Medici, Giovanni de’
Giovanni de’ Medici (Giovanni dalle Bande Nere) nacque a Forlì il 6 aprile 1498 da Caterina Sforza, figlia illegittima del duca di Milano Galeazzo Maria e signora di Imola e Forlì, e dal suo terzo marito, Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, detto il Popolano, giunto alla sua corte nel 1496 come ambasciatore della Repubblica fiorentina.
Battezzato con il nome di Ludovico, il 14 settembre 1498, dopo l’improvvisa morte del padre, Giovanni ne assunse il nome per volontà della madre. Alla fine del 1499, alla vigilia dell’attacco delle forze franco-papali guidate da Cesare Borgia, Caterina inviò Giovanni a Firenze, dove lo raggiunse nel luglio del 1501 perché costretta nel frattempo dai Borgia a rinunciare a ogni pretesa su Imola e Forlì. Nel 1503 vinse la dura battaglia legale contro il cognato, Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, per ottenere i beni ereditati dal defunto marito e la custodia del figlio, che da Lorenzo fu rapito e rinchiuso nel convento di S. Vincenzo Annalena, nel quartiere d’Oltrarno, dove rimase fino alla morte dello zio (20 maggio 1503). Caterina poté quindi dedicarsi all’educazione di Giovanni, sforzandosi di trasmettergli i valori della nobiltà militare italiana alla quale ella apparteneva. Caterina morì il 28 maggio 1509; poco prima lo affidò alla tutela di Iacopo Salviati, membro di una delle famiglie più antiche e potenti di Firenze, e di sua moglie Lucrezia de’ Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico. Giovanni, che sin dall’infanzia aveva dimostrato un temperamento violento e insofferente all’autorità, solo in parte frenato dalla forte figura materna, divenne un adolescente rissoso e dissoluto, amante delle armi, del gioco e delle donne, costretto per lunghi periodi lontano da Firenze nelle sue proprietà di Castello e di Trebbio a causa delle sue intemperanze.
Nel 1512 i Medici tornarono al potere a Firenze e, grazie alla guida e alla protezione dei Salviati, Giovanni – sebbene appartenesse al ramo cadetto della famiglia che aveva appoggiato la cacciata di Piero di Lorenzo de’ Medici nel 1494 – non tardò a trovare una collocazione adatta alla propria indole e alle proprie aspirazioni nel contesto del nuovo regime mediceo. In effetti, egli avrebbe vissuto quasi per intero la sua breve vita adulta combattendo al servizio del blocco di potere che si era creato tra l’élite finanziaria fiorentina e i papi della famiglia Medici, Leone X e Clemente VII.
Giovanni ebbe il battesimo del fuoco e il suo primo vero comando – una compagnia di cavalleria – durante la cosiddetta guerra di Urbino (1516-17), voluta da Leone X per spogliare il duca di Urbino Francesco Maria I Della Rovere del suo Stato e del titolo e darli al proprio nipote, Lorenzo di Piero de’ Medici. Nel 1517 Giovanni sposò la figlia di Iacopo Salviati e di Lucrezia de’ Medici, Maria. Da questa unione nacque, il 15 giugno 1519, il loro unico figlio, Cosimo, futuro duca di Firenze. Tra il 1519 e il 1520, Leone X si servì di Giovanni e delle sue truppe per riaffermare con le armi l’autorità papale su alcuni degli elementi più riottosi della nobiltà dello Stato della Chiesa. Risale a questo periodo la maggior parte degli episodi di violenza, dei duelli e delle risse – sia a Firenze sia a Roma – per cui Giovanni sarebbe poi rimasto famoso. Nel 1521 partecipò all’invasione del ducato di Milano, allora sotto il controllo della Francia, congiungendosi alle forze imperiali e papali comandate da Prospero Colonna.
La campagna del 1521 costituì il primo assaggio di guerra vera per Giovanni, che fino a quel momento aveva partecipato a conflitti di dimensioni limitate. Nel corso della sua breve carriera, egli si distinse per l’abilità e l’aggressività con le quali riusciva a sfruttare le potenzialità della cavalleria leggera (sia lancieri sia archibugieri a cavallo) e della fanteria tattica, composta da insiemi organici di picchieri e tiratori, in un periodo di transizione delle tecniche di combattimento.
