DE BONIS, Giovanni
Molto scarsi e frammentari sono gli elementi a noi noti della biografia di questo poeta aretino della seconda metà dei Trecento, e in generale desunti dai suoi stessi scritti.
Anche il nome del D. rappresenta per noi ancora un problema irrisolto. Il poeta si firma infatti costantemente facendo seguire al proprio nome una "l" minuscola: "lohannes I. de Bonis de Aretio". Varie supposizioni sono state fatte per spiegare il significato di questa "l":iniziale di un secondo nome (Leo, Leonardus, Ludovicus), abbreviazione di "videlicct" (per distinguersi da un altro Iohannes de Aretio a lui contemporaneo, Giovanni Corvini, che a Milano fu segretario ducale e conte palatino e che si firmava semplicemente appunto "Ioliannes de Aretio": tesi che urta peraltro contro evidenti difficoltà cronologiche). Sembra tuttavia più accettabile l'ipotesi che vede in quella "l" l'iniziale di una parola che serviva ad indicare l'attività svolta dal D.: "lector" o "legum lector", (Carrara).
Il D. nacque verso la metà del sec. XIV ad Arezzo; intraprese gli studi giuridici, ignoriamo presso quale università (ma probabilmente a Bologna), giungendo ad, addottorarsi in diritto: nelle fonti documentarie appare infatti indicato come "iuris peritus". Entrato nella vita politica cittadina, dovette militare in una fazione avversa a quella dei Tarlati, allora la famiglia più potente della città. Nel luglio del 1365 si trovava a Bologna nel seguito del podestà Rosso Ricci da Firenze, di cui i documenti lo dicono familiare. Allora doveva avere ricevuto la nomina e il rango di cavaliere, non sappiamo da quale autorità né per quali benemerenze: nelle fonti è indicato infatti come "dominus Iohannes de Bonis de Aritio miles" (Archivio di Stato di Bologna, Nomine del Podestà, ad ann.).Nel 1381 si trovava in Arezzo, quando la città fu sconvolta dal saccheggio e dalle stragi compiute da partigiani della fazione dei guelfi intransigenti (i cosiddetti arciguelfi) e dalle soldatesche di Alberico da Barbiano, allora alleato di Carlo III di Durazzo, cui gli arciguelfi aretini si erano rivolti per avere appoggio contro gli avversari interni.
Il D. avrebbe rievocato più tardi gli orrori di quelle giornate in due egloghe, la IX e la X; e sarebbe tornato a narrare con fosche tinte il tragico avvenimento nel poemetto storico Liber Inferni Aretii, in cui racconta di aver patito anche, in quella occasione, per una dura prigionia. In quei tempi di lutto per l'intera popolazione della città, grave motivo di dolore per il poeta fu pure la perdita della madre. Questi tristi avvenimenti, e probabilmente anche ragioni di ordine politico, indussero il D. ad abbandonare Arezzo, le sue occupazioni e gli studi preferiti: da allora, come si deduce dai suoi scritti, la sua fu un'esistenza piuttosto grama, trascinata da una città all'altra, al servizio di questo odi quel signore, per aver di che vivere.
Il D. si stabilì dapprima a Genova, e poi a Milano. A Genova si trovava già nel 1385, e doveva godere della protezione del doge Antoniotto Adorno, quando vi giunse il 23 settembre, provenendo da Nocera, il papa Urbano VI, che si fermò nella città ligure sino al 16dicembre dell'anno successivo.
La permanenza a Genova dei pontefice non mancò di creare gravi difficoltà al governo della Repubblica. La tensione raggiunse il massimo in occasione di un tentativo di fuga compiuto da un gruppo di cardinali, che il papa faceva trattenere sotto custodia sotto l'accusa di aver congiurato contro di lui. Facendosi portavoce dei desideri del doge, dei cittadini più in vista e dei clero locale, il D. indirizzò ad Urbano VI un'egloga, la V, in cui esortava il pontefice a liberare i cardiriali imprigionati. Il componimento, che contiene anche un'esaltazione di Antoniotto Adorno, esprime le preoccupazioni destate nel poeta dal triste momento che la Chiesa stava allora attraversando, ed i suoi timori per le gravi conseguenze che avrebbe potuto avere l'aspro carattere del papa, come appare anche dalla calda preghiera che egli rivolge a quest'ultimo, di voler essere benigno e di voler perdonare a tutti.
