GIOVANNI da Milano
Pittore di origine lombarda nato intorno al 1325 e attivo soprattutto a Firenze nel pieno Trecento. Nonostante il derivativo, utilizzato per primo dall'artista stesso nel firmare due sue opere, ne indichi la provenienza dalla metropoli lombarda, il pittore è indicato nel 1346 dal più antico documento conservato che lo riguardi come "Iohannes Iacobi de Commo" (Procacci, Il primo ricordo…): un ulteriore documento vergato e conservato a Firenze (Milanesi, 1878) ne precisa il luogo di nascita in "Kaversaio", località identificata con Caversaccio di Valmorea, non lontano da Como. Altri documenti, tutti fiorentini, aiutano a precisarne l'attività nei decenni centrali del secolo, a partire da quel 1346 in cui l'artista risultava già a Firenze e operante come pittore, ma privato, in quanto forestiero, della possibilità di ricoprire incarichi rappresentativi soggetti a elezione (Procacci, Il primo ricordo…). A Firenze dovette rimanere per gran parte della sua vita: qui si iscrisse all'arte dei medici e speziali nel 1363 e giunse ad assumerne la cittadinanza nel 1366. Le sue tracce si perdono a partire dalla fine del terzo quarto del Trecento.
Il corpus delle opere di G. è stato ricostruito per tappe successive piuttosto faticosamente e in epoca relativamente recente, stante lo smembramento e la dispersione di numerose opere su tavola conservate nelle chiese fiorentine e l'interesse tardivo della critica nei suoi riguardi, a partire dalla prima rivalutazione operata da Rumohr (1827). Un primo nucleo di pitture a lui riconosciute, oltre al testo sicuro costituito dalla Pietà firmata e datata della Galleria dell'Accademia di Firenze, ruotava intorno ai pannelli laterali di un polittico già sull'altare maggiore di Ognissanti (dove fu visto e notato da Vasari come opera del pittore lombardo), poi relegato in una cappella della stessa chiesa e oggi agli Uffizi, a cui si sono presto aggiunti il polittico della Pinacoteca comunale di Prato, pubblicato da Milanesi e Pini (1850) e gli affreschi della cappella Rinuccini nella sacrestia di S. Croce a Firenze, datigli da Crowe e Cavalcaselle (1864), attribuzione ribadita e provata documentariamente da Milanesi (1878). A queste pitture si sono via via affiancate nel Novecento ulteriori attribuzioni e poche opere certe, in una vicenda critica la cui relativa anomalia deriva in buona parte anche dalla singolare vicenda biografica di G., tra i pochissimi pittori di origine non toscana stabilmente e con successo attivi a Firenze nel pieno Trecento, ma rimasto perlopiù ai margini della storiografia artistica prescientifica toscana, cui non fu estranea una componente patriottica autocelebrativa. Se gli anni della lunga attività fiorentina risultano sufficientemente illuminati da conferme documentarie e ricchi di opere, solo interventi relativamente recenti (Boskovits, 1966 e 1971; Bellosi, 1974; Gregori, 1980) hanno mirato, dopo l'importante apertura di Toesca (1912), a fare luce sugli anni della formazione del pittore, cercando di rintracciare in Lombardia, prima dell'arrivo in Toscana, i suoi lavori iniziali. Non sono affatto noti nemmeno i motivi del suo trasferimento in Toscana dove, pur non essendo presenti pittori lombardi, erano attivi da generazioni scultori scalpellini e architetti provenienti dall'area comasca e dai laghi lombardi: si pensi, dopo due secoli di nomi di non trascurabile rilievo, ancora a Benci di Cione nella Firenze degli stessi anni. Questi, anzi, formavano una stabile e florida comunità cui forse G. non fu estraneo. Non è peraltro impossibile che vi fosse portato dai pittori fiorentini della bottega giottesca attivi a Milano prima della metà del secolo.
