DE GAMERRA, Giovanni
Nacque a Livorno nel 1743.
Fu mandato in seminario per intraprendere gli studi. In alcuni versi scritti all'età di diciassette anni si definiva abate, probabilmente più per un vezzo esteriore che per profonda adesione spirituale. Studiò diritto nell'università di Pisa, ma abbandonò prima del tempo gli studi. Forse per seguire la volontà paterna, nel 1763 il sedicente abate divenne cadetto, stimato per le sue doti e per l'ottima conoscenza del tedesco. Ma a partire dal 1765 era a Milano (dove rimase almeno fino al 1770) e qui componeva la prima delle sue opere, la tragedia in versi Don Fernando conte d'Errera. La sua famiglia si preoccupava di inserirlo nell'esercito asburgico e nel 1767, l'anno in cui, non casualmente, il D. aveva pubblicato a Milano Lo splendore della milizia, un poemetto sui doveri del buon soldato, entrava nell'esercito asburgico col grado di sottotenente.
Il D., diffusore e seguace non pedissequo della voga indotta dalle pièces larmoyantes dei Nivelle de la Chaussée e dei Destouches, inaugurò, pubblicando nel 1770 a Milano i Solitari, la sua invenzione della "tragedia domestica pantomima", precorrendo taluni aspetti di un preromanticismo dai risvolti lugubri e quasi satanici, esasperazioni della sensiblerie tardosettecentesca, le cui implicazioni più macroscopiche sono rivelate dalle stesse vicende personali del De Gamerra. Suoi sostenitori nell'impresa letteraria dei Solitari furono il Beccaria, del quale il D. godeva l'amicizia, nonché la famosa e bizzarra duchessa Serbelloni, alla quale sottopose, nel 1769, la prima redazione dell'opera in martelliani non rimati.
Tematicamente si tratta di un'ennesima variazione della nota storia di Adelaide e Commingio, imperniata sulle sventure di una eroina costante in amore e ingiustamente calunniata, che viene uccisa da una setta di uomini spietati, vicenda già trattata da M.me de Tencin e da Baculard d'Arnaud. Contro le remore di pedanti e misoneisti, il D. rivendicava il diritto di svincolarsi dall'imposizione della scansione in cinque atti (i Solitari ne contano solo quattro e nei successivi drammi questa misura sarà liberamente aumentata o diminuita). La prima rappresentazione dei Solitari fu riservata alla nuova redazione, in prosa per consiglio del Metastasio (1777) e privata del finale tragico, ma avvenne più tardi (1783), ritardo comprensibile trattandosi di un'operazione teatrale innovatrice, affidata a caratteristiche sceniche di un'ambientazione e di un paesaggio romanticamente lugubri, che traevano ulteriori risonanze dall'adozione, forse per la prima volta sulle scene, d'una musica suggestiva. Il commento musicale sottolineava, oltre alle famose pantomime fra gli atti, alcune situazioni nelle quali prevaleva l'aspetto mimico-gestuale, nonché i passaggi più intensi e patetici.
A causa delle sue precarie condizioni di salute, colto da febbri e sbocchi di sangue, il D. abbandonò definitivamente l'esercito. Gli fu concesso di usufruire della divisa e il poeta confermava incondizionatamente la sua fedeltà agli Asburgo, ligio ad una posizione conservatrice che orientò coerentemente tutta la sua avventurosa esistenza. L'appoggio della duchessa Serbelloni gli consentì probabilmente di entrare alla corte viennese, dove poté conoscere Metastasio, ottenendone consigli e protezione, ma a Vienna risiedé stabilmente solo a partire dal 1775. Questo periodo coincide con il momento iniziale della sua ascesa: nel 1772 il suo Lucio Silla, musicato da Mozart, fu rappresentato a Vienna e al teatro Ducale di Milano. L'anno seguente, con le musiche di un altro celebre compositore, J. Christoph Bach, il Lucio Silla era ascoltato nella versione tedesca a Mannheim, alla presenza dell'elettore palatino di Baviera e a Vienna alcuni nobili recitavano la tragedia Maria Stuarda. Nel 1773 fu stampato il primo dei sette volumi della Corneide, un poema eroicomico in ottave, di ibrida intonazione erotico-erudita, che divertì l'ottantenne Voltaire, il cui consenso spinse l'autore a comporre gli altri sei volumi dell'incredibilmente prolisso poema.