Il 21 dicembre 1521 Leone X morì all’improvviso, privando Giovanni del suo principale referente politico in un momento critico per la sua carriera. Ai primi del 1522 fu nominato governatore delle truppe della Repubblica fiorentina, i cui confini erano resi malsicuri dalle conseguenze politiche e militari della repentina eclissi del potere mediceo a Roma. Nel marzo dello stesso anno però Giovanni, spinto dalla scarsa considerazione mostrata nei suoi confronti sia dagli imperiali sia dai Medici, decise di accettare le generose offerte che gli venivano fatte dal campo francese. Le modalità dell’improvviso cambio di bandiera nocquero gravemente alla sua reputazione di condottiero, provocando tensioni e spaccature tra i suoi uomini: Giovanni e i suoi si collocarono dunque dalla parte delle forze perdenti nella sanguinosa battaglia della Bicocca (27 apr. 1522), in seguito alla quale la Francia si vide sfuggire di mano ancora una volta il controllo del ducato di Milano. Giovanni passò quindi al servizio del duca di Milano Francesco II Sforza, del quale era parente per via materna, firmando una condotta per due anni.
Risalgono a questo periodo i tentativi di Giovanni di costituirsi un proprio Stato. Comprò Aulla in Lunigiana, entrando subito in contrasto con la potente famiglia Malaspina, e agì da protettore dei possedimenti della sorellastra Bianca Riario nel territorio di Reggio Emilia. Fu però costretto a rivendere Aulla nel 1525, e anche i suoi lunghi periodi di permanenza a Fano non si tradussero in nulla di concreto. In effetti, i titoli e le terre assegnati a Giovanni nel corso della sua breve carriera andarono tutti perduti nel vortice politico e militare delle guerre d’Italia.
Alla fine del 1523 Giovanni, che militava nel campo imperiale, si distinse con i suoi nella vittoriosa difesa di Milano assediata dall’esercito francese. Nell’aprile 1524 costrinse a tornare sui loro passi cinquemila fanti svizzeri discesi dalla Valtellina per soccorrere i francesi.
Conclusesi le operazioni in Lombardia con un’altra sconfitta per la Francia, Giovanni tornò al servizio degli interessi del ramo principale della famiglia Medici, il cui potere era di nuovo saldo sia a Firenze sia a Roma in seguito alla morte di Adriano VI (14 sett. 1523) e all’elezione del cardinale Giulio de’ Medici a papa con il nome di Clemente VII (19 nov. 1523). Seguendo l’orientamento filofrancese del nuovo pontefice, nel dicembre 1524 Giovanni, alla testa di duemila fanti e circa duecento cavalleggeri, si unì all’esercito francese che assediava Pavia, dove si erano ritirate le truppe imperiali sotto il comando di Antonio de Leyva. Ferito gravemente alla gamba destra da un colpo di archibugio il 20 febbraio 1525 durante una scaramuccia sotto le mura della città assediata, fu costretto a lasciare il campo per farsi curare adeguatamente, e non partecipò alla battaglia di Pavia (24 febbr.), che si concluse con la disfatta dell’esercito francese e la cattura dello stesso re Francesco I. Indebolite dalle perdite sostenute durante l’assedio e prive del loro capo, nel corso della battaglia le truppe di Giovanni furono travolte e disperse dalla sortita della guarnigione di Pavia.
Il rovinoso crollo delle fortune francesi in Italia seguito alla sconfitta di Pavia e la minaccia dell’affermarsi dell’egemonia asburgica sulla penisola provocarono la formazione della lega antimperiale di Cognac, siglata il 22 maggio 1526. Giovanni fu nominato capitano generale della fanteria italiana dell’esercito della lega destinato a scacciare gli imperiali dal ducato di Milano. Il 20 settembre 1526 i filoimperiali Colonna e i loro partigiani penetrarono a sorpresa in Roma, obbligando con le armi Clemente VII a ritirarsi dalla lega per quattro mesi. Per mantenere il proprio comando Giovanni, che era soldato del papa, si trovò quindi ancora una volta a passare al soldo del re di Francia. La situazione di sostanziale stallo della guerra in Lombardia seguita alla forzata, seppur momentanea, neutralità di Clemente VII, fu rotta dalla calata dal Tirolo di dodicimila fanti tedeschi reclutati e guidati da Georg von Frundsberg, che arrivarono il 21 novembre a Castiglione delle Stiviere dopo aver superato le difese dei valichi alpini predisposte dall’esercito veneziano. Per impedire il congiungimento dei lanzichenecchi di Frundsberg con le residue forze imperiali comandate dal duca Carlo di Borbone, già connestabile di Francia, Francesco Maria I Della Rovere, capitano generale della lega in Italia, decise di seguire il consiglio di Giovanni, lasciando le truppe francesi e svizzere a presidiare il campo fortificato presso Vaprio d’Adda, posto a copertura di Milano, e muovendosi con le truppe più mobili della lega, cioè la cavalleria e la fanteria italiane, per intercettare i tedeschi prima che potessero attraversare il Po e rompere così il contatto con le forze della lega. L’azione delle truppe italiane, guidate personalmente da Giovanni con la consueta aggressività, fu di particolare efficacia, e stava cominciando a dare i primi risultati quando, il 25 novembre, alla conclusione di uno scontro con la retroguardia dei lanzichenecchi a Governolo (alla confluenza del Mincio nel Po, nel marchesato di Mantova), Giovanni fu colpito da un colpo di falconetto che gli fracassò il femore della gamba destra. Trasportato tra molte difficoltà a Mantova, nel palazzo del suo amico e compagno d’armi Luigi Gonzaga, il ritardo nei soccorsi e la gravità della ferita resero vana l’amputazione dell’arto leso, eseguita dal celebre medico ebreo mastro Abramo. Giovanni morì a Mantova nella notte tra il 29 e il 30 novembre 1526.
