GIOVANNI de' Cauli (Iohannes de Caulibus)
Non è conosciuto alcun documento che tramandi di lui notizie certe: si deve ritenere sia vissuto durante il XIV secolo. Le uniche informazioni provengono dal cronista Bartolomeo da Pisa: il Liber conformitatum (1385) ricorda G. "oriundus" di San Gimignano e qui residente, frate minore nel convento di S. Francesco, all'epoca compreso nella custodia senese della provincia toscana.
Non deve essere confuso con l'omonimo zio, Giovanni Cauli, erroneamente indicato da alcuni cronisti come "de Laudibus", tra i primi discepoli di s. Francesco a vestire l'abito della povertà nel 1211, morto in tarda età nel convento umbro di Bettona (Perugia), né con un fra Giovanni da San Gimignano guardiano a Sarzana nel 1308, né con l'omonimo predicatore domenicano, autore di una Summa de exemplis e raccolte di sermoni.
Il cognome è stato oggetto di varie interpretazioni: si è supposto, sulla scorta degli studi archivistici del Davidsohn, che provenisse dalla famiglia fiorentina "Caulis", la cui esistenza è attestata dalla metà del XIII secolo. La forma latina "de Caulibus" venne tradotta nell'italiano "da Calvoli", scelta che avrebbe potuto essere giustificata dall'esistenza di un toponimo nei dintorni di San Gimignano; il Repetti, tuttavia, non conosce alcuna località così denominata. Si deve preferire la tesi sostenuta dal Coppi, il quale ritiene la famiglia di G. originaria di Pisa, dove avrebbe avuto proprietà e palazzi. Di certo il cognome "de Caulibus" è compreso in un elenco di famiglie nobili e di cospicuo casato edito dal Coppi negli Annali.
È possibile reperire dati relativi alla vita di G. mediante la considerazione di espliciti riferimenti alla coeva topografia sangimignanese presenti nell'unica opera che gli è attribuita, le Meditationes vitae Christi. Un passo conferma che il convento di residenza può essere identificato con quello di San Gimignano: G. descrive la lontananza del Calvario dalla porta di Gerusalemme, paragonandola alla distanza esistente tra il convento di S. Francesco e la porta di S. Giovanni (cap. 77). Anche la narrazione dell'episodio in cui Gesù si allontana dai discepoli nell'orto del Getsemani (cap. 75) fornisce una testimonianza indiretta della sua presenza a San Gimignano: la distanza tra il convento dei frati minori e quello di S. Chiara, che si trovava nei pressi della porta di Quercecchio, corrisponde allo spazio coperto da un tiro di sasso. La vicinanza del Santo Sepolcro al luogo della crocifissione viene esemplificata proponendo un paragone con la "longitudo ecclesiae nostrae vel circa" (cap. 80), esplicito riferimento all'antica chiesa di S. Francesco, in seguito demolita. G. si rivolge a lettori che presuppone in grado di comprendere indicazioni topografiche riferite all'area senese: fa menzione della strada che da Siena conduce a Pisa, citando Colle di Val d'Elsa e Poggibonsi (cap. 14).
I cronisti francescani Bartolomeo da Pisa, Mariano da Firenze, Pietro Ridolfi e Francesco Gonzaga lo ricordano celebre predicatore. Ebbe forse l'incarico di direttore spirituale e confessore nel monastero delle clarisse di San Gimignano, come parrebbe attestato dal prologo delle Meditationes, ove l'autore si rivolge a una "dilecta filia", soggetta alla regola di s. Chiara, "mater et ducissa" della religiosa alla quale è indirizzata l'opera (cap. 44). In una data imprecisata si recò a Roma (cap. 73): una citazione autobiografica rende nota la sua visita alla basilica di S. Giovanni in Laterano, nella quale si venerava la tavola dell'Ultima Cena, che egli dichiara di aver visto e misurato.
Il Ridolfi attribuisce a G. un lettorato in teologia a Milano. Si tratta di un evidente errore, determinato da una lettura inesatta del manoscritto del Liber conformitatum, ripreso negli Scriptores Ordinis minorum dal Wadding, che lo ricorda "sacrae theologiae professor" nel capoluogo lombardo.
Non conosciamo luogo e data della sua morte.
