Giovanni da Viterbo
Giureconsulto e magistrato (sec. XIII). Di lui non conosciamo finora che il nome, l'opera (il De Regimine Civitatum) e l'occasione di questa. Il nome ci è fornito dal codice Ambrosiano B 91, c. 69r, dove l'opera è riferita solo in parte, mentre il Laurenziano Strozziano 63 (12) che tutta la contiene attribuisce l'opera, per un errore dovuto forse al copista, a Vegezio.
Il De Regimine Civitatum, che in 148 capitoli tratta della dottrina e della pratica " de regimine civitatum et de rectoribus ", cioè del governo comunale e del podestà, fu composto durante il periodo fiorentino, mentre G. era accanto - forse assessore - al podestà di Firenze: " dum potestati Florentiae assiderem ".
Poiché il De Regimine non è datato, in base agli elementi interni, soprattutto i personaggi menzionati, sono state proposte varie ipotesi; probabilmente, se la sigla del pontefice menzionato al cap. XXII non è fittizia, la composizione si può porre al tempo di Urbano IV (1261-1264).
Alla datazione dell'opera è connessa l'originalità o meno della parte conclusiva del Tresor di Brunetto Latini: se infatti la composizione del De Regimine si pone prima del pontificato di Urbano IV, è possibile una derivazione da G. del Latini.
Probabilmente D. conobbe l'opera e ne rimase influenzato: v'è infatti una profonda analogia tra il III libro della Monarchia e i capitoli CXXVII e CXXVIII del De Regimine, dove viene proclamata la natura divina dei due poteri politico ed ecclesiastico. Che la specie umana sia governata da due sistemi giuridici e da due autorità, dipende dal fatto che gli uomini sono composti di spirito e di corpo e quindi devono essere controllati con mezzi differenti; chi effettivamente però regna sopra gli uomini è Dio, fonte di ambedue i poteri, quello spirituale e quello temporale (cap. CXXVII). Iddio, chiarifica l'autore nel capitolo successivo, ha fatto agli uomini due grandi doni: " sacerdotium " e " imperium "; i quali, pur discendendo dalla medesima fonte, hanno funzioni diverse indicate dalle due spade che vennero portate al Signore nell'ultima cena (Luc. 22, 38). Mentre però Dio costituì dal cielo l'Impero e affidò all'imperatore la " rerum summa " e quest'ultimo donò agli uomini quale incarnazione del diritto, è la costituzione imperiale che ha sanzionato il principio secondo il quale il romano pontefice dovrebbe essere il primo di tutti i sacerdoti. Poiché ambedue le autorità sono volute da Dio, gli elettori è da Dio che traggono il loro potere. L'autorità, prosegue G., è in sé buona, perché deriva da Dio, ma il suo esercizio può risultare cattivo; funzione dell'autorità è di favorire il bene comune e la giustizia.
L'autore che pure altrove (cap. CXXXIX) si dimostra animato di spiriti ghibellini, conclude il capitolo proponendo la separazione e la concordia dei due poteri, teoria che D. più di cinquant'anni dopo esporrà appunto nel III libro della Monarchia pur movendo per altre vie. Poiché entrambe le autorità, afferma G., derivano dal medesimo Principio e Fattore, cioè Dio, hanno in conseguenza il dovere di amarsi a vicenda, di onorarsi e di soccorrersi in ogni momento; ognuna tuttavia deve accontentarsi della propria sfera e non intervenire mai nelle faccende dell'altra senza averne ottenuto il permesso: solo così gli uomini saranno guidati con perspicacia, giustizia ed equità.
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