Alla prima attività del pittore, non lontano dai suoi luoghi di origine, viene ascritta anzitutto la lunetta ad affresco con la Madonna col Bambino tra s. Giovanni Battista e una santa, forse Caterina d'Alessandria, in S. Maria delle Grazie a Mendrisio, nel Canton Ticino, dove lo stile del pittore è già riconoscibile, nonostante le condizioni non ottimali di conservazione dell'opera, in particolare dalle figure femminili di morbido impianto, dalle chiare carnagioni appena chiaroscurate e dai visi a postura obliqua con occhi a mandorla riecheggianti le opere giottesche. Il dipinto si pone anzi come una delle più notevoli conseguenze del passaggio milanese del caposcuola fiorentino, del cui insegnamento il giovane G. può avere subito apprezzato la novità, soprattutto negli affreschi di scuola giottesca in grandissima parte perduti di S. Gottardo in Corte e del palazzo visconteo e nelle altre opere eseguite dai seguaci del fiorentino, come gli affreschi del tiburio dell'abbaziale cistercense di Chiaravalle Milanese. In particolare, vi è stata notata l'influenza della componente della bottega giottesca attiva nella basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi (Gregori, 1980; 1995). Questi aspetti precipui, oltre alla qualità dell'opera, distinguono la lunetta da altri episodi di pittura lombarda coeva, come il ciclo di S. Abbondio a Como o gli affreschi, più avanzati, della chiesa dei Ss. Cosma e Damiano nella stessa città. L'interesse tutto lombardo per l'immediatezza e la caratterizzante intensità dell'espressione delle figure evidente in questa opera, non priva di eleganti dettagli formali e di moderni linearismi, sarebbe stato uno degli aspetti qualificanti della pittura di G. anche negli anni successivi, introducendo una nota settentrionale nell'arte toscana postgiottesca. Della lunetta di Mendrisio resta da chiarire la datazione, se anteriore al soggiorno fiorentino documentato nel 1346, come a tutta prima più facile da ritenere, o eseguita in una pausa di rientro in Lombardia (in ogni caso non oltre gli anni intorno alla metà del secolo), il che ne spiegherebbe il carattere relativamente maturo (Gregori, 1995).
Ancora all'attività lombarda del pittore vengono riportate due tavolette con la Crocifissione, entrambe in collezioni private (già coll. Artaud de Montor; Crawford, Earl Crawford and Balcarresa collection), e un'ulteriore opera di piccolo formato con Dio Padre, Cristo e santi (Londra, National Gallery). Un compiuto e drammatico disegno con la Crocifissione (Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett), in consonanza con l'opera di pittori attivi nel Settentrione come Giusto de' Menabuoi e Iacopo Avanzi, potrebbe essere ritenuto anche opera più tarda.
Le pitture più sicuramente legate a G. a Firenze si situano peraltro in una fase più avanzata del suo percorso biografico, tanto che le opere verosimilmente eseguite tra l'arrivo a Firenze ante 1346 e il 1354 sono tutte avvicinate al pittore su base attributiva. Tra queste, la tavoletta della Galleria nazionale d'arte antica di Roma (Palazzo Barberini), che denota, come ben argomentato dalla critica, la conoscenza della pittura fiorentina sino al quinto decennio del secolo, in particolare dei coloriti pallidi di Bernardo Daddi e delle forme nette di Maso di Banco, oltre al ricordo di composizioni lombarde e di miniature di artisti bolognesi, presenti peraltro anche in Lombardia (Boskovits, 1966), tanto a livello iconografico quanto stilistico e tecnico, con sfumati terrei che vanno a incidere su figure di veristica, terrena concezione, in questo anticipanti il gotico più avanzato del secondo Trecento. Il riferimento, in questa e nelle successive opere, a numerose e spesso divergenti voci della pittura fiorentina rende più arduo stabilire con certezza con quali artisti il giovane pittore collaborasse: se al seguito di Taddeo Gaddi, come asserito in primis da Vasari (1568), con la bottega dell'Orcagna (Marabottini, 1950), o, in posizione più autonoma con maggiori riferimenti daddeschi (Gregori, 1980), ma anche a Maso e al probabile Stefano, come apparirebbe soprattutto dalla tavoletta di Roma.
Sensibilmente più avanzato è il grande polittico della Pinacoteca comunale di Prato, firmato, con rappresentazione della Madonna col Bambino in trono tra i ss. Caterina d'Alessandria, Bernardo di Chiaravalle, Bartolomeo e Barnaba nelle quattro ali e doppia predella con storie dei santi rappresentati sopra a figura stante e, alla base, Storie di Cristo. L'opera fu commissionata dal rettore dello spedale della Misericordia e Dolce di Prato, Francesco Tieri, che fu a capo di questa istituzione dal 1334 alla morte, nel 1363. La datazione dell'opera è fissata dalla critica perlopiù tra la metà degli anni Cinquanta e il 1360.
Nel polittico si riscontrano i temi tipici dell'artista, dai volti morbidi e intensi di chiaroscuro e di espressione negli sguardi inclinati ai panneggi fluenti a tenui tinte sbiadite dagli ampi riflessi di luce, ai particolari mondani come le rifiniture delle vesti e l'acconciatura di s. Caterina, l'eleganza minuziosa del trono e dei banchi di legno della Vergine e di s. Bernardo; mentre le composizioni in basso risentono nell'impostazione e negli sfondi architettonici e naturali di maggiori ricordi giotteschi, seppure vi siano stati spesso e non fuori luogo ravvisati ricordi di cicli trecenteschi lombardi.
