GIOVANNI da Montecorvino
Nulla di certo sappiamo sulla sua famiglia d'origine e sui primi anni di vita: da una sua lettera, datata 8 genn. 1305, risulta che in quella data G. era già un canuto cinquantottenne, e possiamo perciò collocare la sua nascita nel 1247, verosimilmente nell'area dell'attuale comune di Montecorvino Rovella nel Salernitano.
Del tutto inattendibili e anacronistiche appaiono le tardive affermazioni di frate Giovanni de' Marignolli, che fu a Pechino nel 1342, secondo cui G. sarebbe stato dapprima "miles, judex et doctor Friderici imperatoris", e più tardi, già settantaduenne, "factus frater Minor doctissimus et scientissimus" (Golubovich, I, p. 303). Generiche e convenzionali sono inoltre alcune notizie riportate nel Chronicon di Giovanni Elemosiniere, relative all'ingresso di G. nell'Ordine dei minori, alla sua stretta osservanza della regola francescana nonché al fervore della sua attività di insegnamento e predicazione: esse, in ogni caso, non ci autorizzano a farne senz'altro un esponente della corrente degli spirituali, come pretese A. van den Wyngaert, invocando altresì la poco perspicua testimonianza di Pellegrino da Castello, circa la "vita eius exterior bona et dura et aspera" (Sinica Franciscana, p. 365).
Al 1289 risale la prima importante attestazione di una sua attività diplomatica e missionaria nel Vicino Oriente (Persia e Armenia) con l'abito dei frati minori, promossa negli anni del generalato di Bonagrazia di San Giovanni in Persiceto (1279-83). In quell'anno, infatti, già reduce dalla missione e latore a papa Niccolò IV di una missiva di Haiton II, re cattolico di Armenia, protettore e poi membro egli stesso dell'Ordine francescano, nella quale s'invocava il soccorso degli occidentali contro i musulmani, G. ripartì per l'Oriente, accompagnato da un manipolo di frati minori; in qualità di legato del pontefice G. recava con sé una serie di lettere indirizzate ai maggiori principi e prelati dell'Oriente cristiano e dell'Asia centrorientale.
Di particolare importanza quelle destinate ad Argun, khān mongolo di Persia, protettore dei cristiani, di cui si caldeggiava il battesimo (cfr. Lupprian, pp. 261-264); ai patriarchi delle Chiese armena, giacobita, georgiana, nestoriana e ad altri vescovi orientali, esortati a propagare il Vangelo e a uniformarsi alla Chiesa di Roma nella professione di fede; al succitato Haiton d'Armenia e, finalmente, al gran khān Kublai, residente a Khān bālīq (oggi Pechino), nuova capitale dell'impero cinese dei Mongoli, il quale più volte, per il tramite dei fratelli Polo e dei khān di Persia, aveva sollecitato l'invio di missionari nel cuore dei suoi sterminati domini, e dal quale il pontefice, al di là del consueto ma poco realistico auspicio di conversione, si attendeva quantomeno una conferma della benevola tolleranza sempre mostrata dalla sua corte nei riguardi delle missioni cattoliche e dei sudditi cristiani (ibid., pp. 255-257).
G. partì dunque dalla Curia, che allora risiedeva a Rieti, nel luglio 1289 e, attraverso la Cilicia e l'Armenia, giunse a Tabriz, nella Persia nordoccidentale, dove soggiornò per qualche tempo e dove si unirono a lui come compagni di viaggio il domenicano Niccolò da Pistoia e il mercante Pietro da Lucalongo. Da qui ripartì nel 1291 puntando verso Hormuz seguendo poi la rotta del Golfo Persico e dell'Oceano Indiano, poiché la guerra in corso tra Kublai e Kaidu, khān del Turkestan, dovette impedirgli di percorrere le piste carovaniere dell'Asia centrale. Approdò così nell'India meridionale, dove sostò per tredici mesi riuscendo a battezzare un centinaio di persone: nella prima delle sue lettere superstiti, databile al 1292-93, e tradita nella versione compendiosa in volgare dovuta al domenicano Menentillo o Manettello da Spoleto (cfr. Sinica Franciscana, pp. 340-345) G. ci ha lasciato un suggestivo quadro geo-etnografico dei luoghi, degli usi e delle popolazioni indiane presso le quali soggiornò durante la lunga tappa del viaggio che doveva ben presto condurlo, alla fine del 1293 o nei primi mesi del 1294, presso la corte di Khān bālīq, dove nel frattempo Timur Olgeitu era succeduto al grande Kublai morto il 18 febbr. 1294.
G. vi fu accolto con gli onori e il riguardo dovuti a un ambasciatore, anche se i suoi sforzi missionari non sortirono mai l'auspicata conversione del principe e della corte, già da tempo proclivi al buddismo tibetano, sia pur in un quadro di sostanziale tolleranza e rispetto verso tutti i culti e le confessioni religiose presenti nell'impero e di peculiare benevolenza verso i cristiani. Come narra egli stesso nella seconda delle sue lettere, scritta da Kāhn bālīq l'8 genn. 1305 e indirizzata al vicario e ai confratelli della custodia francescana di Gazaria (ibid., pp. 345-351), i maggiori ostacoli alla sua attività missionaria e pastorale gli sarebbero stati frapposti per almeno cinque anni dai cristiani di confessione nestoriana, che lo accusarono perfino di non essere in realtà un messo del papa ma un vagabondo ciarlatano che in India avrebbe ucciso il vero ambasciatore pontificio sottraendogli il tesoro che questi avrebbe dovuto recare in dono al gran khān. Fu proprio il sovrano, una volta riconosciuta la falsità delle accuse ed esiliati i calunniatori, a consentire infine e a favorire il pacifico svolgimento dell'apostolato di G., che già nel 1299 poté ultimare la costruzione di una prima chiesa con campanile nella città regia, dove sino al 1305 battezzò circa seimila persone, in particolare una quarantina di fanciulli tra i sette e gli undici anni, che iniziò alle lettere e al rito latino scrivendo per loro i testi elementari dell'ufficio liturgico e che i fanciulli già potevano recitare e cantare con diletto dello stesso imperatore. Apprese inoltre la lingua e l'alfabeto tartarico (non è chiaro però se si tratti del turco o del mongolo) e tradusse in quella lingua l'intero Nuovo Testamento e il Salterio, che fece trascrivere in bella grafia.