Nella Corneide l'autore si trasferisce oniricamente in un immaginario paese, ai cui lidi approdano grandi torme di cornuti di tutta la terra, parificati, umili e potenti, dalla comune condizione. Con intonazione e movenze parodisticamente dantesche è descritto l'incontro del poeta con Euripide, che gli sarà guida in questo nuovo campo eliso, primo d'una lunga galleria di cocus a partire dall'antichità classica, offrendo spunto a vicende boccaccesche imperniate sui temi dell'insaziabilità femminile e degli adulteri più ingegnosi. Il D. inserisce disinvoltamente nell'opera spunti seri e autobiografici, lettere di lode inviategli da personaggi famosi (dal Voltaire a Federico il Grande, all'amico Calzabigi) e anche interessanti aneddoti contemporanei di vita sociale e letteraria.
Nel 1775 il D. è finalmente poeta dei cesarei teatri, auspice il Metastasio, il quale tributava lodi eccessive all'abilità epica profusa dal D. in un mediocre poemetto in ottave, di tono encomiastico, scritto in onore di Giuseppe II, Il campo di Boemia, pubblicato a Vienna nel 1776 presso la Stamperia imperiale. Questo primo periodo viennese, pur tra i successi e le lodi, riservò al poeta risvolti amari poiché, prefigurando il suo ruolo esistenziale di vittima delle avversità, il D. si lamentava di congiure femminili ai suoi danni e della ingiustizia dei potenti. Fra il 1775 e il 1777 dovette far ritorno in Toscana in pessime condizioni, malato e pieno di debiti. A questo momento così drammatico risale la vicenda che imprimerà una sigla prevostiana dai risvolti demenziali alla sua esistenza: l'amore per la giovane livornese Teresa Calamai, celebrata nelle opere del D. con il nome anagrammato di Erseta. Il D. si ridusse a vivere per più di un anno in una soffitta di fronte alla casa di Teresa, per comunicare almeno con espedienti mimici con la fanciulla, la famiglia della quale negava risoluta il consenso al matrimonio. Ma il D. non esitava a far pubblicità del suo sventurato caso, parlandone nelle sue opere, facendo rappresentare in onore di Teresa alcuni suoi drammi proprio a Livorno (Il conte di Errera, 1777; Il Gonzalvo o sia Gli Americani, 1778; La tragedia in commedia, 1779). Mentre il D. si trovava a Napoli (dove si era recato una prima volta nel 1779 per occuparsi di un ambizioso progetto teatrale), la fanciulla, ammalatasi gravemente, lo richiamò a Pisa e morì poco dopo l'arrivo del D. (1781). Le poesie da lui scritte in onore di Teresa, alla cui morte non dovettero essere estranei i gravi conflitti familiari, furono raccolte nelle Lacrime dell'amicizia e della sensibilità sparse sul sepolcro di Teresa Calamai dai più celebri poeti d'Italia (Masi, 1891, p. 327).
In aggiunta a tutto questo, una nuova tragedia, Erseta e Roberto, adombrava la tragica conclusione del suo amore, coronando, coerentemente con la sensibilità panteatrale ed egotistica del D., la prima parte del suo dramma sentimentale. Ma trovandosi il D. in condizioni economiche sempre peggiori, oberato di debiti, affidò la risoluzione delle difficoltà, perlomeno di ordine economico, a un avvenimento imprevedibile: contrasse matrimonio, appena un anno dopo la morte di Teresa, con la pisana Anna Veraci, grazie alla cui dote estinse in parte un grosso debito nei confronti degli editori della Corneide. Le difficoltà dovevano però continuare se (da documenti sinora non conosciuti) risulta che nel 1784 il D. chiedeva di essere ammesso alla corte di Pietroburgo come poeta del maestro G. Sarti e aspirava ad una cattedra presso l'università di Pavia, tutte richieste che non furono accolte. Verso la fine del 1785 pensò alla realizzazione della sua idea di fondare un teatro stabile a Napoli, con l'appoggio di Ferdinando IV, il quale intendeva evidentemente contrapporsi ai Borboni di Parma, che incoraggiavano con famosi concorsi le nuove mode drammaturgiche flebili e lacrimose.