G. fu probabilmente autore della stesura definitiva della compilazione tramandata sotto il titolo Meditationes vitae Christi, una delle opere mistiche pseudo-bonaventuriane che ebbero particolare fortuna nei secoli passati: i numerosi codici che la contengono, nell'originale latino così come nelle traduzioni in volgare, attestano la sua estesa diffusione e significativa influenza. Fischer ha sostenuto la priorità di un testo originario scritto in volgare, successivamente tradotto in latino: questa tesi è stata smentita dall'analisi filologica. I codici sono spesso anonimi. Esiste, tuttavia, una tradizione manoscritta che assegna l'opera a Bonaventura da Bagnoregio o la tramanda "secundum Bonaventuram": Bonelli e i padri di Quaracchi editori delle opere di Bonaventura interpretano questa attribuzione come riferimento alla dottrina del maestro francescano; è probabile che l'autore stesso abbia scritto "secundum Bernardum", annotazione erroneamente letta e modificata da un copista. Già nel XVIII secolo Oudin, Sbaraglia, gli Editores Veneti e Bonelli definirono spurie le Meditationes. Oltre alle testimonianze dei cronisti (che indicano un autore diverso da Bonaventura), Bonelli rileva il carattere del tutto particolare di quest'opera rispetto a quelle autentiche del dottore francescano, il quale non avrebbe fatto ricorso a rivelazioni private e ai Vangeli apocrifi. La paternità dell'opera venne in seguito attribuita a G. e ad altri quattro autori: il cardinale di S. Cecilia, l'agostiniano Bonaventura Badoer (Possevino, Oudin, Fabricius e Ossinger); il domenicano Giovanni da San Gimignano (per un errore di Ambrogio da Altamura che, facendo confusione a motivo dell'omonimia, riprese la notizia dal Willot); uno sconosciuto "frater Minor de Alverna", citato nel ms. 218 della Biblioteca capitolare di Tolosa; il francescano Giacomo de Cordone, probabile volgarizzatore del testo latino, al quale l'opera è assegnata da quattro codici italiani (Firenze, Bibl. Laurenziana, Biscioni 6; ibid., Bibl. Riccardiana, 1378; ibid., Bibl. nazionale, Magliab. XXXVIII 143, Venezia, Bibl. naz. Marciana, Ital. Z 7).
Sebbene tutti i manoscritti tacciano il nome di G., egli è ritenuto l'autore della versione finale delle Meditationes vitae Christi: Bartolomeo da Pisa afferma che scrisse un Tractatus meditationis super Evangelia. Questa attribuzione di paternità, ripresa da Mariano da Firenze, Pietro Ridolfi e Francesco Gonzaga, venne ripetuta, nel 1767, dal francescano B. Bonelli. Le Meditationes sono tràdite in tre distinte versioni, caratterizzate da un'esposizione dottrinale unitaria. Il testo maggiore, suddiviso in 96 capitoli, è tramandato nella versione latina, maggiormente diffusa e attestata nei codici più autorevoli, considerata la formulazione originale dell'opera. Comprende un prologo, l'intercessione degli angeli per l'umanità decaduta, la disputa delle quattro Virtù dinanzi al trono di Dio, la giovinezza della Madonna, l'Annunciazione, la visitazione, la nascita e l'infanzia di Gesù, la vita nascosta fino al battesimo nel fiume Giordano e al digiuno nel deserto (capp. 1-17). La vita pubblica, dalla chiamata dei discepoli fino all'Ultima Cena, è narrata nei capp. 18-73, sezione testuale interrotta da un trattato sulla vita attiva e contemplativa successiva alla visita di Gesù alle sorelle Marta e Maria, che si estende diffusamente nei capp. 46-58. Passione, Resurrezione, apparizioni ai discepoli, Ascensione e Pentecoste occupano la parte conclusiva (capp. 74 ss.). La struttura dell'opera è soggetta a un criterio di ripartizione, introdotto a livello tipografico nelle edizioni a stampa quattrocentesche: per ogni giorno della