GIOVANNI da Matera, santo
Nacque intorno al 1080 a Matera; i nomi dei genitori non sono noti: è priva di fondamento una tradizione locale che lo vuole membro della famiglia materana De Scalcionibus; nulla di preciso sappiamo anche riguardo la loro estrazione sociale ("non gregalibus", Vita, p. 2). Ancora ragazzo G. si allontanò in segreto dalla famiglia per essere ospitato in un monastero di rito greco situato su una delle isole prospicienti Taranto (probabilmente S. Pietro de Insula, o Ss. Pietro e Andrea), ma qui il rigore della sua vita - ispirata a una rigida ascesi eremitica - lo portò ad avere incomprensioni con i monaci tarantini, sino alla decisione di fuggire nuovamente. Condusse, quindi, per oltre due anni una vita di solitudine e penitenza in alcune località isolate di Calabria e Sicilia, delle quali però non conosciamo i nomi. Dopo questa esperienza di rigida privazione G. tornò in Lucania, presso Ginosa, dove pure i suoi genitori si erano trasferiti, ma senza farsi da loro riconoscere; qui portò alle estreme conseguenze la sua ascesi penitente, privandosi per due anni e mezzo quasi completamente del cibo, delle bevande e dell'uso della parola. Solo a partire da questo momento (da collocare intorno al 1100-10) iniziò l'attività di predicazione e proselitismo di G., che si protrasse sino alla sua morte.
Nell'agro ginosino, presso una chiesa intitolata a S. Pietro, fondò infatti una comunità di tipo monastico, di cui però non conosciamo la regola seguita. Per il restauro della chiesetta diruta G. avrebbe fatto ricorso a un tesoro rinvenuto nei pressi dell'edificio, stuzzicando l'avidità e le ire del conte locale, un Roberto non meglio noto. Questi lo fece imprigionare facendo probabilmente riferimento per le accuse anche alla legislazione in materia di ritrovamento di tesori. Comunque G. riuscì a liberarsi miracolosamente dalle catene e ad allontanarsi dalla cittadina lucana.
Le notizie biografiche su G. si desumono quasi esclusivamente da un testo agiografico redatto da un anonimo monaco della comunità di Pulsano, scritto qualche decennio dopo la morte del santo fondatore e comunque prima del 1177 (cfr. Bibliotheca hagiographica Latina, I, n. 4411). Le informazioni fornite sono nel complesso molto sommarie per la nascita e l'infanzia, mentre diventano più dettagliate per gli anni della giovinezza e della maturità. L'intera narrazione non sfugge comunque a una precisa organizzazione e selezione del materiale narrato, secondo un intento celebrativo del modello di vita monastico imposto da G. ai suoi monaci. Di qui anche il peso preponderante che hanno nella economia del racconto i numerosi miracoli compiuti da G. dopo la fondazione di Pulsano, nonché l'aggiunta di notizie preziose riguardanti le vicende della comunità sotto l'abbaziato dei due primi successori, Giordano e Gioele.
Oltre qualche rada e sintetica menzione in fonti commemorative e liturgiche, alcuni precisi riferimenti alla figura di G. si rinvengono comunque in un altro testo agiografico, la Legenda s. Guillelmi (cfr. Bibliotheca hagiographica Latina. Novum supplementum, n. 8924) relativa a Guglielmo da Vercelli (m. 1142), il fondatore di S. Maria di Montevergine e S. Salvatore al Goleto. Questo testo risulta composito e opera di diversi autori, ma la sezione in cui compare G. venne redatta nel decennio successivo alla morte di Guglielmo, nel monastero di S. Salvatore al Goleto e quindi in tempi ancora molto vicini agli avvenimenti narrati e riguardanti anche Giovanni da Matera. Sostanzialmente comunque questa fonte conferma e arricchisce, senza contraddirlo, il quadro desumibile dall'anonima Vita.
Solo la Legenda parla di una apposita deviazione da parte di Guglielmo da Vercelli, in transito alla volta di Gerusalemme, verso Ginosa per conoscere G.; sarebbe stato lo stesso G. a invitare poi Guglielmo a fermarsi stabilmente nel Mezzogiorno, senza insistere nei piani di pellegrinaggio Oltremare. Il tono della narrazione lascia intendere un rapporto quasi da discepolo di Guglielmo nei confronti di G. (definito "magni meriti magnique nominis vir" nella Legenda, p. 89), che si mantenne saldo anche negli anni seguenti.
