DA VALENTE (Valente), Giovanni
Nacque a Genova alla fine del sec. XIII da Buonagiunta e da Giacomina Della Volta.
Il padre, appartenente ad una ricca famiglia del "popolo", di fazione ghibellina e dedita ai traffici, aveva svolto l'attività di banchiere; secondo il Federici (citato dal Levati), nel 1283 aveva fatto parte di una commissione che era stata istituita per seguire le relazioni politiche con Venezia e, in particolare, per formulare le istruzioni per gli ambasciatori allora inviati a Cremona a discutere i termini di una pace con la città rivale. La madre apparteneva ad una nobile famiglia, confluita poi nell'"albergo" Cattaneo. Il D., probabilmente, continuò l'attività di banchiere che era stata di suo padre, intessendo una rete di rapporti economici e personali che gli fu utile per la sua carriera politica: nella città lacerata dai conflitti, ormai incancreniti, tra le grandi famiglie nobili che avevano sino ad allora controllato il governo dello Stato, stava emergendo un nuovo strato sociale - la ricca borghesia dei mercanti, dei banchieri, degli appaltatori di imposte e degli armatori - deciso ad abbandonare il ruolo subalterno all'aristocrazia ed a rivendicare la direzione politica della Repubblica. Dal punto di vista istituzionale, la creazione del dogato a vita fu l'espressione di questo movimento, la cui direzione non era stata ancora monopolizzata da alcuna famiglia.
Sotto il regime di Simone Boccanegra (23 sett. 1339-23 dic. 1344) il D. rivestì incarichi di notevole responsabilità. Nel 1340, divenuto anziano della Repubblica, fu inviato ad Avignone come ambasciatore presso Benedetto XII per informarlo del nuovo assetto istituzionale della città e per discutere questioni riguardanti la Corsica. Nel 1342, morto il 25 aprile Benedetto XII, venne di nuovo inviato ad Avignone: rappresentò la Repubblica ai funerali di quel papa, e si incontrò col nuovo pontefice, Clemente VI. Ritornato a Genova, fu nominato vicario della Riviera di Ponente e nel 1343 vicario di quella di Levante. Le fonti accennano anche ad una sua missione presso il duca di Angiò, non sappiamo se avvenuta nel 1344, quando era ancora al potere il Boccanegra, oppure nell'anno seguente, quando era già divenuto doge Giovanni Murta.
Due giorni dopo le dimissioni del Boccanegra (23 dic. 1344), quando si procedette all'elezione del successore, il D. fu uno dei due candidati del "popolo" i quali, accanto ai due candidati dei nobili, dovevano essere proposti all'Assemblea, perché tra loro si nominasse il nuovo doge. Si preferì tuttavia una soluzione di compromesso, per cui venne scelto Giovanni Murta, che non era stato presentato da alcuna fazione ed offriva quindi una certa garanzia di essere al di sopra delle parti.
Il D. doveva riscuotere la fiducia del nuovo doge se da questo, alla morte di Luchino Visconti (24 genn. 1349), ricevette il delicato incarico di recarsi come ambasciatore presso i nuovi signori di Milano, per tentare un riavvicinamento fra Genova e quello Stato, allora in guerra. Morto improvvisamente il Murta (6 genn. 1350), tre giorni dopo, il 9 gennaio, il D. fu creato doge dagli elettori riuniti nella chiesa di S. Giorgio.
Secondo gli AnnalesGenuenses l'elezione del D. era stata appoggiata dai mercanti; la nomina, del resto, intendeva con evidenza porsi su una linea di continuità rispetto alla politica del Murta, il quale aveva saputo conservare il controllo della Repubblica nelle mani della ricca borghesia, senza rompere in modo traumatico con l'aristocrazia cittadina. Non erano tuttavia mancati i tentativi di intimidire gli elettori o di forzar loro la mano. Luchino "de Facio" si sarebbe presentato all'Assemblea, secondo le cronache, alla testa di duemila armati, mentre i figli, del Murta avevano cercato, a loro volta, di farsi attribuire il dogato.
Il D. assunse il potere in uno dei momenti più difficili della storia della Repubblica, allora travagliata da dissidi interni ed impegnata all'esterno nella lotta contro i sovrani aragonesi per il dominio sul Mediterraneo occidentale, e con i Veneziani per l'egemonia nel bacino orientale del Mediterraneo. Il nuovo doge cercò dunque da un lato di salvaguardare il prezioso equilibrio raggiunto tra le forze politiche all'interno, decidendo - fu uno dei suoi primi atti di governo - l'equa ripartizione delle cariche pubbliche - esclusi il dogato ed il Consiglio degli anziani - tra i nobili ed il "popolo". Tentò, dall'altro lato, di fronteggiare il sempre più pesante espansionismo aragonese, sia difendendo Alghero, fulcro del dominio di Genova sulla Sardegna, contro gli attacchi di Brancaleone Doria, il ribelle sostenuto dalle forze aragonesi, sia promuovendo contatti diplomatici presso la corte pontificia di Avignone nel tentativo di impedire la collusione fra la Repubblica di S. Marco ed il re Pietro IV d'Aragona, che si andava profilando sull'orizzonte internazionale e che non poteva non avere una funzione antigenovese. Nonostante gli sforzi del D., il 16 genn. 1351 venne formalizzata l'alleanza veneto-aragonese. Nel maggio successivo, sempre nell'intento di impedire un ulteriore allargamento del conflitto, il D. inviò a Costantinopoli un'ambasceria, per indurre i Genovesi di Galata ad accordarsi con Giovanni VI Cantacuzeno, che aveva usurpato il trono imperiale di Bisanzio esautorando il giovanissimo Giovanni Paleologo. Il 15 luglio il re Pietro IV inviò al doge di Genova la dichiarazione di guerra, con la quale si aprirono ufflcialmente le ostilità fra le due potenze. La situazione per Genova si aggravò quando Giovanni Cantacuzeno decise di schierarsi con Venezia e Aragona.