settimana viene stabilito un certo numero di capitoli da riservare alla meditazione. Le varie fasi del martirio di Cristo sono divise all'interno delle ore canoniche, in base alla sequenza dell'ufficio divino, secondo una consuetudine assai diffusa nel Medioevo. Accanto a questa prevalenza numerica di codici esistono alcuni testimoni, tra questi i mss. Parigi, Bibl. nationale, Fonds lat. 16393; Assisi, Bibl. comunale, 441; Trento, Bibl. comunale, 1823, che presentano una redazione più ampia, di oltre cento capitoli: l'edizione critica curata da M. Stallings-Taney ne conta 108, numerazione alla quale si riferiscono i passi qui citati. Il testo minore comprende 41 capitoli. È preceduto da un breve prologo, una sintesi rispetto all'estensione dei quattro lunghi capitoli del testo completo. Tranne qualche non rilevante diversità tra capitolo e capitolo, segue la versione integrale nella descrizione della vita di Cristo fino al digiuno nel deserto, passando direttamente all'ingresso in Gerusalemme e alla Passione. Come già rilevato da Sbaraglia, il testo più lungo è quello primitivo; le trasformazioni successive corrispondono a rimaneggiamenti. La versione breve è assai semplificata e ridotta alla sola scansione narrativa, priva di citazioni patristiche e della costante presenza di riferimenti alla produzione teologica di s. Bernardo: questa redazione rese disponibile un testo di facile comprensione e utile per l'esercizio di pratiche devozionali, strumento di pedagogia ascetica destinato a un pubblico di lettori più ampio, in particolare laici e comunità religiose femminili. Un terzo testo, assai noto nella seconda metà del Trecento, contiene solo i capitoli dedicati alla Passione, dall'Ultima Cena fino alla discesa di Cristo nel limbo (capp. 73-81). Questa sezione delle Meditationes, chiamata dagli editori Meditationes Passionis Christi (inc. "Adveniente iam et imminente tempore"), è tràdita quasi esclusivamente da manoscritti di origine inglese. Data la maggiore brevità, si diffuse rapidamente in ambienti popolari: G. dichiara espressamente di aver scritto questa sezione "sine auctoritatum interpositione" (cap. 81), per non distrarre il lettore dal concentrarsi sulla Passione e morte di Cristo. Le Meditationes Passionis Christi non citano mai s. Bernardo, né sono influenzate dalle sue opere, diversamente da quanto avviene nella restante parte delle Meditationes vitae Christi. Fischer, stabilendo un confronto testuale con altre opere di Bonaventura, in particolare l'Officium de Passione, ha sostenuto che le Meditationes Passionis Christi costituiscono un'opera indipendente e separata dalle Meditationes vitae Christi, scritta in latino, più antica e diversa per contenuto e stile, di cui fu autore il dottore francescano, al quale l'opera è attribuita dalla quasi totalità dei codici. Si deve, tuttavia, respingere la tesi secondo la quale le titolazioni dei manoscritti, per il solo fatto di recare, nella maggior parte, il nome di Bonaventura quale autore del trattato sulla Passione, costituiscano un elemento decisivo che consenta di assegnare questa sezione testuale delle Meditationes vitae Christi alla produzione autentica del teologo francescano. L'analisi del linguaggio e dello stile, condotta indipendentemente da Petrocchi e Stallings-Taney, ha dimostrato che le Meditationes Passionis Christi presentano la medesima trama stilistica e fanno un uso identico delle fonti presenti nel testo completo delle Meditationes vitae Christi; l'introduzione acefala e la conclusione, priva dei capitoli successivi alla discesa di Cristo nel limbo, costituiscono evidenti indizi della tradizione manoscritta di un estratto.
