GIOVANNI da Verona
Nacque intorno al 1457 a Verona da genitori dei quali non sono noti nomi e casato (Caffi). Nel 1475 entrò come novizio nel monastero di S. Giorgio di Ferrara appartenente ai benedettini olivetani e il 25 marzo 1476 professò a Monte Oliveto Maggiore, presso Siena, casa madre della Congregazione (Franco). Fu monaco e sacerdote, non converso come erroneamente indicato in autori antichi, presso i quali, talvolta, appare confuso con l'architetto suo concittadino fra' Giovanni Giocondo.
G. si fece religioso quando già era in possesso di un mestiere poiché nell'atto di professione, è dichiarato, allora diciottenne, "sculptor" (Lugano, 1905, p. 8); è probabile che ciò indichi una sua iniziale attività come scultore in pietra, altrimenti sarebbe stato indicato come "faber lignarius" o "intaliator", qualifiche con le quali comparirà in documenti posteriori.
G. apprese probabilmente l'arte della lavorazione del legno da fra' Sebastiano da Rovigno detto fra' Bastian Virgola (fondatore della fiorente scuola olivetana di maestri del legname), presente con G. nel monastero di Ferrara tra il 1477 e il 1478. In questa città, dominata dalle esperienze dei Genesini (o Canozi da Lendinara), fra' Sebastiano aveva portato le proprie esperienze artistiche maturate sull'arte senese e fiorentina durante le sue precedenti soste in alcuni monasteri toscani (Ferretti). La totale dispersione delle sue opere non consente purtroppo di chiarire in che misura abbia influenzato i primi tempi d'attività dell'allievo.
Dopo la professione G. venne inviato nel 1478 nel monastero di S. Michele in Bosco a Bologna e nel 1480 in quello di Monte Morcino di Perugia; ritornò alla casa madre toscana nel 1481, quando Liberale da Verona, suo presunto maestro nella miniatura, aveva appena terminato il proprio soggiorno in terra senese.
Dal 1482 al 1487 il nome di G. scompare dalle Familiarum tabulae, gli elenchi monastici degli olivetani. Si ritiene di riconoscerlo nel "dom Ioannes de Verona" che tra il 1483 e il 1485 aveva lavorato nel monastero di S. Pietro a Perugia, intento a intarsiare parte dell'altare maggiore della chiesa (Lugano, 1905). Nel 1488 G. fu di nuovo a Verona, nell'abbazia di S. Maria in Organo, e poco dopo a Venezia, nel monastero di S. Elena in Isola dove fra' Sebastiano da Rovigno aveva installato il proprio laboratorio, indi a S. Maria di Baggio presso Milano; nel 1491 tornò a Verona. Non si conoscono opere compiute dall'artista in questo periodo.
L'arrivo di G. nell'abbazia veronese di S. Maria in Organo, dove rimase per circa un decennio, coincise con l'apertura del cantiere per rinnovare l'antico edificio. Alcuni documenti, perduti, attestavano G. presente, nel 1495, al contratto per la costruzione delle cappelle laterali e ai lavori d'inizio del nuovo campanile, progettato da lui stesso, il cui snello profilo, ispirato ai modi di Biagio Rossetti, ricorre in molte sue tarsie; è inoltre probabile che anche la sagrestia sia stata concepita su suo disegno (Lugano, 1905). I lavori al campanile subirono numerose interruzioni e furono condotti a termine nel 1533 come attesta una lapide posta nella cella campanaria in cui al nome di G. viene accostato quello del mitico Dedalo (Franco).
Per i lavori nella chiesa veronese G. organizzò una grande officina chiamandovi a far parte conversi olivetani e giovani laici. Nel primo gruppo figurano fra' Matteo Nano e Antonio da Venezia detto il Prevosto ai quali, più tardi, si aggiunse Vincenzo Dalle Vacche. Nel secondo compaiono il nipote Gregorio, Francesco Begano, Agostino Brusasorzi e i lombardi Giovanni da Legnano, Giovanni Antonio da Brescia e Roberto Maroni, che poi si farà olivetano e sarà noto come fra' Raffaele da Brescia, il migliore tra i suoi allievi (Rognini, 1985).
