GIOVANNI da Parma, santo
Nulla di certo sappiamo sulle origini familiari e la data di nascita di questo personaggio, fiorito a Parma nella seconda metà del X secolo, di origine probabilmente parmense e di estrazione aristocratica.
Già l'Affò dimostrò l'infondatezza delle speculazioni genealogiche degli eruditi cinque-seicenteschi (Garofani, Pico, Sansovino, Ferrari), che lo volevano figlio del nobile Gerardo da Correggio e di tale Eufrosina Bravi (morta, secondo un corrente motivo agiografico accolto nella Vita Iohannis, poco prima del parto, avvenuto prodigiosamente grazie al taglio dell'utero durante la sepoltura). Tuttavia, dal contesto politico-sociale ed ecclesiastico degli anni in cui G. visse e operò non sembra affatto arbitrario accogliere il nocciolo di verità che anche in questo caso può celare il tópos della nascita nobiliare ("ex optimo genere originem duxisse": Vita, § 1). In particolare, a suffragio di questa ipotesi, oltre il suo legame con il parmense Sigifredo (II), vescovo dal 981 al 1015, membro della dinastia canossana, sembra deporre la dichiarata appartenenza al capitolo della cattedrale parmense, cui venne affidato dalla famiglia, forse ancor puer, dopo una prima fase di formazione letteraria in ambito domestico. Potrebbero riferirsi a G. due documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Parma: rispettivamente, un placito tenutosi a Reggio Emilia nel maggio 944 e un contratto di livello concluso a Palasone, nei pressi di Parma, nel maggio 945, in cui si fa menzione di un Giovanni diacono e prevosto della cattedrale di Parma (cfr. G. Drei, Le carte degli archivi parmensi dei secoli X-XI, I, Parma 1924, pp. 155 s., 170 nn. LI, LII). Ciò indurrebbe a collocare la sua data di nascita intorno al secondo decennio del secolo X, per quanto l'anonimo autore della Vita affermi, molto genericamente, che G., appena "juvenis", quand'era già membro del capitolo cattedrale, avrebbe deciso di abbandonare il secolo e dedicarsi totalmente al servizio divino.
L'esistenza di G. è infatti documentata in via pressoché esclusiva da una Vita (Bibliotheca hagiographica Latina, n. 4419), verosimilmente composta nel quinto decennio dell'XI secolo da un monaco anonimo del cenobio parmense di S. Giovanni Evangelista, che ascoltò, sia pure in tarda età, i racconti di molti confratelli che, dopo la fondazione del monastero (post 981 - ante 987), avevano professato nelle mani di G. ed erano stati testimoni di alcuni miracoli da lui compiuti in vita e in morte. Si tratta di una tipica agiografia di santo abate, infarcita di tópoi, citazioni bibliche, calchi cristomimetici e altri motivi correnti del genere (elenchi di virtù e benemerenze, tentazioni diaboliche), e consacrata in larga parte alla narrazione dei prodigi taumaturgici (guarigioni, preveggenze, dominio degli elementi, ecc.) compiuti da G. durante gli anni del suo abbaziato e in quelli successivi alla morte.