La datazione delle Meditationes vitae Christi venne in passato anticipata al XIII secolo. Petrocchi, preferendo identificare G. con l'omonimo zio, le ritenne addirittura opera di uno dei primi discepoli di s. Francesco. Nel tentativo di assegnare una data precisa, le ricerche condotte negli ultimi due decenni hanno dimostrato che il testo fu scritto molto più tardi di quanto ritenuto in precedenza. Le ragioni per attribuire l'opera al Duecento si sono dimostrate insostenibili: Bonaventura da Bagnoregio (m. 1274) non fu l'autore né di parte, né della totalità delle Meditationes vitae Christi e la tesi secondo la quale influenzarono la Southern Passion, composta tra il 1275 e il 1285, è stata definitivamente rifiutata. La data accettata, sino al recente contributo di S. McNamer, coincideva con l'inizio del Trecento: gli studi della ricercatrice statunitense hanno consentito di spostare ulteriormente in avanti nel secolo XIV la data di composizione. L'attribuzione delle Revelationes, citate per esteso nella più lunga versione delle Meditationes vitae Christi, a Elisabetta di Ungheria (1207-31), figlia del re Andrea II, terziaria francescana e moglie del langravio di Turingia, è stata messa in discussione da A. Barratt: esiste un'altra candidata alla paternità del testo, la meno conosciuta monaca domenicana Elisabetta di Töss, che nacque verso il 1294, figlia del re Andrea III di Ungheria e pronipote della più famosa s. Elisabetta. L'indagine critica ha dimostrato che le Meditationes vitae Christi sono posteriori alla morte di Elisabetta di Töss: furono scritte in un periodo cronologico compreso tra il 1336, quando le Revelationes cominciarono a circolare, e il 1364, data in cui venne composta la Passione di N.S. Gesù Cristo, un lungo poema in volgare di cui fu autore Niccolò di Mino Cicerchia da Siena, laico dei disciplinati e discepolo di s. Caterina. Deve, di conseguenza, essere posta in discussione la presunta dipendenza della Vita Christi di Ludolfo di Sassonia dalle Meditationes vitae Christi, concordemente sostenuta dalla critica: si propone, all'opposto, l'ipotesi che la Vita Christi preceda le Meditationes, nelle quali sarebbero state trascritte alla lettera, o con lievi modifiche e in forma di parafrasi, ampie sezioni testuali dell'opera del certosino sassone. Le ricerche più recenti confermano, dunque, la già citata testimonianza di Bartolomeo da Pisa; è corretta anche la data del 1376, sostenuta da Mariano da Firenze e ripresa dal Wadding negli Annales minorum. Lo studio paleografico dei manoscritti ha dimostrato che le Meditationes vitae Christi furono in circolazione nella seconda metà del Trecento: non è possibile stabilire una data più precisa, anche se si deve negare con decisione una stesura posticipata all'inizio del XV secolo, come ritenuto da Sbaraglia. La prima e incontrovertibile attestazione della loro esistenza può essere reperita nella Passione di Niccolò Cicerchia, alla quale seguì un rifacimento poetico delle Meditationes vitae Christi nel poemetto La fanciullezza di Gesù, di valore artistico assai minore, opera dell'agostiniano fra Felice Tancredi da Massa Marittima. Questa serie di considerazioni induce a posticipare di almeno un ventennio il terminus a quo delle Meditationes vitae Christi, in precedenza fatto coincidere con gli inizi del XIV secolo e, comunque, con una data precedente il 1330, stabilita sul fondamento di due argomenti principali: la descrizione di un manoscritto della Bibl. comunale di Siena che riporta in ottave il testo volgarizzato delle Meditationes vitae Christi, dal bibliotecario De Angelis attribuito con assoluta certezza a questo anno (cfr. Sorio 1852, p. 26), e la considerazione di due particolari testimoni delle Meditationes Passionis Christi. Uno di questi è la traduzione del testo latino in una versione inglese medievale, conosciuta con il titolo Meditations on the Supper of Our Lord and on the hours of the Passion: si ritenne di poterla collocare tra il 1300 e il 1330. Il secondo testimone, di difficile datazione, è il codice Cambridge, Trinity College, B.14.7 (293 del catal. di M.R. James), una copia latina delle Meditationes Passionis Christi assegnata al XIV secolo. L'analisi interna dei manoscritti rivela errori di datazione che rendono impossibile porre la composizione delle Meditationes vitae Christi nel primo trentennio del XIV secolo. G.H. Naish ha analizzato vocabolario, sintassi, morfologia, metro e rima delle Meditations: il linguaggio è certamente quello del tardo Trecento o dell'inizio del secolo successivo.
Tra le fonti che ispirarono l'autore delle Meditationes vitae Christi si distinguono per importanza le auctoritates della patristica, in particolare Girolamo, Agostino, Gregorio Magno e Pietro Crisologo, i Vangeli apocrifi, in particolare il Vangelo di Nicodemo, l'Historia scholastica di Pietro Comestore, il De nativitate s. Mariae Virginis attribuito nel Medioevo a s. Girolamo, il trattato De meditatione Passionis Christi per septem diei horas dello pseudo Beda, il Liber de Passione Christi et doloribus et planctibus Matris eius dello pseudo Bernardo, il Dialogus b. Mariae et Anselmi de Passione Domini dello pseudo Anselmo, la Glossaordinaria e la Legenda aurea di Iacopo da Varazze. Una posizione di particolare rilievo assume la produzione teologica di s. Bernardo: la presenza nel testo di 205 citazioni, tratte in prevalenza dai Sermones super Cantica, evidenzia la dipendenza delle Meditationes vitae Christi da questa predominante fonte monastica.