L'attività successiva del periodo maturo di G., che appare interessato anche ai raggiungimenti del gotico senese e dei pittori operanti a Pisa, oltre che alla cultura irradiantesi dalla residenza pontificia di Avignone (Boskovits, 1966; Gregori, 1995), comprende numerose opere, tra le quali una tavoletta, forse di origine pisana, con la Pietà (Parigi, collezione privata), la Crocifissione di Amsterdam (Rijksmuseum), una lunetta con la Madonna col Bambino e i committenti a New York (Metropolitan Museum of art) e una tavoletta a Pisa (Museo nazionale di S. Matteo) con la Vergine Annunciata, forse parte del coronamento di un perduto polittico pisano cui potrebbero appartenere anche le tavole con i Ss. Francesco e Antonio oggi rispettivamente a Parigi (Musée du Louvre) e a Williamstown (Williams College Museum of art).
Opere fiorentine degli anni della maturità del maestro nel corso del settimo decennio del Trecento sono il polittico di Ognissanti (Firenze, Uffizi), gli affreschi della cappella Rinuccini in S. Croce e la Pietà all'Accademia, principali capisaldi del corpus del pittore, che si dovettero susseguire in un ristretto giro di anni dopo il 1360 e prima del documentato viaggio a Roma con altri pittori fiorentini e senesi nel 1369.
Il polittico per gli umiliati di Ognissanti a Firenze, incentrato probabilmente su una Incoronazione della Vergine già a Buenos Aires (Instituto Torcuato Di Tella), presenta uno scaltrito programma iconografico, con pannelli raffiguranti ciascuno due esponenti di differenti categorie di santi, in corrispondenza con la relativa assemblea corale nei pannelli inferiori; mentre in alto nel coronamento compaiono le giornate della creazione dalla Genesi, con la costante presenza della figura dell'Onnipotente raffigurato anche come Logos. Ricordi iconografici e stilemi martiniani, forse mediati dai pittori di educazione senese operanti a Pisa come Francesco Traini, si fondono con un linearismo fiorentino dai colori vivi e netti, il cui chiaroscuro ammorbidisce ma pone al contempo in maggiore evidenza la compattezza formale delle figure. Gli incarnati pallidi delle abituali dolci e bionde figure femminili, la ricchezza delle vesti e delle decorazioni e la severa intensità espressiva sono alcuni dei tratti caratterizzanti questa importante opera, tra le più nuove e articolate pale d'altare del secondo Trecento a Firenze.
Nel 1365 il pittore eseguì la Pietà datata della Galleria dell'Accademia, proveniente dalla postazione del Terz'Ordine francescano dei Ss. Girolamo e Francesco alla Costa a Firenze, in cui lo stile sincretico ma personalissimo ormai perfezionato dall'artista interpreta un'iconografia di origine nordica, congeniale al suo spirito, in un'opera dai timbri profondi di sentita ma misurata drammaticità. Allo stesso anno risalgono gli affreschi che il pittore eseguì nella cappella Rinuccini della sacrestia di S. Croce a Firenze, allora sotto il patronato dei Guidalotti (come appurato da Procacci, Il primo ricordo…). L'opera fu lasciata incompiuta e venne ripresa pochi anni più tardi, già sotto le insegne dei Rinuccini, da un anonimo fiorentino chiamato per questo Maestro della Cappella Rinuccini, in cui Bellosi (1974) ha proposto di identificare Matteo di Pacino.
Le storie mariane e della Maddalena di mano di G. comprendono i registri superiore e centrale delle due pareti laterali della cappella; mentre al di sopra, sulle volte, compaiono, entro compassi trilobi, figure di Profeti e, al centro, il Redentore e, sui sottarchi e sostegni, Apostoli e Santi. Sulla parete sinistra l'Annuncio a Gioacchino e l'Incontro tra Anna e Gioacchinoalla Porta Aurea coabitano arditamente in uno stesso riquadro, entro un'atmosfera sospesa, anche per l'inquietante incertezza della luce, notturna nel primo episodio, cui non sfugge il riferimento al precedente di Taddeo Gaddi nella stessa chiesa, e più solare nel secondo, diurno, con la mediazione della figura bianca del servo di Gioacchino al centro della composizione, di contemporaneo e ritrattistico realismo, richiamato dal personaggio che serve a tavola gli apostoli nella scena del Pentimento della Maddalena della parete opposta. Ancora più celebrata, la contigua Nascita della Vergine, approfondito studio di interno in cui prevale l'elemento umano e mondano delle aggraziate figure femminili, attrici borghesi in un'aggiornata e laicale sacra rappresentazione. Note di più toccante misticismo provengono dallo scambio di sguardi della Maddalena e del Cristo nella scena della Cena in casa di Marta e Maria, della parete di fronte, intimo idillio nel gruppo di apostoli, del pari intesi come cavalieri dei casati del quartiere. L'interesse per le raffigurazioni delle architetture è provato dall'episodio della Cacciata di Gioacchino dal tempio, risolto, questo, con un'aperta struttura immaginata per la visione scorciata dal basso che l'osservatore ne ha entrando nella cappella.