Non bisogna però dimenticare che, da parte sua, G. subiva il fascino della itineranza eremitica, tanto che anche lui si allontanò da Ginosa e dai suoi primi discepoli e per un anno ancora vagò nel Mezzogiorno, giungendo sino a Capua; qui una rivelazione divina lo indusse a tornare in Puglia perché suo compito era quello di guidare sulla retta via "multum populum utriusque sexus" (Vita, p. 11). La prima tappa in questo ritrovato percorso fu sul monte Laceno, presso Bagnoli Irpino e Nusco, dove G. incontrò ancora una volta Guglielmo da Vercelli. Qui vi fu la tentazione manifesta di insediarsi stabilmente, ma in entrambe le fonti agiografiche si pone in risalto l'intervento di G. per convincere il gruppetto di eremiti ad abbandonare quel luogo e volgersi verso terre più densamente abitate. In questa prospettiva non poteva essere soddisfacente per G. il nuovo sito prescelto, sul massiccio della Serra Cognata nei pressi di Tricarico, nel versante nord della valle del Basento; infatti qui G. si fermò solo il tempo necessario per aiutare Guglielmo e i suoi compagni a costruirsi un primo ricetto, optando subito dopo per una attività di predicazione che avesse un pubblico più ampio rispetto a quello delle sparute comunità montane.
La meta di G. fu la città di Bari, già capoluogo del Catapanato bizantino e ancora il centro urbano più importante della Puglia normanna; qui fu attivo intorno al 1127-28.
Sebbene la sua predicazione pare aver avuto solo carattere parenetico, con l'invito alla sobrietà, alla castità e alla carità, in realtà essa dovette toccare qualche nervo scoperto nel clero barese, che si sentì direttamente attaccato. Pare piuttosto improbabile che G. abbia ricevuto una qualche licenza di predicazione, sul modello di contemporanei predicatori itineranti attivi Oltralpe; a ogni modo l'agiografo riporta con certezza la notizia di un processo intentato contro di lui dai chierici baresi per blasfemia e sospetto di eresia, senza fare riferimento alla liceità della sua predicazione. Il processo venne alla fine presieduto però da un laico, il principe Grimoaldo Alfaranite, che in quegli anni (1119-30) stava cercando di imporre la sua autorità all'interno del gruppo dirigente barese al fine di liberarsi del residuo controllo dei duchi normanni di Salerno. L'esito del processo fu favorevole, con la prevedibile e piena assoluzione di G., che preferì tuttavia allontanarsi prudentemente dalla città.
In un primo momento egli si recò a far visita ai suoi primi discepoli che erano rimasti nella comunità di S. Pietro di Ginosa, ma poi si fermò nei pressi di Monte Sant'Angelo, scegliendo ancora una volta un centro urbano ad alta frequentazione; la cittadina garganica infatti si sviluppava in funzione della celebre grotta micaelica, uno dei santuari più frequentati in Europa, che proprio in quei decenni cominciava a subire, in terra di Puglia, la concorrenza di S. Nicola di Bari, dove già G. si era pure fermato. Anche a Monte Sant'Angelo il comportamento di G. non pare essere stato molto difforme rispetto a quello tenuto a Bari, in quanto egli si dedicò alla predicazione, sino al compimento del suo primo miracolo: riunita una larga parte della popolazione fuori della città, tenne una predica in cui spiegò che la siccità che stava affliggendo la regione era causata dal peccato commesso da un canonico impenitente. Dietro la minaccia di G. di procedere egli stesso alla punizione, il canonico avrebbe fatto pubblica penitenza abbandonando la città. Ma anche G., che pure aveva miracolosamente risolto il problema della siccità, preferì allontanarsi dal Gargano, facendovi ritorno solo dopo un anno, per fondarvi la sua nuova e più importante comunità monastica.
La scelta del sito per la fondazione venne indicato da due figure soprannaturali apparse a G. e nelle quali è facile riconoscere la Vergine e s. Michele, elevati quindi a santi patroni del nuovo insediamento. Il luogo prescelto, denominato Pulsano, era un piccolo pianoro terminante a strapiombo sul golfo di Manfredonia; al suo limite vi era una grotta, che forse già ospitava una piccola chiesa rupestre dedicata a Maria, trasformata da G. nella prima chiesa della nuova comunità.
