GIOVANNI da Ignano
Nacque a Bologna verso il 1248 da Francesco di Bolognetto. Il nome della madre non è noto. Ebbe due fratelli, Zandonato e Giacomo, di lui minori d'età, e due sorelle, Bartolomea e Aiclina.
La famiglia traeva nome da un piccolo centro dell'Appennino, probabile località d'origine del nonno Bolognetto; grazie a quest'ultimo e ai suoi figli Petrizolo e Francesco, aveva raggiunto in Bologna una certa notorietà: erano cambiatori, e in particolare Petrizolo, zio di G., sembra avesse parte nella gestione della Zecca cittadina. Qualche storico li dice ghibellini, ma documenti di poco successivi al 1275 ne rivelano la piena adesione alla parte guelfa: una scelta di campo che indubbiamente ne favorì le fortune.
Intorno al 1280 il padre di G. lasciò famiglia e affari per indossare il saio francescano nel convento bolognese. La decisione comportò l'emancipazione di G. e dei suoi due fratelli. In un primo tempo essi mantennero, sotto la guida di G., una gestione unitaria del patrimonio familiare; ma verso la metà degli anni Ottanta ciascuno assunse piena autonomia e un diverso indirizzo professionale.
G. e Zandonato esercitarono l'attività del cambio, ma con diversi obiettivi, essendo le operazioni finanziarie di G. di impegno ben maggiore rispetto a quelle del fratello. Giacomo, dedicatosi agli studi legali, divenne giudice nel 1292 e doctor legum nel 1297.
Poco prima del 1280 G. sposò Tommasina di Riguzzo Galluzzi, instaurando così un forte legame con una delle più ricche e influenti consorterie cittadine. Dal matrimonio nacquero una figlia, Richelda (Chelda) e un figlio, Riguzzo, che proseguì l'attività paterna e il cui nome nel 1301 fu registrato nella matricola della società del cambio.
Di prestigio altrettanto elevato furono i matrimoni contratti dagli altri membri della famiglia. La sorella Bartolomea sposò Francesco Ghisilieri e Aiclina fu moglie di Pellacino da Matugliano, cavaliere dell'Ordine di S. Maria Gloriosa. Il fratello Zandonato sposò Lucia della antica e nobile famiglia dei Clarissimi e Giacomo ebbe in moglie Diana dei Carrari, una famiglia di dottori dello Studio.
G. e i suoi fratelli aderirono alla fazione guelfa moderata, seguiti in ciò anche dai cugini, i vari figli di Petrizolo. Tutti erano inoltre accomunati dalla contiguità delle abitazioni, nella "cappella" di S. Tecla di strada S. Stefano. Costituivano quindi un nucleo familiare compatto, ben inserito nelle strutture politiche cittadine, con solide basi finanziarie e preziosi legami con alcune delle più potenti famiglie della città e dello Studio.
Di questo solido nucleo familiare G. era il componente di maggior spicco. Dal 1278 al 1292 partecipò, in rappresentanza della società del cambio e della società d'armi dei "Balzani", a varie Balie che emanarono norme contro nobili e magnati. Significativa è peraltro la circostanza che il suo nome non compaia in quelle che tra il 1282 e il 1284 emanarono i drastici "Ordinamenti sacrati e sacratissimi" a esaltazione della parte popolare e guelfa. Nel 1294 e nel 1296 fu membro delle Balie incaricate di provvedere circa le milizie cittadine e la condotta della guerra contro il marchese Azzo (VIII) d'Este: uno scontro che fu al centro della politica bolognese tra XIII e XIV secolo.
Anche le sue affermazioni nell'attività professionale ne attestano l'ascesa. Già nel 1296 egli possedeva un patrimonio stimato ben 8000 lire.