Probabilmente in concomitanza con la rinunzia di Antoniotto Adorno al dogato (3 ag. 1390) e col ritiro di questo a Loano, il D. dovette lasciare Genova per trasferirsi a Milano, alla corte di Gian Galeazzo Visconti, dove si trovavano altri conterranei, come i rimatori Braccio Bracci e ser Garieto d'Arezzo. Negli uffici dello Stato visconteo prestavano allora servizio numerosi aretini, tra cui il giureconsulto Antonio Foglioni, poi vicario di Provvisione dall'8 agosto del 1393, e Bartolino De Bonis, con ogni probabilità un parente del D... referendario di Milano nel 1393. Dalle fonti a noi note risulta che il D. il 13 marzo 1392 fu nominato da Gian Galeazzo Visconti (che nel relativo decreto lo definisce "sapiens vir et dilectus i" "iudex maleficiorum Mediolani et Comitatus", con uno stipendio di 100 fiorini a semestre; che il 24 maggio 1393 fu sostituito per sei mesi, in forza di un decreto comitale, dal pavese Antonino Cristiani; che si trovava a Milano il 1° maggio 1395, quando Gian Galeazzo fu creato duca (cfr. l'egloga VI); che tenne lezioni di diritto e ricopiò codici per la Fabbrica dei Duomo; che nell'agosto del 1401 venne nominate bibliotecario della stessa Fabbrica, con un modesto stipendio.
Il D. morì con ogni probabilità a Milano, dopo il 1404.
Le opere che conosciamo del D. sitrovano tutte nei manoscritti 686, 860, 861, 865 della Biblioteca Trivulziana di Milano. Sono codici completamente scritti, parte in latino e parte in volgare, dal D., che vi ha riportato oltre alle sue, anche opere di altri autori; così, ad esempio, nel codice 686insieme con lavori originali (un frammento della cronaca aretina e un poemetto allegorico), si trovano le dodici egloghe del Petrarca e i primi ventisei versi dell'Affica.
Gli scritti più importanti del D. sono le egloghe in latino e il Liber Inferni Aretii in volgare. Ma i manoscritti suddetti contengono altre sue cose di minore interesse: le Epistulae merricae, di cui le più notevoli sono quelle sullo scisma, De schisma (indirizzate a Dio, alla Vergine, a santi e personaggi diversi); il poemetto in volgare in terza rima Victoria virtutum, interrotto al canto VII, che, nel suo complicato succedersi di costruzioni allegoriche e di reminiscenze culturali tese ad esaltare la virtù, si ricollega al genere letterario delle visioni; l'inizio di due poemi, uno in lode di Gian Galeazzo Visconti, dal titolo Viscontina, l'altro di rievocazione della storia di Roma, dal titolo Romulea;varie preghiere, espressione del sentimento religioso che animava il D.; una ventina di canzoni dal titolo Cantileriae, che trattano molteplici argomenti (amore, morte, fortuna, ecc.), ma soprattutto di ordine morale e politico, o encomiastico, e sono indirizzate a personaggi vari (Antoniotto Adorno, Gian Galeazzo Visconti, ecc.); numerosi sonetti, Sopnitia.