G. avrebbe rivestito l'abito monastico (priva di basi documentarie ma forse non del tutto inverosimile è l'ipotesi del Pico secondo cui si sarebbe trattato dell'abito dei monaci basiliani) in Terrasanta: qui, infatti, e specialmente a Gerusalemme, dopo aver preso la decisione di abbandonare casa e parenti, si sarebbe recato almeno sei volte "orationis causa" ma pure in conformità a una prassi ascetico-devozionale che andava affermandosi in tutta la spiritualità europea di età ottoniana anche in relazione al rifiorire di un severo eremitismo itinerante nonché sulla spinta di rinnovate tensioni millenaristiche. Intanto, a Parma, il vescovo Sigifredo (II), secondo le direttive di una politica ecclesiastica che vedeva allora i presuli di molte città padane impegnati in prima linea nella fondazione e dotazione di monasteri ubicati nelle immediate fasce suburbane e aventi funzione di riequilibrio e di raccordo materiale e spirituale rispetto alle potenti canoniche cittadine e ai cenobi aristocratici del contado, aveva stabilito di istituire, presso la chiesa di S. Giovanni Evangelista, dove sorgeva l'antico oratorio di S. Colombano, una comunità di monaci astretti ai rinnovati dettami ascetici della vita cenobitica: tale comunità nel volgere di pochi anni avrebbe subito il decisivo influsso della spiritualità e fors'anche della normativa cluniacense, diffusasi a partire dalla fine degli anni Sessanta del X secolo, presso molti cenobi dell'Italia centrosettentrionale, grazie all'attiva opera dell'abate Maiolo di Cluny (954-994). Sigifredo, "cum consilio Clericorum et populi" (Vita, § 2), scelse e consacrò come abate il canonico G., già noto in città per le virtù acquisite nel corso del suo lungo tirocinio ascetico-penitenziale, nonché, verosimilmente, per la solidità dei suoi legami dinastici e familiari. Tale elezione è da collocarsi in un anno verosimilmente compreso fra il 981 (primo anno di attestazione di Sigifredo vescovo) e il 987 (ultimo viaggio di Maiolo in Italia), e non, come spesso si è scritto, nel 975 o nel 983.
Gli anni dell'abbaziato di G. si distinsero, fra l'altro, per un coerente impegno antisimoniaco, come sembra confermare la notizia, tramandataci però dalla sola Vita, di un incontro avvenuto a Ravenna, in occasione di un concilio provinciale, con Maiolo di Cluny, che in quell'occasione avrebbe confermato un "decretum" sottopostogli da G., un testo-programma ispirato forse alle consuetudini cluniacensi, nel quale non va ravvisata una vera e propria carta volta a sancire l'affiliazione formale di S. Giovanni Evangelista alla congregazione monastica facente capo a Cluny.
Sempre dal testo della Vita si possono ricavare informazioni di un certo interesse, quale l'esistenza presso il cenobio parmense di un attivo scriptorium, come attesta il racconto della guarigione miracolosa ottenuta da G. con l'applicazione della propria saliva alla parte lesa di un amanuense che, impegnato nella confezione di un codice commissionatogli dall'abate, si era tagliato in profondità un dito mentre incideva la pergamena. O, ancora, i nomi di monaci, molti dei quali rampolli della nobiltà cittadina e talvolta già membri del clero, che lo stesso G. si impegnò a convertire alla scelta monastica, facendo, con l'appoggio del vescovo Sigifredo, della sua abbazia un autentico vivaio per il tirocinio spirituale del futuro ceto dirigente. È il caso, per esempio, di un certo diacono Giovanni, che poi, divenuto vescovo di Modena (994-998), si fece a sua volta promotore e beneficiario, nel 996, del nuovo monastero modenese di S. Pietro; e ancora, di un monaco Restaldo, testimone diretto all'agiografo di alcuni episodi della vita di G. e presente al capezzale dell'abate morente, che poi sarebbe diventato vescovo di Pistoia, città nella quale, per gli anni seguenti, è documentata l'esistenza di possessi e dipendenze della fondazione parmense (priorato di S. Bartolomeo).
La morte di G., tra il compianto dei monaci e le topiche visioni e premonizioni, avvenne alla presenza del vescovo Sigifredo e di una nutrita rappresentanza del clero cittadino il 22 maggio di un anno non precisato tra il 988 e il 994, a seconda che si privilegi il termine alto o quello basso come data d'inizio del suo abbaziato, che durò sette anni, tre mesi e otto giorni. Fu sepolto dal vescovo e dai monaci nel chiostro dell'abbazia, "iuxta maiorem ecclesiam, in locello marmoreo" (Vita, § 14), luogo in cui poi si sarebbero verificati molti miracoli.
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