Non si conosce quali cespiti concorressero a formarlo, ma non dovevano differire troppo da quelli elencati nella denuncia che G. presentò nel 1304, nella quale comparivano beni immobili e crediti. I primi comprendevano - oltre alle case di abitazione in cappella di S. Tecla, ad alcuni appezzamenti di terra a Bagnarola provenienti dal patrimonio paterno e ad altri minori a Canetolo - due vaste proprietà immobiliari, entrambe valutate 1000 lire. La prima era una vera e propria azienda agricola di circa 70 ettari, nella pianura a ridosso della città, tra Castenaso e Fiesso; la seconda era incentrata sul castello di Mugnano, con le relative pertinenze di case, mulini e gualchiere. Il grosso del patrimonio di G. era peraltro costituito da crediti verso privati e Comunità del contado, garantiti o da carte di mutuo per un importo doppio del credito vantato o da contratti d'acquisto di immobili del debitore, anch'essi di valore doppio del debito. Tali indicazioni, evidenziate da G. per ridurre la cifra totale del suo estimo, rivelano chiaramente sia gli strumenti di pressione utilizzati per garantire il soddisfacimento del credito sia le modalità attraverso le quali G., al pari di altri prestatori del tempo, era giunto a possedere vaste proprietà nel contado. Ma gli ufficiali addetti all'estimo, poco convinti della correttezza di tali indicazioni o a conoscenza di altre poste attive, aumentarono la cifra d'estimo denunciata da G., fissandola a 9600 lire, cifra che lo collocava di fatto tra i maggiorenti della città.
All'inizio del secolo XIV nello scontro con Azzo d'Este si inserirono le lotte di fazione: con il marchese d'Este, alleato coi neri di Firenze, stava in Bologna la fazione marchesana; a essi si opponeva la fazione bolognese dei guelfi moderati, alleati dei bianchi di Firenze e appoggiati dai ghibellini di Romagna. Nel 1302 a sostegno dei guelfi moderati bolognesi, detti bianchi come quelli fiorentini, si pronunciò la maggior parte delle società d'arti cittadine, consorziate sotto un unico rappresentante, il difensore delle venti società, espressione di una politica favorevole agli interessi della borghesia cittadina.
Nello stesso anno G. fu chiamato come podestà da Ancona, città che stava contrastando decisamente le iniziative di Bonifacio VIII, grande sostenitore della fazione nera, ed è quindi evidente che la podesteria di G. era espressione di un preciso indirizzo politico.
G. tornò a Bologna all'inizio del 1303, quando tumulti provocati dalla fazione marchesana avevano radicalizzato le diverse posizioni e i bianchi avevano assunto il pieno controllo del governo. Nell'aprile del 1303 il potere fu concentrato in una ristretta Balia di una decina di esponenti dei bianchi. Ne era a capo il dottore di leggi Bonincontro dallo Spedale e ne facevano parte, oltre a G., Romeo Pepoli, il più ricco banchiere della città ed esponenti delle maggiori famiglie di mercanti e cambiatori: Guastavillani, Preti e Tederisi. A questa Balia altre fecero seguito nel corso dello stesso anno e in esse, mentre Romeo Pepoli assumeva una posizione sempre più defilata, acquistavano rilievo Bonincontro dallo Spedale, G. e il fratello Giacomo.
Nel 1304 i bianchi dettero impulso alla lotta contro Azzo d'Este e i suoi alleati. I maggiori esponenti della fazione marchesana furono costretti all'esilio e combattuti nei centri del contado ove avevano tentato di riorganizzarsi; aiuto venne portato ai bianchi di Toscana, in lotta contro Firenze dominata dai guelfi neri.
All'inizio del 1305 la fama acquisita da G. nella fazione e nella politica cittadina indusse altre città a offrirgli rilevanti incarichi. Milano lo chiamò come capitano del Popolo. Aveva appena assunto l'incarico quando giunse in Bologna un'ambasceria romana per chiedere l'invio di un bolognese quale capitano del Popolo. Il Consiglio del Popolo di Bologna indicò G. e questi, lasciato l'incarico milanese, il 19 gennaio rientrò a Bologna. Il 1° febbraio era a Roma ove il milanese Paganino Della Torre assunse l'ufficio di senatore.
L'elezione di queste due magistrature, che dava vita anche in Roma alla tipica doppia struttura di vertice delle città reggentisi a Comune, era espressione di una accentuata autonomia del popolo romano, grazie soprattutto alla lunga vacanza della Sede pontificia dopo la morte di Benedetto XI nel luglio del 1304. La coloritura politica dei due personaggi e quella al momento prevalente nelle città da cui essi provenivano rivelano gli indirizzi delle iniziative che i due magistrati avrebbero dovuto attuare: opposizione alla politica dei guelfi neri, lotta alla oligarchia romana e sostegno alle corporazioni cittadine, compito, questo, assegnato in particolare al capitano del Popolo. In quale misura tali intenti siano stati attuati non è tuttavia possibile conoscere, stanti i pochissimi documenti rimasti; né si sa quando abbia avuto effettivamente termine l'incarico di G. come capitano, se a ottobre del 1305, data delle ultime testimonianze romane, o a dicembre, termine previsto dal mandato conferitogli.