Il D., nel suo Piano per lo stabilimento del Novo teatro nazionale, affronta i problemi di ordine pratico relativi al vagheggiato teatro, stabilendo le sue numerose incombenze: scrivere nuovi drammi, fondare una scuola di recitazione ecc. Ma soprattutto, ormeggiando, anche se non lo cita, le teorie di Diderot nella Poésie dramatique, il D. raccoglie in otto articoli le sue osservazioni sulla teoria e sulla prassi drammaturgica, con particolare riferimento ai generi teatrali tradizionali (aggiungendovi la sua vantata "tragedia domestica pantomima"), alla recitazione degli attori, agli apparati scenici. Egli si appellava assiduamente a quei criteri di verosimiglianza e naturalezza che, a parte la più volte notata influenza di Diderot, contraddistinguevano la tradizione italiana, occorre ricordarlo, almeno a partire dalle teoriche rinascimentali di L. De Sommi, G. B. Cinzio, A. Ingegneri. Quanto alla "tragedia domestica pantomima", variazione della "tragedia borghese" o "urbana", il D. rileva l'inserzione da lui compiuta di una pantomima fra un atto e l'altro, sottolineata da una musica idonea, secondo una tendenza accentuata progressivamente, nel tentativo di inserire spunti mimici anche in situazioni dialogiche particolarmente espressive. Nella sua polemica riformistica, il D. supera implicitamente la posizione dei contemporanei I. Valdastri e A. Meneghelli, che, pur muovendo contro il principio di autorità, accettavano le canoniche unità aristoteliche, nonché dello stesso Diderot, estremamente cauto e moderato a questo proposito.
Convinto che gli esempi pratici valessero più dei programmi, il D., come saggio delle sue idee, fece rappresentare a Napoli varie sue opere: I due vedovi (1786), Le due spose (1786, tratto dalle Due regine, opera del mediocre commediografo francese J. C. Dorat), Il generoso inglese (1786), I due nipoti o L'uomo del secolo (1787), Il novo Tartufo (1787).
Lo sforzo, da parte del D., di aggiornare ed europeizzare la cultura itaiana, risulta evidente dalla eterogenea assunzione di modelli stranieri, segnalati puntualmente dallo stesso autore, con l'ostentata implicita convinzione di infondere una più convincente modernità alle opere riprese o contaminate. Sin dalla sua prima prova, I solitari, il D. si era orientato nell'area letteraria francese, estendendo le sue propensioni cosmopolite nella Madre colpevole (ispirato alla Mère coupable di Beaumarchais ma anche al George Barnewell di G. Lillo), che si dipana cupamente fra cumuli di delitti, temuti incesti, agnizioni incredibili. Il D. si rifà persino a un grande classico di Molière nel Novo Tartufo, rendendo il protagonista una specie di torvo Jago shakespeariano, il quale muore pugnalato da un novello, sanguinario Orgone, confessando in punto di morte le sue trame perverse. Altre volte le fonti risultano molto più modeste, come la menzionata tragedia Le due spose, un altro dramma truculento, imbastito sulla presunta morte di una fanciulla promessa sposa di un conte, alla quale si sostituisce sotto falso nome un'altra donna. Il suicidio del solito malvagio responsabile delle vicende (il maggiordomo del conte) chiude ovviamente la storia. Ma il D. non trascura i risultati del teatro tedesco più nuovo e avanzato, riproponendo nella Donna riconoscente, vicenda dell'eroina fedele fidanzata a un presunto disertore, la Minna von Barnhelm di Lessing.
