at the Detroit Institute of art (catal.), Detroit 1938, p. 15; O. Morisani, Tino di Camaino a Napoli, Napoli 1945, pp. 88, 126; Id., Tre contributi per la scultura pisana a Napoli, in Belle arti, I (1946), pp. 34-38; R. Causa, Precisazioni relative alla scultura del '300 a Napoli, in Sculture lignee della Campania (catal.), a cura di F. Bologna - R. Causa, Napoli 1950, pp. 67-72, 90 s., 95-98; P. Toesca, Il Trecento, Torino 1951, pp. 337-340, 373-375; O. Morisani, Aspetti della regalità in tre monumenti angioini, in Cronache di archeologia e di storia dell'arte, IX (1970), pp. 95-108; Id., Monumenti trecenteschi degli Angioini a Napoli, in Gli Angiò di Napoli e di Ungheria. Atti del Colloquio italo-ungherese, Roma… 1972, Roma 1974, pp. 169-171; J. Pope-Hennessy, Italian Gothic sculpture, Oxford 1986, pp. 17 s., 186 s.; F. Aceto, Angioini. Scultura e oreficeria, in Enc. dell'arte medievale, I, Roma 1991, p. 696; S. Fabiano, Bertini, G. e Pacio, ibid., III, Roma 1992, pp. 441-444; F. Aceto, Aggiunte e espunzioni, in Scritti in onore di G. Previtali, in Prospettiva, 1992, n. 67, p. 64 n. 62; G. Chelazzi Dini, Pacio e G. Bertini da Firenze e la bottega napoletana di Tino di Camaino, Firenze 1996; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIV, pp. 117 s; Saur Allgem. Künstlerlexikon, X, pp. 97 s. (s.v. Bertini, Giovanni).