Architettura di saldo impianto, di ricordo arnolfiano, scorciata simmetricamente, è anche il trono della Maestà di S. Bartolo in Tuto a Scandicci, forse l'opera più avanzata del pittore oggi presente a Firenze, con una Madonna che richiama il ciclo di S. Croce, la cui imponenza è mirabilmente dissimulata dalla dolce espressività di ricordo senese e dai particolari decorativi mentre il Bambino risulta di una compattezza di impianto e naturalezza di gesti di credibilità già prerinascimentale.
Un ulteriore polittico, verosimilmente realizzato per la postazione camaldolese fiorentina di S. Maria degli Angeli, si trova conservato frammentariamente in varie sedi (Milano, Pinacoteca di Brera; Torino, Galleria Sabauda; Londra, National Gallery of art) e mostra nel pannello centrale con Cristo in maestà uno sfumato avvolgente e atmosferico e una dolcezza e rotondità di forme che, anche per la consonanza con lo stile di Giusto de' Menabuoi, oltre a suggerimenti senesi di Bartolomeo Bulgarini, denuncia un diverso orientamento del pittore e appartiene forse a una fase successiva al viaggio a Roma in cui il pittore fu a fianco di quel maestro senese, ed è forse posteriore anche a un nuovo soggiorno in Italia settentrionale.
Nulla resta dell'opera del pittore a Roma, ove fu chiamato nel 1369 da papa Urbano V a dipingere in Vaticano (in vista, per la prima volta, dell'utilizzo di quel complesso come sede principale romana del potere pontificio in luogo del patriarchio lateranense) insieme con altri artisti: oltre a Bartolomeo Bulgarini, Giottino, Giovanni e Agnolo Gaddi e forse Matteo Giovannetti. Di questo importante incarico si può oggi unicamente giudicare il valore di riconoscimento dell'eccellenza di G. nel quadro della pittura italiana del terzo quarto del Trecento.
Non sono sicure neanche le sue tracce negli anni della maturità in Lombardia, dove è più che probabile che facesse ritorno per alcuni periodi, come spesso i suoi conterranei artisti attivi in Toscana, e dove alcune opere, come i cicli dipinti negli oratori di Solaro, di Mocchirolo (Milano, Pinacoteca di Brera) e di Lentate sul Seveso, oltre alle miniature di Giovanni di Benedetto da Como, sembrano risentire della sua maniera anche tarda.
Non si conosce l'anno di morte di G.; e resta incerto il riferimento a lui di una notizia documentaria relativa a lavori di ricostruzione dell'abbazia di Montecassino nel 1375, ove si parla di un pittore Giovanni "de Comes" (Caravita, 1869).
La figura di G. resta per molti versi unica, per la capacità di inserirsi in un difficile e poco ricettivo ambiente artistico e di committenza, per avere con curiosità e intelligenza aggiornato costantemente il proprio stile con l'osservazione di pittori anche tra loro affatto dissimili, le cui influenze invero talora coesistono con complesso, ricco dialogo nell'opera del pittore, e per avere portato a Firenze elementi di novità, a livello tanto stilistico quanto iconografico, non privi di conseguenze, anche a lungo termine, nello svolgersi della vicenda della produzione pittorica della città. Sebbene forestiero, G. seppe interpretare le istanze di rinnovamento e laicizzazione della ricca società toscana del suo tempo e testimoniarne altresì l'attaccamento al gusto per i modi giotteschi e martiniani a vari decenni dalla scomparsa di quei maestri, che egli seppe richiamare con personale e mai gratuita adesione. La singolarità della vicenda umana e artistica di G. ne fa, più ancora di Giusto de' Menabuoi, il principale tramite tra cultura pittorica toscana e padana nell'era postgiottesca; mentre gli aspetti più avanzati della sua pittura, di gentile seppur veristica narratività e con episodi di ricercato, linearistico decorativismo, lo provano significativo anticipatore della stagione internazionale del tardo gotico.
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