Durante la permanenza di G. a Roma il predominio dei bianchi a Bologna aveva dato segni di un primo cedimento. Le vittorie dei neri in Toscana e gli insuccessi della lotta contro Azzo d'Este avevano progressivamente isolato dalla massa dei cittadini la fazione al potere. A poco era valsa la dimostrazione di forza da essa esibita nell'agosto del 1305 quando aveva mandato al patibolo Giovanni Dal Ferro, un tristo figuro, pluriomicida e stupratore, reo confesso di aver partecipato a una congiura, ordita fin dal 1303 da fuorusciti della fazione marchesana, che avrebbe dovuto portare all'uccisione dei capi della parte bianca, tra i quali G. e il fratello Giacomo.
Ancora per qualche mese i bianchi lottarono per mantenere il potere, nonostante i sempre più frequenti tumulti, eccitati dallo stesso Romeo Pepoli che aveva definitivamente abbandonato gli antichi compagni. Nel febbraio del 1306 la situazione precipitò e agli inizi di marzo una serie di provvigioni adottate da una Balia straordinaria e approvate dal Consiglio del Popolo sancì il mutamento di regime. I capi dei bianchi, accusati di tradimento e perfino di aver congiurato a favore di Azzo d'Este, furono banditi dalla città e le loro case date alle fiamme. G., il fratello Zandonato e i cugini Filippo e Francesco, figli di Petrizolo, costretti all'esilio, ripararono prima a Reggio, poi a Osimo e quindi ad Ancona; l'altro fratello Giacomo si rifugiò a Verona.
Nel 1307 il cognato Nicolò da Matugliano presentò la dichiarazione d'estimo di G.; il suo patrimonio risultava notevolmente accresciuto rispetto a quello del 1304, sia nei crediti, incrementati di oltre 3600 lire, sia nelle proprietà immobiliari per nuovi appezzamenti di terra a Sabbiuno di Montagna e una azienda a Pucicalvolo: indice che gli impegni politici e gli incarichi extracittadini ultimamente assunti da G. non ne avevano condizionato le capacità imprenditoriali. Ma la dichiarazione attestava anche i riflessi negativi della sconfitta subita dalla parte bianca e del conseguente esilio imposto a G.: la distruzione della sua casa in città, ridotta a un cumulo di rovine e stimata al solo valore del terreno; la diminuita capacità produttiva delle grandi aziende agricole, compromessa dal forzato allontanamento del proprietario e dal rischio di una possibile confisca.
La prospettiva di un ritorno di G. in città non appariva reale a tempi brevi; il 1307 fu caratterizzato in Bologna da varie misure volte a consolidare l'assoluto predominio degli avversari dei bianchi e da pesanti contribuzioni imposte agli esponenti della fazione sconfitta, accomunati anche in questo ai ghibellini. La discesa in Italia di Enrico VII e il suo aperto appoggio ai ghibellini, provocarono in Bologna, aderente alla lega guelfa, il riacutizzarsi dei provvedimenti ostili agli esponenti dei bianchi esiliati. Il 15 ott. 1311 il Consiglio del Popolo inasprì le misure adottate contro di essi, accusati di aver invitato i ghibellini lombardi ad attaccare Bologna e ribadì l'esilio già comminato a G. e a tutti i suoi discendenti maschi.
G. era allora in Ravenna, ove aveva acquistato una casa e in Ravenna morì poco dopo, agli inizi, sembra, del 1313, ben presto seguito nella tomba dal figlio Riguzzo, che ne aveva condiviso l'esilio.
In Bologna erano rimaste la moglie Tommasina e la figlia Chelda. Il 20 giugno dello stesso anno esse rivendicarono di fronte al Consiglio del Popolo il proprio diritto, non essendovi altri congiunti, di entrare in possesso dei beni di G., già sottoposti a confisca. La richiesta fu accolta e il Consiglio dispose che quanto restava di tali beni fosse iscritto in una nuova partita d'estimo, intestata alle richiedenti.
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