Nel 1492 fu condotto a termine l'imponente candelabro ligneo per il cero pasquale, alto 4 m e quasi totalmente scolpito e intagliato con soggetti animali, festoni di frutta e, sulla sommità, figure di santi monaci. Vasari stesso ne fa menzione affermando che venne realizzato "con incredibile diligenza: onde non credo che per cosa simile si possa veder meglio" (V, p. 312). A questo periodo risale anche la commissione per l'ornamento in legno intagliato destinato a incorniciare il dipinto eseguito da Andrea Mantegna per l'altare maggiore della chiesa veronese raffigurante la Madonna col Bambino e santi. A tal proposito G. si recò più volte a Mantova per acquistare legname e recare doni al celebre pittore. La pala, nota come Madonna Trivulzio, oggi nel Museo del Castello Sforzesco di Milano, fu collocata sull'altare della chiesa il 15 ag. 1497.
A partire dal 1494 G. iniziò a lavorare al coro ligneo, terminato nel 1499, come si legge in una iscrizione intarsiata nel fregio della cornice; destinato in origine a essere posto dinanzi all'altare maggiore, nella seconda metà del Cinquecento il coro fu spostato nell'abside dove attualmente si trova.
Il coro si compone di 41 stalli (27 superiori e 14 inferiori); nell'ordine superiore i postergali, separati da un piccolo pilastro, appaiono riccamente intarsiati. Nella tipologia dei singoli riquadri, a un arco che inquadra figure di santi o vedute prospettiche ideali, si alternano immagini di armadi con ante socchiuse che lasciano scorgere oggetti sacri e profani. In uno di questi, in particolare, si legge la firma dell'artista rappresentata come un indirizzo posto su una lettera: "R(everend)o in X° [Christo] p(atri) f(ratri) Ioa(nn)i mo(nach)o".
Nello stesso periodo in cui attendeva ai lavori del coro, G. dovette tuttavia assentarsi a più riprese: tra il 1494 e il 1495 fu chiamato a Venezia per aiutare fra' Sebastiano nella realizzazione del coro ligneo della chiesa di S. Elena; per questo stesso edificio lavorò anche a un tabernacolo, a un ciborio e a un leggio, coadiuvato dal nipote Gregorio (Gallo). Si recò inoltre a Milano, Lodi, Bergamo, allo scopo di procurarsi materiale da lavoro; mentre nel 1497, andò a Bologna, per comporre fra l'altro una vertenza tra il monastero di S. Michele in Bosco e il nipote.
Dopo un breve soggiorno a Roma per il giubileo, G. nel 1501 si recò di nuovo a Verona dove tornò a lavorare per S. Maria in Organo eseguendo il nuovo leggio per il coro che fu terminato in pochi mesi.
La parte inferiore del leggio, di forma triangolare, era destinata a conservare i corali miniati dai maggiori artisti veronesi; essa appare ornata da raffinate tarsie fra le quali spicca quella raffigurante un coniglio dal pelo a riflessi cangianti. Una colonnina tornita sostiene il leggio vero e proprio, a due facce inclinate, sulle quali sono rappresentati corali aperti alle antifone gregoriane "Alma Redemptoris Mater" e "Regina Coeli".
Nel 1501 G. fu chiamato a Monte Oliveto Maggiore dall'abate generale olivetano Francesco Ringhieri (II). Il maestro lasciò Verona per la Toscana avendo completato le opere lignee, ma non il campanile. Giunto nella casa generalizia, dove lo avevano preceduto alcuni allievi, nel 1502 scolpì un candelabro per il cero pasquale più semplice e meno articolato di quello veronese; inoltre intarsiò le ante di un armadio, decorate con animali e vedute di Monte Oliveto, destinato a contenere i preziosi corali liturgici miniati da Liberale e altri maestri. Nel 1503 il nuovo abate generale Tommaso Pallavicini, desiderando sostituire il vecchio coro ligneo rovinato dai tarli con un altro di maggiori dimensioni, ne affidò l'esecuzione a G. che, come ricorda un cronista, "lignario opere et sculptura lignorum et ingeniosissima commissura unus tota Italia et toto fere orbe vigebat" (Lugano, 1905, p. 16); i lavori terminarono nel 1505 (Brizzi).
