DA VIGO (De Vigo, De Vico, Di Vico), Giovanni (detto anche Giannettino)
Nacque a Rapallo (Genova) intorno alla metà del sec. XV.
Sul luogo di nascita i biografi sono concordi, ad eccezione del Pecchiai e di Yvia-Croce che lo dicono originario di Vico in Corsica. D'altro canto il D. stesso negli incipit di alcuni libri della sua opera principale, definendosi "natione Genuensis Patria rapalligene" toglie ogni dubbio sulla sua città di origine (ad es. "Incipit liber quartum Chirurgiae Magistri Ioannis de Vigo Natione Genuensis Patria Rapalligene ...", Lugduni 1538, f 129).
Incerta è invece la data della sua nascita che non risulta concordemente attestata dalle fonti. Alcuni la pongono nel 1450, come il Giordano; altri, come il Bonino, nel 1460; altri ancora, con poca probabilità, verso la fine del sec. XV. Della sua famiglia sappiamo assai poco. Da alcuni archivi notarili di Rapallo risulta che suo padre fu un certo Ambrogio e non il famoso chirurgo Battista, di Rapallo, unanimemente indicato come tale; che ebbe tre fratelli, Vincenzo "bambaxaro", Taddeo e Nicolò. Della madre è noto soltanto che fu "bellissima donna e compitissima", ma mancano indicazioni sul suo nome e casato.
Per lungo tratto la vita del D. si intreccia con le vicende della sua famiglia e con la carriera del padrigno Battista. Questi, lasciata Rapallo forse dopo avere sposato la madre del D. rimasta vedova, si trasferì nella città di Saluzzo su invito del marchese Ludovico I, prendendo dimora, come qualche documento lascia intendere, nel castello stesso. Un documento del 27 sett. 1473 ce lo mostra consigliere al fianco dei marchese e professore allo Studio di Saluzzo con uno stipendio di 400 fiorini. Qui visse il D. la sua infanzia, assai caro al marchese, dal cui nome, secondo un curioso aneddoto narrato dal giureconsulto saluzzese Bernardino Orsello in una sua operetta rimasta manoscritta citata dal Malacarne, p. 187: La memorabile obsidione de Salutio de l'anno 1486, letta nel 1495, deriverebbe al D. il soprannome De Vigo, infantile storpiamento per "di Ludovico". Questa derivazione fu messa in dubbio dai biografi e definitivamente smentita dal Pescetto che stabiliva essere Da Vigo "vero gentilizio e suo nome", sia per l'antichità del cognome Vico in Rapallo, sia per l'epigrafe sepolcrale recante la scritta "sepulcrum illorum de Vico" già esistente nel 1473 nella chiesa parrocchiale dei SS. Gervasio e Protasio in Rapallo, e cioè all'epoca in cui, ancor giovane, il D. era a Saluzzo. A Saluzzo ricevette i primi elementi della sua educazione scientifica sotto la guida di maestro Battista, che gli trasmise i segreti della sua arte e lo ebbe, come attesta la relazione dell'Orsello, al suo fianco come esperto chirurgo durante l'assedio della città nel 1485-86. Caduta la città nelle mani del duca di Savoia, maestro Battista si allontanò da Saluzzo alla volta di Genova, dove sembra lo seguisse il Da Vigo. Qui, secondo quanto si desume dalla sua opera principale, avrebbe esercitato la professione di medico contribuendo anche alla formazione dell'ospedale di Pammatone. La permanenza del D. a Genova deve collocarsi fra il 1487 e il 1495 se, come è certo, nel 1495 era di nuovo a Saluzzo perché l'Orsello, nel manoscritto citato, lo dice presente e gli tributa un caldo elogio, definendolo ormai pari al genitore "per la practica exellente... per la teorica per la vastità delle omnigeneri cognitioni sia dell'autori greci, latini, arabici e come dicono Neoterici, sia delle methodi dell'operare per via delli semplici et antidoti e per mezzo dell'operatione della mano".
A Savona, dove si trasferì da Saluzzo, conobbe ed entrò nelle grazie del cardinale Giuliano Della Rovere che, eletto papa nel 1503 col nome di Giulio II, lo volle con sé a Roma come suo chirurgo "colmandolo di ricchezze ed onori". Su richiesta dei suoi amici, più che per sua pgsonale iniziativa, come il D. tiene a precisare nel Prohemium, pose mano alla stesura della Practica in Chirurgia. Copiosa inarte chirurgica... che fu compiuta nell'arco di undici anni, dal 1503 al 1514, anno in cui uscì in una elegante edizione a Roma.