Le egloghe sono dieci. Chiaramente ispirate a quelle di Virgilio e del Petrarca, sia per la struttura generale di due personaggi a colloquio sia per la veste allegorica dei loro discorsi, trattano di molteplici argomenti: da quelli personali e morali, a quelli più generali e più importanti, come eco storica di vicende vissute. Scarso è, comunque, il loro valore letterario, anche se non vi mancano, fra tanta noiosa retorica e superficiale erudizione, immagini vivaci e momenti di sentita e sincera umanità. La I, Ianua, descrive Genova e ne esalta il signore, Antoniotto Adorno; la II, Poesis, è ancora una celebrazione di Adorno; la III, Parnassus, fa grandi lodi del Petrarca in un vario confronto con antichi scrittori; la IV, Amica, è un monotono dialogo sull'amicizia fra Platone e Socrate; la V, Roma, condanna violentemente i costumi corrotti dei prelati ed esorta il papa al perdono e alla clemenza; la VI, Mediolanum, dopo aver lodato Milano, glorifica le virtù di Gian Galeazzo Visconti; la VII, Fiorentia, dapprima rimpiange la gloria passata della patria Arezzo, e quindi esalta quella di Firenze, tutta protesa all'avvenire; l'VIII, Ecclesia, invoca la fine dello scisma; la IX, Aretium, ha per tema centrale il sacco di Arezzo del 1381, con la rievocazione delle stragi che sconvolsero la città; la X, Mors, descrive la terribile mortalità che devastò verso la fine del Trecento l'Italia meridionale e in cui morì anche Carlo d'Angiò: la parte finale è un lungo ragionamento sulla morte che, nonostante tutto, non dovrebbe essere temuta.
Il Liber Inferni Aretii sisviluppa per cinquantatré canti o capitoli in terza rima, per un insieme di oltre 4.200 versi: di poche centinaia, dunque, più breve della cronaca aretina, anch'essa in terza rima e di analogo argomento, di ser Bartolomeo di ser Gorello, insieme con la quale fu pubblicato nei Rerum Italic. Scriptores. Come l'egloga Aretium, ma naturalmente con ben altra ricchezza di particolari e di considerazioni, il poemetto (che si può definire "cronaca riniata") narra il tragico sacco e le molteplici devastazioni e violenze che Arezzo subì dal 18 nov. 1381 al 9 giugno 1382, non tanto per volontà di Carlo di Durazzo e ad opera della compagnia di ventura di Alberico da Barbiano, quanto per il selvaggio scatenarsi degli odi che dividevano in due opposti schieramenti gli Aretini. Il D. scrisse il poemetto a non molta distanza di tempo dalla conclusione di quei fatti, anche se un'allusione (nel canto XLVII) alla morte di Carlo di Durazzo fa dedurre che l'opera sia stata completata non prima del febbraio 1386.
Dopo che nei primi tre canti si è parlato dell'occasione che ha spinto il poeta a rievocare le vicende di Arezzo, la narrazione parte da lontano, cioè dalle origini leggendarie della città, ricorda la distruzione subita da parte di Attila, e giunge rapidamente ai contrasti che pongono i cittadini gli uni contro gli altri: le loro divisioni in ghibellini e in guelfi, e il ricorso che alcuni di essi fanno a forze straniere per prendere il sopravvento sugli avversari; quindi è descritta l'entrata in Arezzo di Carlo di Durazzo (avvenuta il 14 sett. 1380), chiamato da una parte dei nobili; e infine, in seguito a più violenti scontri fra le opposte fazioni, la venuta in città di Alberico da Barbiano. Segue la descrizione delle terribili giornate del sacco sotto la furia della gente condotta da Alberico (canti IV-VIII). Ma improvvisamente la rievocazione storica cede il posto ad una specie di cupo trionfo di peccatori e di peccati che procedono dietro la Morte: insieme ad uomini sconci compaiono Vanagloria, le Furie, e poi Superbia, Invidia, Avarizia, Lussuria, Ira, Gola, Accidia, e dopo Fortezza e i sacri arredi dispersi e sciupati (canti IX-XV). Si ritorna quindi ad alcune visioni dei sacco, con scherni e tormenti quali non sono neppure nell'Inferno (canti XVI-XIX). Seguono le più terribili maledizioni contro i colpevoli di tante miserie, le invocazioni a Dio e alla Vergine; e lunghi e ripetuti appelli rivoltì dalla stessa Arezzo ad alcune città perché l'aiutino, e le sue imprecazioni contro altre: ecco così comparire, per motivi diversi, Roma, Napoli, Pisa, Lucca, Firenze; e nel mezzo, invocazioni a Carlo, alla moglie di lui, il ricordo delle Alpi mal difese, del "giardino dell'Impero" danneggiato (canti XX - XL). Si fanno poi amare considerazioni sulla vita stessa dell'uomo, con tutti i suoi mali: si rievocano i tanti individui uccisi violentemente; si contrappone ad un goffo mondo infernale un paradiso pieno di attrattive e di dolcezze; infine, improvvisa, la descrizione dei convento camaldolese di Vallombrosa che, coi suoi venerandi religiosi, è come l'unico luogo in cui possa rifugiarsi chi vuole sottrarsi aì fulmini della vita. A questo punto, con un omaggio ai buoni frati, che forse un giorno lo avevano accolto, il D. lascia interrotto il suo lungo e bizzarro poema (canti XLI-LIII).