Nel descrivere i luoghi in cui si svolgono le vicende della vita di Cristo, oltre a utilizzare l'Historia scholastica del Comestore e la diffusa Descriptio Terrae Sanctae del domenicano Burcardo del Monte Sion, G. si avvale, come egli stesso afferma, di informazioni ricevute dai confratelli di Terrasanta (capp. 8, 17, 75, 77): questa esplicita dichiarazione confermerebbe una data di composizione posteriore al 1333, quando i francescani entrarono in possesso dei Luoghi Santi; è pur vero che le Meditationes vitae Christi non menzionano la donazione del Cenacolo ai frati minori da parte di Roberto d'Angiò e la presenza di visitatori francescani in Terrasanta e Siria precedette questa data. G. indica con precisione le distanze che separano le città e descrive i luoghi geografici citati nelle Meditationes vitae Christi (capp. 5, 7, 12, 14, 16 s., 21, 31, 65, 70, 75, 77, 105), ricorda la pietra che Maria pose nel presepe (cap. 8), la fontana di Nazareth (cap. 13), il cenacolo (cap. 73), il carcere ove venne tenuto Cristo (cap. 75), ruderi di chiese (cap. 77), conosce la distanza del Santo Sepolcro dal luogo della crocifissione (cap. 80).
Lo pseudoepigrafo bonaventuriano presenta evidenti caratteri francescani: considera il tema della "nostra paupertas" nel lungo capitolo dedicato alla virtù francescana scelta volontariamente per amore di Dio (cap. 44), si serve di alcuni termini presi dal terzo capitolo della Regula minoritica (cap. 17) e utilizza l'espressione caratteristica "locus" per indicare un convento (cap. 77). Oltre alle notizie geografiche e topografiche ricevute dai missionari francescani in Oriente, sono allegate la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio, dalla quale vengono riportate citazioni senza indicare il nome del dottore francescano, e la Legenda di Chiara d'Assisi (prol. e cap. 44).
La critica ottocentesca pose in rilievo l'influenza delle Meditationes vitae Christi nel rinnovamento delle arti figurative della prima metà del Trecento: è, invece, assai probabile che i capolavori dei maggiori esponenti delle scuole pittoriche umbra, senese e fiorentina (tra cui Giotto, Simone Martini e Pietro Lorenzetti) precedano la stesura dell'opera. Il realismo e la vivacità delle scene narrate coinvolgono il lettore, inducendolo a percorrere un itinerario di edificazione spirituale. Per corrispondere a questa finalità, alcuni devoti verseggiatori del XIV secolo, in Italia e Inghilterra, tradussero le Meditationes in poemetti da recitare o cantare al popolo. È riconosciuta un'evidente dipendenza delle rappresentazioni sacre da questo testo: in Francia fu ampiamente utilizzato dagli autori dei misteri; Feo Belcari inserì la disputa delle quattro virtù davanti al trono di Dio in una delle due redazioni dell'Annunziazione.
Pietro Ridolfi - ripreso da Willot, Possevino e Wadding - attribuì a G. un trattato De triplici via sapientiae, ma lesse male Bartolomeo da Pisa, oppure ebbe a disposizione una copia corrotta del Liber conformitatum, che lo indusse in errore: il trattato citato nelle Historiae seraphicae religionis è in realtà opera del francescano Ugo di Digne.
Edizioni: Meditationes vitae Christi, in Opusculi theologici, II, Venetiis 1572, pp. 511b-582b; Meditationes vitae Christi, in S. Bonaventuraeopera, VI, Romae 1596, pp. 349-419; Lugduni 1668, pp. 334-401; Meditationes vitae Christi, a cura di A.C. Peltier, in Bonaventurae opera omnia, XII, Paris 1868, pp. 509-630; Meditaciones de Passione Christi olim s. Bonaventurae attributae, a cura di M. Jordan Stallings, Washington 1965, pp. 87-130; Iohannis de Caulibus. Meditaciones vite Christi olim s. Bonaventuroattributae, a cura di M. Stallings-Taney, Turnhout 1997.
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