All’epoca dei fatti ci fu chi insinuò il dubbio che mastro Abramo avesse in qualche modo causato la morte di Giovanni dietro istigazione del marchese di Mantova Federico II Gonzaga, che, oltre a essere in trattative con gli imperiali, era stato uno dei numerosi nemici personali di Giovanni. Tuttavia la morte, qualunque ne sia stata la causa effettiva, rappresentò il vero punto di inizio del mito di Giovanni.
La prima testimonianza machiavelliana su Giovanni ci viene da due lettere inviate alla Signoria di Firenze durante la legazione del luglio del 1499 presso Caterina Sforza Riario, signora di Imola. Nella prima di queste, inviata da Forlì il 22 luglio, M. sostiene che tra le ragioni che lasciavano presupporre una benevolenza di Caterina nei confronti di Firenze (M. era impegnato in quei giorni a ottenere da Caterina aiuti militari contro Pisa) vi era quella di aver partorito un figlio da Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici («avendo uno figliolo di Giovanni de’ Medici e sperando lo usufrutto de beni suoi», LCSG, 1° t., p. 291). Nella lettera del giorno seguente il piccolo viene chiamato con il nome di «Lodovico»:
Madonna non mi aveva proprio ore fatto intendere lo animo suo, allegando sua Signoria essere indisposta e in malissima contentezza per la malattia grande in cui è incorso Lodovico figliolo suo e di Giovanni de’ Medici (p. 293).
La successiva testimonianza di M. risale al marzo del 1526, nelle settimane in cui Francesco Guicciardini era impegnato per conto di Clemente VII nella formazione della lega di Cognac, destinata a opporsi all’imperatore Carlo V. Proprio a Guicciardini M. scrive il 15 marzo 1526 da Firenze offrendo un quadro della situazione politica e militare venutasi a creare dopo la pace di Madrid del gennaio del 1526 tra Francesco I e Carlo V, con un ventaglio di ipotesi possibili sull’immediato futuro. Qui incontriamo una ponderata, ma accorata riflessione sui gravi rischi ai quali era esposta l’Italia per le probabili incursioni delle truppe imperiali (poi realmente verificatesi nei mesi successivi). È in questo contesto di mobilitazione armata, contraria a ogni attesa passiva e al fidarsi nel soccorso straniero («Pertanto io giudico che non sia da differire lo armarsi, né che sia da aspettare la resoluzione di Francia»), che M. individua in Giovanni l’unico condottiero italiano in grado di fermare le truppe di Carlo V:
Ciascuno credo che creda che fra gli italiani non ci sia capo, a chi li soldati vadino più volentieri dietro, né di chi spagnuoli di più dubitino e stimino più: ciascuno tiene ancora il signor Giovanni audace, impetuoso, di gran concetti, pigliatore di gran partiti; puossi adunque, ingrossandolo segretamente, fargli rizzare questa bandiera (Lettere, p. 421).
L’elogio di Giovanni costituisce un’estrema riproposizione del mito borgesco, con una rivisitazione dell’Exhortatio contenuta in Principe xxvi.
Bibliografia: M. Arfaioli, Medici Giovanni de’ (Giovanni dalle Bande Nere), in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 73° vol., Roma 2009, ad vocem (con riferimenti alle fonti e alla letteratura critica).