È priva di fondamento la notizia riguardante l'esistenza nello stesso luogo nei secoli precedenti di altre comunità monastiche, di cui una risalirebbe all'epoca e alla cerchia di papa Gregorio I, e l'altra dipendenza cluniacense. Tutto lascia invece supporre che fu G. a introdurre per primo la vita monastica intorno alla grotta di Pulsano.
La fondazione di G. incontrò gli immediati favori della popolazione locale, nonché di coloro che erano desiderosi di condurre vita monastica: nel giro di sei mesi i suoi compagni crebbero dagli originari sei fino a cinquanta. Oltre alla fama di santità che circondava la figura del fondatore, anche la vicinanza del santuario micaelico ebbe sicuramente un suo rilievo nel determinare il rapido accrescersi della notorietà della nuova fondazione. Molti sono i miracoli compiuti da G., e riportati nella Vita, che hanno come destinatari in primo luogo i suoi discepoli. G. guarì un giovane colpito da macerie durante la costruzione degli edifici monastici, e convinse i genitori di un altro a non opporsi alla vocazione monastica del loro figlio; molto probabilmente quest'ultimo è il Gioele più tardi attestato come terzo abate di Pulsano.
Sin dagli esordi G. scelse per i monaci di Pulsano la regola benedettina, ma insistette soprattutto nel restituire valore al lavoro manuale, alla stretta osservanza della povertà individuale, alla necessità di prestare obbedienza assoluta all'abate. Certamente G. dovette mantenere viva una preferenza per la vita eremitica, sia pure inquadrata all'interno di un cammino di formazione e perfezione che nella vita cenobitica trovava il suo solido fondamento. In questo recupero della vocazione eremitica ebbe probabilmente un certo influsso anche l'esperienza fatta in gioventù in comunità monastiche greche e in territori calabro-siculi di netta tradizione greca; l'anonimo agiografo - fonte pressoché unica sugli esordi della comunità di Pulsano - tende a tacere, se non sminuire, questi possibili rapporti. Non abbiamo comunque frammenti di "consuetudini" monastiche fatte redigere da G. per i suoi monaci, anche se nella documentazione posteriore si fa allusione a una loro esistenza.
La comunità di discepoli - maschi e femmine - si allargò molto rapidamente e per questo G. fondò ben presto delle comunità separate da quella centrale di Pulsano. Si crearono così i primi priorati dipendenti dalla casa madre di Pulsano, con la quale intrattenevano uno stretto rapporto di dipendenza, secondo un modello di congregazione a forte impronta centralizzante di tipo cluniacense-cavense. L'urgenza di dare un qualche sbocco alla crescente ondata di vocazioni femminili era particolarmente sentita dai riformatori monastici dell'XI-XII secolo e G., come pure il suo compagno Guglielmo da Vercelli, si mossero in questa direzione, provvedendo entrambi a fondare monasteri femminili. In particolare G. fondò una prima comunità sul Gargano, presso una chiesa precedentemente tenuta da un laico che vi conviveva con una monaca; è probabile che qui fosse ospitata la comunità di S. Barnaba, attestata come ancora fiorente nella Vita, ma non documentata altrimenti. Altre comunità femminili dipendenti da Pulsano - la più importante è quella di S. Cecilia presso Foggia - sono attestate in fonti posteriori alla morte di Giovanni da Matera.
Non ci sono giunti documenti riguardanti i rapporti del nuovo monastero con l'arcivescovo di Siponto, dalla cui diocesi il monastero dipendeva, anche se ben presto le comunità pulsanesi ottennero l'esenzione. Un primo privilegio pontificio, perduto, venne concesso da Innocenzo II alla comunità, ma non sappiamo se direttamente allo stesso Giovanni. Nuovi privilegi vennero in seguito concessi da Eugenio III e da Alessandro III; solo quest'ultimo privilegio, datato al 9 febbr. 1177, ci è giunto e fornisce alcuni elementi per conoscere indirettamente i rapporti intercorsi all'epoca di Giovanni. Nel privilegio il papa - sull'esempio dei predecessori - prende sotto la sua protezione la comunità di Pulsano, elencandone le dipendenze e confermando il diritto di correzione da parte dell'abate di Pulsano nei confronti di tutte le altre comunità elencate; stabilisce inoltre la libertà di scelta del vescovo per consacrazione e olio santo, nonché l'esenzione dal pagamento della decima per i proventi del lavoro diretto dei monaci; in riconoscimento della protezione della Sede apostolica Pulsano si impegna al versamento del censo di due bisanti.