Alla volontà di recepire l'insegnamento letterario straniero si contrappone il rifiuto oltranzistico delle matrici ideali e spirituali dei nuovi atteggiamenti letterari, che innesta una volontà di satira antilluministica in opere come il Parricida, in cui denuncia le nefaste conseguenze della filosofia d'Oltralpe. Il prototipo di un odioso e immorale "filosofo" lo incarna il conte di Castelnau (protagonista in Lo spirito forte o sia Il funesto accidente), che i vacui filosofemi non sottraggono alla nemesi implacabile: il conte, colpevole nei confronti della donna che lo ama sinceramente, muore avvelenato nella scena conclusiva del dramma. La prosecuzione ideale della posizione ideologica avvalorata in questi drammi si esprime esplicitamente con Ernestina e Ferdinando o sia Il trionfo della religione, tragedia che trae i suoi motivi da una opera né drammaturgica né narrativa bensì dalla Histoire ecclésiastique, la fortunata e discussa opera di C. Fleury. Ma non tutte le opere del D. sono a sfondo tragico e serio: nelle commedie riesce a congegnare meccanismi più vivaci dai risvolti comici, come nei Due vedovi, nel Sarto di Madrid e altrove. Nel Pallon volante, nonostante si parli dell'esito tragico della impresa in mongolfiera di I. F. Pilâtre de Rozier, il D. addita un esempio di comicità sana, aliena dalle deprecate sconcezze della commedia dell'arte.
Durante il periodo napoletano furono rappresentate anche opere musicali del D., come il Pirro, che fu ascoltato al S. Carlo con le musiche di Paisiello e nell'interpretazione del celebre tenore Giacomo David. Ma l'opera fu osteggiata e criticata e solo l'intervento del ministro D. Caracciolo permise di revocare una sospensione voluta dal re. Comunque, il teatro stabile del D., che si sarebbe dovuto aprire nella Pasqua del 1787, non fu mai fondato e l'autore dovette tornare a Pisa nel 1788, nuovamente in enormi difficoltà economiche. Nei soliti cenni introdotti nelle prefazioni delle sue opere, rimanda la risoluzione di questa e delle altre vicende fortunose della sua vita alle Memorie istoriche, che si riprometteva di far pubblicare postume, ma lo stesso D. molto probabilmente le fece sparire.
Per mezzo del carteggio col commediografo F. Albergati Capacelli (conservato nelle Carte Tognetti della Bibl. comunale di Bologna: cfr. ivi Notizie e scritti riguardanti F. Albergati), si appurano gli sconcertanti eventi posteriori alla morte di Teresa Calamai (Masi, 1881, pp. 283-89), che oltrepassano la misura consentita a un dramma larmoyant, per giungere a inquietanti eccessi di follia necrofila. La conoscenza più dettagliata di simili dati biografici si impone proprio per l'evidente connotazione osmotica che lega, in un ambiguo gioco di rispecchiamenti, i fatti esistenziali e le opere drammaturgiche del De Gamerra. In una lettera del 1790 egli svela all'Albergati l'impresa della riesumazione del cadavere di Teresa, che era stata sepolta nella chiesa di S. Casciano a Pisa, assecondato per due notti consecutive da amici fidati. Il corpo di Teresa, rimpolpato e rivestito, verrà chiuso in un "gran burò o scrivania", costante oggetto di baci e lacrime da parte del De Gamerra. Anche la storia del disseppellimento fu trasposta dal D. sulla scena dell'Intrapresa dell'amore, con esiti comprensibilmente inconditi e sconnessi di goticità orripilante.
Il D. non mancò di partecipare letterariamente ai gravi avvenimenti storici a lui contemporanei, effondendo gli spiriti controrivoluzionari nella Batavia e la Belgia liberate (1793), poema eroico in ottava rima diviso in sette canti, in cui attacca polemicamente le conseguenze degli eccessi rivoluzionari del 1789, celebrando i successi austriaci negli insorti Paesi Bassi.