Composto in tempi e per occasioni diverse, e con inopportune divagazioni, impegnato nell'imitare il poema dantesco in accenti formali come in immagini pittoriche - ma sempre con risultati scarsissimi se non addirittura paroffistici -, e nel far rivivere reminiscenze petrarchesche, il Liber Inferni Aretii ci appare un organismo slegato e caotico, dai toni ampollosi e retorici. Ma pur con i suoi molteplici limiti, ispirato com'è dalla diretta e commossa visione dei fatti, esso fornisce notizie assai utili alla ricostruzione storica di avvenimenti che non riguardano esclusivamente la vita di Arezzo, ma quella dell'Italia in generale nello scorcio del secolo XIV.
Il Liber Inferni Aretii è stato pubblicato nei Rerum Italic. Script., 2. ed., XV, I, a cura di A. Bini. Le altre opere sono tuttora inedite.
Fonti e Bibl.: Le limitate e sporadiche notizie sul D. si possono trovare presso gli Archivi di Stato di Arezzo (dove il materiale documentario inerente il periodo che ci riguarda ha subito ampie distruzioni), di Bologna (nel fondo Nomine del Podestà, ad a.), di Genova (nel fondo Diversorum, ad a.), di Milano (nel Fondo di religione, ad a.), ed anche presso l'Arch. arcivescovile di Milano (nei fondi riguardanti l'Opera e la Fabbrica del duomo). Vedi inoltre V. Pasqui, Docum. per la storia della città di Arezzo nel Medio Evo, IV,Firenze 1940, p. 237; F. S. Quadrio, Storia e ragione d'ogni poesia, VII, Milano 1752, pp. 266 s.; F. A. Zaccaria, Excursus litterarii per Italiam, I, Venetiis 1754, p. 322; G. M. Mazzuchelli, Gli scritt. d'Italia, II, 3, Brescia 1767, p. 1665; P. Mazzucchelli, Introduz. a F. C. Corippi, Iohannidos seu de bellis Lybicis, Milano 1820, pp. XXIXXXIX; A. Cerutti, I principi del duomo di Milano sino alla morte del duca Gian Galeazzo Visconti, Milano 1879, pp. 85-88; G. Porro, Catal. dei codici manoscritti della Trivulziana, Torino 1884, pp. 38 s., 407; C. Boito, Il duomo di Milano e i disegniper la sua facciata, Milano 1889, p. 46; E. Motta, Libri di casa Trivulzio nel sec. XV con notizie di altre librerie milanesi del Trecento e del Quattrocento, Como 1890, pp. 56 s.; E. Carrara, G. D. di Arezzo e le sue opere inedite, in Arch. storico lomb., XXV (1898), pp. 261-349; Appunti e notizie, ibid., XXVII (1900), pp. 399 s.; E. Levi, Francesco di Vannozzo e la lirica nelle corti lombarde durante la seconda metà del sec. XIV, Firenze 1908, pp. 267-74; A. Viscardi, La cultura milanese nel sec. XIV, in Storia di Milano, V, Milano 1955, pp. 591, 605, 610; W. L. Grant, An Eclogue of G. Quatrario, in Studies in the Renaissance, V (1958), p. 9; G. Petrocchi, Cultura e poesia del Trecento, in Storia d. lett. ital., II,Milano 1965, p. 691; C. Santoro, I codici medievali della Bibl. Trivulziana, Milano 1965, p. 154; N. Sapegno, IlTrecento, Milano 1966, pp. 444 s.; Repert. fontium historiae Medii Aevi, IV, p. 130.