Più ambigue sono le notizie riguardanti i rapporti con la monarchia normanna. Non è infatti chiaro se vi fossero rapporti di dipendenza determinati da una originaria proprietà demaniale dell'area su cui sorse il monastero, né se il re Ruggero II avesse operato cospicue donazioni in favore della comunità. Da alcuni episodi narrati nella sezione finale della Vita si desume che vi fu un tentativo da parte di Ruggero II di estendere il proprio controllo anche su questo monastero, a partire dal controllo delle elezioni abbaziali, secondo una prassi ben attestata per altri istituti ecclesiastici del Regno. Anche se la Vita sostiene che il re rinunciò alle sue pretese, sappiamo che comunque Pulsano, insieme con l'Honor Montis Sancti Angeli, entrò a far parte del dovario delle consorti regie a partire dal 1177, con Giovanna d'Inghilterra moglie di Guglielmo II.
Nel suo ruolo di abate di tutte le comunità pulsanesi G. dovette spesso spostarsi nei diversi priorati per esercitare concretamente le sue funzioni; proprio durante uno di questi spostamenti lo colse la morte il 20 giugno 1139 presso la dipendenza di S. Giacomo nei pressi di Foggia.
Questo priorato era situato fuori dell'abitato di Foggia, lungo la strada che portava verso Siponto e San Michele al Gargano, tanto che da fonti posteriori sappiamo che esso comprendeva anche un ospizio per pellegrini. Proprio in virtù di questa fortunata dislocazione sulla via di San Michele si preferì forse lasciare che il corpo di G. restasse in questo priorato, invece di essere subito traslato nella più decentrata e non ancora famosa casa madre di Pulsano. Una tradizione di età moderna vuole che il corpo sia stato infine trasportato a Pulsano nel gennaio del 1177, in occasione del passaggio per le terre garganiche di papa Alessandro III. I resti di G. restarono dunque dopo il XIII secolo nel monastero di Pulsano, anche se qualche particola del corpo venne ceduta ad altri istituti ecclesiastici. Solo il 28 ott. 1830 i canonici materani riuscirono a ottenere il consenso per la traslazione del corpo di G. dall'ormai abbandonato monastero di Pulsano nella cattedrale di Matera, dove tuttora le reliquie sono sistemate sotto l'altare a lui dedicato.
Lo sviluppo della famiglia monastica pulsanese venne coordinato dai due successori di Giovanni. Il primo, Giordano (1139-45), nativo di Monteverde (nell'attuale provincia di Avellino), era entrato sin da ragazzo tra i discepoli di G. e si collocava quindi in linea di stretta continuità con il fondatore. Alla sua iniziativa si devono gli insediamenti in Dalmazia e a Piacenza, con l'assunzione di precisi riferimenti al sistema organizzativo proprio dell'Ordine cistercense. Più lungo e intenso fu l'abbaziato del suo successore, Gioele (1145-77), anch'egli legato da rapporti di discepolato diretto con G., secondo quanto affermato dalla Vita, di cui peraltro fu verosimilmente il committente. Al momento della morte di Gioele Pulsano contava dodici dipendenze nell'area pugliese, insieme con altre due dipendenze più lontane, S. Pietro di Cellaria a Calvello e S. Pietro di Vallebona presso Manoppello in Abruzzo. Fuori dei confini del Regno di Sicilia vi erano altre sei dipendenze, tutte con il rango di abbazie: S. Maria nell'isola di Meleta presso Dubrovnik, S. Salvatore sulla Trebbia presso Piacenza, S. Michele degli Scalzi presso Pisa, S. Michele a Guamo presso Lucca, S. Maria di Fabroro presso Firenze, S. Pancrazio sulla via Aurelia. Dopo il 1177 e per gran parte del XIII secolo scarseggiano le notizie relative alle comunità meridionali pulsanesi; mentre dalla fine del secolo emerse un ruolo più decisamente predominante delle comunità toscane, specie quella di Pisa, che divenne una sorta di centro alternativo per la congregazione. Nel XIV secolo la crisi divenne comune a tutti gli insediamenti, sino a che pressoché tutte le comunità furono cedute in commenda o comunque abbandonate dai monaci.
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