Nel poema, considerato precorritore della Bassvilliana del Monti, il D. trova modo di chiedere perdono al papa delle passate licenziosità letterarie, pregandolo di accettare "ciò che l'adulta Prostrata Musa a te tributo dona" (canto VII). In questo periodo il D. fu avversario accanito di un gruppo di progressisti pisani che facevano capo ai Polentofagi, i cui esponenti più in vista erano S. De Coureil e D. Batacchi, al quale si deve una novella spietatamente ironica contro il D., Mercurio e le ombre.
Ad ogni modo la vena di cantore controrivoluzionario alimentava nuove opere: oltre al Ritorno di Ferdinando III, compose il Coburgo (1795), il Nelson (1798), la Sacra memoria di Paolo I di Russia (1799), la Conquista di Cuneo. Questo impegno a sfondo ideologico meritava da parte degli Asburgo un compenso, sicché il D. poté tornare a Vienna nel 1793 come poeta del teatro imperiale. Secondo L. Da Ponte, il D. - "famoso, mercadante di corna" - fu chiamato come coadiutore del poco solerte G. Casti, il quale sarebbe stato poi costretto ad andarsene dalla corte per le accuse politiche mossegli dallo stesso De Gamerra. Tuttavia il Masi (1891, pp. 341 s.) ha dimostrato, sulla scorta di dati cronologici, la loro infondatezza. Nonostante i tentativi e le richieste che il D., perennemente in ristrettezze economiche, non lesinava in simili circostanze, non riuscì a diventare poeta cesareo. Ma l'imperatore concesse egualmente al poeta, malato e invecchiato precocemente, una pensione, così come aveva fatto per il Casti. Da una supplica del 1801 si appura che il D. aveva due figlie e che era diviso da A. Veraci, sua moglie.
Il periodo compreso tra il 1794 e il 1801 fu egualmente molto fecondo, poiché il D. compose altre dieci opere per musica.
Il D. morì il 29 ag. 1803 a Vicenza, dove si era stabilito per ragioni ignote.
Per quanto concerne le opere musicali, occorre rilevare la presenza, sinora non segnalata, di vistosi mutamenti redazionali subiti da alcuni libretti: il Medonte, cantata a cinque voci (anonimo in un'edizione del 1782) costituisce il nucleo originario, conservando inalterati solo alcuni passaggi, del Medonte re di Epiro (i tre atti sostituiscono le due parti della cantata), ristrutturato con un maggior numero di personaggi e quindi di situazioni narrative e sceniche. Il finale tragico della cantata viene eliminato, optando per la soluzione lieta nell'ultima versione della vicenda, che trasfonde tinte shakespeariane in una vicenda ambientata nell'antichità. Anche il libretto Erifile è caratterizzato dall'inserimento di numerose varianti.
Si completa l'indicazione delle fonti drammaturgiche (per quelle utilizzate con esplicita dichiarazione dell'autore), menzionando la Clarissa di S. Richardson, utilizzata dal D. per dar vita alla tetralogia Angelica perseguitata, Angelica fuggitiva, Angelica tradita, Angelica vendicata; Il padre di famiglia è desunto dal dramma omonimo di Diderot, con le caratteristiche, ipertrofiche variazioni tipologiche apportate dal De Gamerra. In Zeila o sia L'assedio di Algeri, viene ripresa la storia della selvaggia Jarico e del cittadino inglese Thomas Inkle, pubblicata dettagliatamente nello Spectator inglese. Un'altra opera, Il generoso inglese, comparve sulle scene con diversi titoli: Il generoso olandese, l'Errichetta ed Il francese in Amsterdam.
Edizioni: le opere del D. furono stampate a Pisa tra il 1789 ed il 1790 negli otto voll. del Novo teatro (contenenti trentadue drammi), con la prefazione costituita dal Piano per lo stabilimento del novo teatro nazionale. Un'altra edizione complessiva in diciotto volumi venne curata a Venezia presso G. Storti nel 1790-91.