L'opera, che venne dedicata a Bandinello Sauli, cardinale del titolo di S. Sabina, "propter continuam familiaritatem in qua semper tecuni a teneris annis domesticisque tuis versatus suni s, è preceduta da una lettera di Giovanni Antracino da Macerata" Artiuni ac medicinae Doctor", che l'aveva rivista e "castigata". Viene definita "opus modernum", ma in nulla discorde dalle opinioni degli antichi, contenente ritrovamenti che meglio si adattano alle esigenze del malato "moderno", diverso dall'antico per il mutare dei tempi e delle "rerum complexiones", utile a tutti, sia a chi naviga sia a chi vive in città, e mezzo, fatto non trascurabile, di rapido arricchimento. Il D., rivolgendosi ad uno dei suoi figli, Luigi ("fili mi Alvisi s) avviato alla professione chirurgica, definisce la sua arte "postremum instrumentuni medicinae" dopo la "dieta" e la "potio", dividendola in due parti, quella che insegna il modo di operare le parti molli e quella che riguarda le parti dure; ne indica l'etimo e delinea la figura dei chirurgo, che deve essere "adolescens", facondo, fidato ed onesto, o manu strenua, acri oculo, animo intrepidus", bene inserito nella società colta e "litteris munitum", ricco di strumenti intellettuali ("ingenium") e materiali. La Practica in chirurgia copiosa è divisa in nove libri: De anathomia; De apostematibus; De vulneribus; De uiceribus; De morbo gallico et iuncturarum doloribus; De fractura et dislocatione; De natura iimplicium et eorum posse; Antidotarium de resolutivis, maturativis, repercussivis simplicibus et compositis ac nonnullis aliis secretis nostris ... ; De nonnullis additionibus pro operis complemento (sitratta delle febbri dei naviganti, dei coito e dei problemi ad esso connessi, "de maleficiatibus", dei capelli e dell'adatto trattamento per evitarne licaduta, l'imbiancamento, e. numerosi altri problemi). A unanime parere, degli storici della medicina, in essa sono contenute scoperte ed intuizioni di grande importanza. Il D. vi afferma il valore dei metodo empirico sperimentale, della diretta osservazione dei corpi e dello studio dei cadaveri. Notevoli sono le sue opinioni attorno al cervello umano che egli sostiene essere in relazione con la massa del corpo e che considera fonte di molte operazioni come immaginazione, intellezione, memoria, abbozzandone una localizzazione. Interessanti sono gli accenni alla circolazione dei sangue e molto importante, per il seguito che ebbe, il suo metodo per legare le vene e le arterie. Larga fortuna godettero i suoi suggerimenti farinacologici per la cura delle ferite sia intern i e che esterne e, a questo riguardò, particolarmente importante è stato considerato il libro terzo De vulneribus dove egli riassume gli esiti delle sue esperienze nel campo delle ferite causate da arma da fuoco. Per le lesioni dei cranio praticava la trapanazione con strumenti di sua invenzione e per la cura del cancro prevedeva l'estirpazione con tutte le sue radici e vene. Nel libro settimo fornì poi una ricca rassegna in ordine alfabetico delle piante medicinali di cui descrisse con minuziosità virtù e caratteristiche, dando prova delle sue notevoli conoscenze in fatto di botanica. Diede altresì un contributo fondamentale alla diagnosi e terapia della sifilide per cui prescriveva l'impiego del mercurio. Larghissima fu la fortuna di quest'opera che conobbe una quarantina di edizioni e traduzioni: in francese da Nicolas Godin (Lione 1525); in italiano da Lorenzo Crisoario (Venezia 1556) e da Andrea della Croce (Venezia 1560); in spagnolo (Valenza 1557; Saragozza 1581; Perpignano 1627); in portoghese (Lisbona 1613); in tedesco (Norimberga 1677); in inglese nel 1543.
Morto il papa, troviamo ancora il D. a Saluzzo al servizio dei cardinale Sisto Gara Della Rovere, nipote di Giulio II e vescovo di quella città, con una pensione di 300scudi d'oro, per l'epoca assai rilevante. In questi anni, sembra su invito dell'Antracino che intendeva utilizzarla per i suoi studenti, compose la Practica compendiosa, in cinque libri (De vulneribus; De aposthematibus; De ulceribus; De auxiliii; De additionibus) ultimata, come dice nel titolo Stesso, il 24 agosto (0 24 aprile, come precisa nella chiusa dei libro quinto) del 15 17 a Tivoli. È un compendio dell'opera precedente e, come quella, ebbe numerose edizioni e traduzioni.
Ancora dunque nel 1517 egli viveva, come attesta altresì uno scambio di lettere con l'Antracino. Della data e del luogo di morte le fonti più antiche non danno indicazione, né sappiamo su quali documenti il Giordano abbia basata la precisa datazione della morte al 1525. Si può avanzare solo l'ipotesi che non sia vissuto molto oltre il 1517. Una "lavagna" incastrata in un pilastro della chiesa dei SS. Gervasio e Protasio in Rapallo dell'anno 1626 lo ricorda insieme ad altri medici rapallesi e una statua di marmo fu fatta erigere in suo onore nel 1846 in una piazza della sua città natale.
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