Va detto però che la sua opera di conversione e cura d'anime si orientò e poté svolgersi di fatto non tra i Cinesi, popolo di cui ignorava la lingua, ma soprattutto fra gli stranieri che a vario titolo si trovavano in loco o godevano di speciali privilegi, in particolare fra i cristiani non cattolici, come per esempio gli Armeni, di cui parlava la lingua, o i membri di etnia alana e osseta di un reparto della guardia imperiale, già cristiani di rito greco. Un successo inatteso gli arrise tuttavia, nei primi anni di apostolato, presso il popolo turcofono degli Öngüt, di stanza nella regione di Tenduc, a nordovest della capitale: la conversione al cattolicesimo del loro principe, il nestoriano Giorgio (Körgis), che G. riteneva appartenere alla stirpe del favoloso Prete Gianni, avvicinò al cattolicesimo una buona parte della sua gente e favorì l'impianto di una cristianità di rito latino (resti della chiesa fatta erigere da G. sono stati rinvenuti, fra l'altro, dopo gli scavi degli anni Venti, nell'odierna Olon-Süme, a nordest dell'ansa del Fiume Giallo): ma la morte del sovrano (1298) e il sopravvento dei nestoriani a corte ricondussero in breve tempo al predominio dell'antica confessione e al fallimento dell'operato di Giovanni da Montecorvino.
La stessa lettera ci informa che G., rimasto nel frattempo praticamente solo e senza possibilità di confessarsi per i primi undici anni della sua permanenza in Cina, era stato raggiunto, soltanto nel 1304, dal confratello Arnoldo di Colonia, anche se, come auspicava rivolgendosi ai destinatari della missiva, avrebbe potuto fare molto di più con l'ausilio di altri due o tre compagni. Sempre nella stessa occasione G. esprimeva inoltre il desiderio di sapere finalmente qualcosa di più preciso sulle condizioni dell'Occidente, del Papato e del suo Ordine, anche perché le uniche notizie che aveva ricevuto in proposito per il tramite di un medico chirurgo lombardo, giunto nella capitale intorno al 1303, gli parevano oltremodo infamanti. Da una terza lettera, scritta da Kāhn bālīq il 15 febbr. 1306 e indirizzata ai vicari e al ministro e maestro generali degli Ordini francescano e domenicano nonché a tutti frati residenti in Persia (Sinica Franciscana, pp. 351-355), sappiamo che nel frattempo (1305), grazie alla generosità del mercante Pietro da Lucalongo, che gli aveva fatto dono del terreno, poté iniziare a costruire una seconda grande chiesa, capace di accogliere circa duecento persone, proprio "coram hostio domini Chanis".
Soltanto nel giugno-luglio 1307, per il tramite di fra Tommaso da Tolentino, e dopo un lungo e accidentato tragitto, papa Clemente V, durante un concistoro cardinalizio ad Avignone, poté giungere a conoscenza del tenore delle due ultime lettere di G. e dello stato della missione in Cina: fortemente impressionato ed entusiasta per gli inattesi risultati conseguiti, il pontefice chiese subito al ministro generale dei minori di scegliere sette frati da nominare vescovi e da inviare "in Tartariam", affinché a loro volta consacrassero il G. "Archiepiscopus Cambaliensis" con giurisdizione e "cura animarum" da esercitarsi "in toto dominio Tartarorum" (bolla Rex regum, 23 luglio 1307). Altri tre vescovi furono inviati nel 1310-11, ma soltanto tre, sul totale degli eletti, giunsero effettivamente a Pechino. È quanto possiamo ricostruire anche grazie a frate Pellegrino da Castello, primo successore di Gerardo Albuini nella diocesi di Zayton (la sede suffraganea eretta da G. presso una chiesa donata da una ricca armena nel fiorente porto della costa cinese sudorientale, frequentato da numerosi mercanti europei), e di frate Andrea da Perugia il quale, dopo un periodo trascorso a Kāhn bālīq come coadiutore di G. e una fase di romitaggio in un bosco nei pressi di Zayton, dove poté costruire un convento, succedette a sua volta al vescovo Pellegrino nella guida della diocesi.
G. morì in una data intorno al 1328: a quell'anno sembra infatti da collocarsi una notizia della Relatio del viaggio in Cina di frate Odorico da Pordenone, in cui la menzione di un "noster episcopus" (ed. Sinica Franciscana, I, p. 493) sembrerebbe non più riferirsi a Giovanni da Montecorvino. Inoltre da una lettera scritta nel luglio 1336 (una delle lettere cinesi recate al papa da un'ambasceria giunta ad Avignone nel 1338), sappiamo che i cristiani di Pechino erano privi del loro pastore da ormai otto anni ("Iohannem […] qui tamen mortuus est ante octo annos": Golubovich, IV, pp. 250 s.). D'altra parte, già il 18 sett. 1333 papa Giovanni XXII, tardivamente informato della morte di G., aveva provveduto a nominare un successore nella persona di un frate Niccolò, probabilmente mai giunto a destinazione.
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