Fonti e Bibl.: Nuovi documenti relativi al D.: due lettere, inviate molto probabilmente al governatore di Lombardia e un carteggio giudiziario riguardante gli strascichi legali della vicenda di Teresa (copie reperibili nella romana Bibl. teatrale del Burcardo di due lettere del D. conservate nell'Arch. di Stato di Milano, Autografi, cart. XIX e di cinque lettere dell'Arch. di Stato di Pisa, Carte dell'Auditore del Commissario). Dalle lettere del D., del 1784, si ha notizia di sue tragedie inedite: Oreste, Medea, Ifigenia in Aulide. V. inoltre: L. Da Ponte, Memorie, a cura di G. Gambarin-F. Nicolini, I, Bari 1918, p. 266; P. Metastasio, Epistolario, in Opere, a cura di B. Brunelli, V, Milano 1954, pp. 258 s., 266 s., 459 464, 516, 544 s.; Novelle letterarie di Firenze, XLIX (1789), pp. 178 s.; S. de Sismondi, Della letteratura italiana, II, Milano 1820, pp. 171 s. (contiene un breve, sfavorevole giudizio sull'imitazione della maniera shakespeariana); F. Pera, Ricordi e biografie livornesi, Livorno 1867, pp. 271 ss. (riporta scarse e talora malsicure notizie); A. Battistella, Il dramma lacrimoso in Italia, Treviso 1879; E. Masi, G. D. o il segreto d'un cuor sensibile, in Studi e ritratti, Bologna 1881, pp. 265-99 (riporta la lettera del 5 luglio 1790, riguardante il disseppellimento di Teresa Calamai); F. Pera, Curiosità livornesi inedite o rare, Livorno 1888, pp. 328, 431 s.; E. Masi, G. D. e i drammi lagrimosi, in Sulla storia del teatro ital. nel sec. XVIII, Firenze 1891, pp. 281-354 (è un notevole ampliamento, sulla scorta di nuovi documenti, del saggio precedente), F. Tribolati, Saggi critici e biogr., Pisa 1891, pp. 108 s. (accenni alla Corneide e lettera del Voltaire); E. Maddalena, Di G. D. e dei drammi lacrimosi, in Il Cimento, IV (1912), pp. 5 ss.; G. Mazzoni, L'Ottocento, I, Milano 1913, pp. 145 s. (cita il D. come antesignano in Italia nella diffusione della prassi recitativa "naturalistica" della famosa attrice Clairon, anche se, come si è detto, le matrici culturali sono di altro genere); B. Croce, I teatri di Napoli, Bari 1916, pp. 227 s., 264 s. (segnala un esemplare del Corsaro di Marsiglia esistente nella sua biblioteca, censurato con maniacale puntigliosità da G. Lorenzi per una rappresentazione avvenuta nel 1798, in clima postrivoluzionario. Croce parla erroneamente di "pantomima mescolata al ballo", a proposito della "tragedia domestica pantomima"); S. Gugenheim, Drammi e teorie drammatiche del Diderot e loro influenza in Italia, in Etudes italiennes, III(1921), pp. 162 ss.; C. Ricci, Un terribile segreto scoperto a Londra, in Il Giornale d'Italia, 5 febbr. 1922 (segnala il ritrovamento di un pregevole mobile d'antiquariato contenente uno scheletro femminile, collegandolo al macabro episodio del D.); B. Croce, La trilogia di "Adelaide e Commingio", in La Critica, XXVI (1928), p. 374; G. Natali, Il Settecento, I, Milano 1929, pp. 924 ss., 1069 s.; E. Levi Malvano, La fortuna d'una teoria drammatica, in Giorn. stor. d. letter. ital., CV (1935), p. 98; I. Sanesi, La commedia, II, Milano 1935, pp. 442-46, 736; L. Derla, G. D., G. A. Gualzetti e il "Comte de Comminge", in Aevum, XXXIV (1960), pp. 316, 319-39; Enc. d. Spettacolo, IV, coll. 334 ss. (indispensabile per un elenco esauriente delle opere drammaturgiche e musicali).