A motivo di rifacimenti e manomissioni posteriori è difficile stabilire il numero degli stalli originari; si presume che il complesso fosse formato da due ordini dei quali quello superiore, destinato ai monaci professi, era dotato di 52 tarsie. In queste G. ripropose la risorsa tecnica già escogitata in S. Maria in Organo aumentando tuttavia la lunghezza dei pannelli; nelle vedute prospettiche introdusse per la prima volta edifici a pianta centrale, chiaramente ispirati all'opera di Francesco di Giorgio Martini. Attualmente gli specchi intarsiati non sono più, in buona parte, quelli originari poiché nel 1812 a causa della soppressione napoleonica degli ordini religiosi, le parti intarsiate furono prelevate e inserite nel coro del duomo di Siena. Nel 1819 gli olivetani poterono riadornare il loro coro riuscendo a recuperare solo 18 tra le tarsie originarie e utilizzando in parte quelle provenienti dal monastero soppresso di S. Benedetto fuori Porta Tufi a Siena, anch'esse opera di Giovanni da Verona.
Durante il soggiorno a Monte Oliveto G. aveva intagliato anche la porta in noce della nuova biblioteca, realizzata su suo disegno (Perego), e stimato i lavori dell'intagliatore Giovanni Barili per la cappella di S. Giovanni nel duomo di Siena. Terminati gli interventi nella casa generalizia, G. con gli allievi fra' Antonio e fra' Raffaele, passò nella chiesa di Monteoliveto di Napoli (ora S. Anna dei Lombardi) per decorare il coro della cappella di Paolo da Tolosa e gli armadi della vecchia sagrestia.
Attualmente le tarsie, in numero di 30, sono sistemate nella sagrestia-oratorio di S. Carlo. Realizzate anche con l'aiuto di artisti locali esse presentano, oltre ai consueti finti armadi, paesaggi di ambientazione veneta e senese, vedute della città partenopea e mirabili nature morte. Caratteristica principale di quest'opera è la costante ricerca di una raffinata armonia cromatica tra le varie essenze del legno; si tratta di una delle principali caratteristiche dell'arte di G. sottolineata dallo stesso Vasari che nella sua "Introduzione alle tre arti del disegno" riconosce il carattere innovativo, di stampo pittorico dei "lavori di commesso" di "Fra' Giovanni Veronese" (I, p. 202).
In questo stesso periodo G. aveva avuto modo di conoscere direttamente Bernardino di Betto, detto il Pinturicchio, autore di un dipinto per la chiesa napoletana raffigurante l'Assunzione della Vergine (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte); in seguito a ciò, tra il 1510 e il 1512, G. commissionò al pittore umbro una grande tavola per la chiesa di S. Maria Assunta di Monte Oliveto, annessa al monastero olivetano, a Barbiano presso San Gimignano (Carli, 1960).
Terminati i lavori a Napoli, dopo un breve soggiorno a Siena nel monastero di S. Benedetto, G. giunse nel 1511 a Roma per ricoprire la carica di priore della chiesa di S. Francesca Romana. In questa città G., artista ormai famoso, ricevette l'incarico da parte di Giulio II di lavorare nei palazzi vaticani realizzando, in particolare, per la stanza della Segnatura, appena affrescata da Raffaello, "non solo le spalliere attorno, ma ancora usci bellissimi e sederi lavorati in prospettiva" (Vasari, IV, p. 337); i lavori proseguirono anche tra il 1513 e il 1515 durante il pontificato di Leone X (Mercati). Le tarsie risultavano già scomparse al tempo del pontificato di Paolo III (1534-49), forse distrutte o disperse nel sacco di Roma del 1527; e al loro posto Perin del Vaga dipinse a monocromo i medesimi soggetti. Ancora sotto il pontificato di Leone X, unitamente a Giovanni Barili, G. decorò con intarsi i lati esterni e con intagli quelli interni delle due porte che dividono la stanza dell'Incendio da quella della Segnatura e questa da quella di Eliodoro.