La partita fra le rivali si giocò soprattutto nello scacchiere orientale dove, dopo scontri di minore importanza, le flotte avversarie si affrontarono, il 13 febbr. 1352, nelle acque del Bosforo. Nonostante le gravissime perdite subite da entrambe, la battaglia si concluse tuttavia con esito incerto, tanto che ambedue gli avversari poterono attribuirsi la vittoria. Per contenere la pressione dei nemico e diminuirne quindi la preponderanza, i Genovesi si accordarono con i Turchi, il che indusse Giovanni Cantacuzeno a cercare un'intesa con la Repubblica ligure. I Genovesi avviarono inoltre negoziati con il re d'Ungheria Luigi I, in vista di un'alleanza in funzione antiveneziana. Il trattato venne firmato il 22 ottobre. Di fronte all'allargarsi del conflitto il papa Clemente VI intervenne ancora una volta in favore della pace, promuovendo in Avignone contatti diplomatici fra rappresentanti delle potenze in guerra: questa iniziativa fu compromessa irrimediabilmente dalla morte del pontefice, avvenuta il 6 dic. 1352.
Intanto il D. si era preoccupato di consolidare il dominio di Genova sulla Riviera di Ponente, dove la situazione si andava facendo sempre più critica e sempre più difficile da controllare a causa dei mai sopiti fermenti autonomistici e dell'aspra conflittualità che caratterizzava i rapporti tra feudatari e Comunità locali in quelle zone. Nel 1350 rinnovò a vari membri della famiglia Del Carretto l'investitura formale sui castelli da loro controllati nella Riviera di Ponente; quindi acquistò da Cassano Doria i diritti che questi vantava su Sanremo e Ceriana, ed intavolò trattative con Luigi I d'Ungheria, perché alla Repubblica ligure fosse restituita Ventimiglia. Nel 1351 comprò dalla vedova di Raffaele Doria i diritti che ella vantava sulla città di Sanremo; l'anno seguente intervenne come moderatore nelle lotte intestine di Savona. Il D. cercò inoltre di risolvere il problema rappresentato dallo stato di rivolta endemica in cui si trovava la Corsica, ma, dopo l'insuccesso della spedizione del Murta nel 1347-48, non fu in grado di riportare alla normalità la situazione nell'isola: unico fatto positivo fu il rafforzamento delle fortificazioni di Calvi, bastione genovese nella Corsica.
La stipula del trattato di alleanza fra Genova ed Alghero, avvenuta nel gennaio del 1353, e la successiva cessione da parte dei Doria dei diritti che essi vantavano su quella città, provocarono l'immediata reazione dei Veneto-Aragonesi ed una ripresa generale delle ostilità. Alla fine del mese di agosto la flotta genovese, comandata da Antonio Grimaldi, si scontrò con quella avversaria nelle acque di Alghero e fu quasi completamente distrutta. Questa cocente quanto sanguinosa sconfitta non solo provocò la caduta della città contesa, ma assicurò anche ai Veneto-Aragonesi il controllo dei Tirreno e consentì loro di impedire l'approvvigionamento di Genova.
Battuto sul mare; bloccato per terra dagli eserciti viscontei che presidiavano i passi dell'Appennino; impotente a sedare le lotte e i conflitti interni, subito riaccesisi dopo la sconfitta, fra la fazione dei guelfi - cui apparteneva Antonio Grimaldi - e quella dei ghibellini, decisi a sindacare e a censurare il comportamento del vinto ammiraglio, il D. fu costretto a lasciare il potere. Il 9 ott. 1353 rinunziò ufficialmente al dogato, mentre la Repubblica si consegnava a Guglielmo Pallavicino, rappresentante dell'arcivescovo di Milano Giovanni Visconti. Tornato a vita privata, il D. si vide poco tempo dopo liquidare le spettanze ancora dovutegli per l'alta carica che aveva ricoperto.
È questa l'ultima notizia sicura su di lui. Non sembra che egli abbia successivamente giocato alcun ruolo politico, neppure all'interno della fazione in cui aveva militato. Non conosciamo né il luogo né la data della sua morte. Come suppose il Levati, il suo corpo fu inumato nella chiesa del monastero di S. Bartolomeo dell'Olivella detto del Carmine, alla cui fondazione doveva aver collaborato insieme col padre.
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