Tornato da Roma in Toscana G., tra il 1514 e il 1515, terminò il coro ligneo del monastero di S. Benedetto a Siena da lui iniziato pochi anni prima.
Reimpiegate, come si è detto, nell'archicenobio di Monte Oliveto Maggiore, queste tarsie costituiscono un'altra tappa significativa del percorso artistico di Giovanni da Verona. L'impianto prospettico appare maggiormente luminoso e dilatato; gli armadi con le ante socchiuse rivelano, oltre alle consuete nature morte e arredi sacri, strumenti scientifici e corpi geometrici.
Nell'estate del 1518 G. risulta di nuovo presente nel capitolo di S. Maria in Organo. In questo periodo era abate Cipriano Cipriani, una delle figure più illustri fra gli olivetani del tempo, il quale commissionò a G. l'esecuzione dell'ultimo manufatto destinato a completare l'arredo della nuova sagrestia da poco affrescata da Domenico e Francesco Morone: la spalliera posta sopra il pancone in noce riservato alla custodia dei paramenti liturgici. G. riaprì il suo cantiere e, coadiuvato da Stefano da Milano, maestro falegname, e da Francesco, giovane intagliatore veronese, realizzò, tra il 1519 e il 1523, l'opera che è considerata il suo capolavoro (Rognini, 1985).
Il maestoso manufatto ligneo si presenta diviso in 10 scomparti ottenuti da altrettanti archi sorretti da colonnine binate, tutte variamente scolpite, dominati da una grande cornice dorica con triglifi e metope; particolarmente originali appaiono gli imoscapi con intagli illustranti, per esempio, arnesi da legnaioli, armi, strumenti musicali, oggetti dello scrivano e del cantiniere. Nelle lunette degli archi sono scolpiti a rilievo delfini, chimere, figure zoomorfe alcune con cocolla. Gli specchi a tarsia presentano vedute prospettiche ideali o reali, armadi colmi di oggetti liturgici e strumenti scientifici. Si ricordano in particolare un tabernacolo con tendine sollevate, di squisita fattura, nel cui interno sta un grande ostensorio; una piazza con fontana e, sullo sfondo, un tempietto a pianta centrale derivato da quello bramantesco in S. Pietro in Montorio a Roma; una magnifica rappresentazione di un gufo fra nature morte; la collina veronese di S. Pietro. Vasari dichiarò la sagrestia di questa chiesa "la più bella […] che fusse in tutta Italia" (V, p. 312).
Terminata la spalliera G., ormai anziano, iniziò a lavorare agli specchi intarsiati per il coro del monastero dell'Annunciata di Lodi commessigli fin dal 1519. Per tale lavoro ricevette l'aiuto dei discepoli Antonio il Prevosto e Vincenzo Dalle Vacche. L'opera, che prevedeva l'esecuzione di 35 pannelli a tarsia, non fu terminata a causa della morte dell'artista. Le tarsie superstiti, oggi conservate nel moderno coro del duomo di Lodi, rappresentano le ultime, mirabili, creazioni dell'artista. Animata da suggestioni iconografiche diverse, l'opera appare come il risultato di una delicata sutura tra la componente culturale padana e quella, predominante, propria dell'Italia centrale.
G. morì a Verona il 10 febbr. 1525 (Caffi, p. 110) e venne sepolto in S. Maria in Organo.
Si ha anche notizia di un'attività di G. come autore di miniature per libri corali del monastero di Lodi (Lugano, 1903) e come corografo: nel 1493 realizzò, infatti, una mappa per l'abbazia di S. Maria in Organo (Rognini, 1985). Di lui si hanno due ritratti: il primo, a figura intera, incluso da Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma in una delle Storie di s. Benedetto affrescate nel chiostro di Monte Oliveto Maggiore; il secondo, a mezzo busto, affrescato da Giovanni Caroto nella sagrestia di S. Maria in Organo (1530).
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