CARIOLA (Carriola, Carrettola), Giovanni della
Se ne ignorano il cognome ("della Carriola" è un evidente soprannome relativo al veicolo col quale o sul quale, se storpio, si spostava), il luogo e la data di nascita precisi. Si sa che fu poeta popolaresco e cantastorie attivo a Napoli tra la fine del XVI e l'inizio del XVII sec. Ad attestare la notevole consistenza della sua fama, il suo nome ricorre nelle maggiori opere dialettali napoletane dei primi decenni del Seicento: nel Micco Passaro di G. C.Cortese, accostato con intenti ironici a quello del Tasso (e tale contiguità, anche se volutamente paradossale, resta degna di nota), nel LoCunto de li cunti di G.B. Basile, significativamente primo nella triade dei principali "cantature" di Napoli che l'Orca del racconto Le tre corone (iornata IV, trattenimiento VI) invoca nel suo giuramento, e nella Tiorba a taccone, ilcanzoniere dell'enigmatico F. Sgruttendio, inserito in elenchi di cantastorie ormai scomparsi, rievocati con tono di affettuosa nostalgia.
Il C. risulta autore di tre brevi componimenti in ottave: la Favola bellissima dimandata sdegno d'amanti, La morte di Martia Basile napolitana, e il Dialogo tra un povero di campagna et un ricco della città.Ilsecondo dei tre poemetti fornisce un'utile indicazione cronologica trattando di un episodio realmente accaduto a Napoli nel 1603 (come Benedetto Croce poté provare attraverso documenti, l'esecuzione di Marzia avvenne il 7 aprile di quell'anno) ed essendo verosimilmente stato scritto "a caldo", è anche il solo nel quale compaia il nome dell'autore a mo' di firma nel testo stesso che termina con i versi: "Et io Giovanni della Cariola / fermo la penna, inchiostro, e la parola".
Meno diffusa degli altri - se ne conoscono solo poche edizioni seicentesche: la prima del 1610 (Venezia, Bonfadino), le altre della fine del secolo - la Favola bellissima dimandata sdegno d'amanti ècomposta di ventidue ottave ("amanti" è singolare e la forma si spiega con l'ambientazione siciliana della vicenda: "successo in Palermo" è detto nel frontespizio). Vi si tratta di un giovane che, a causa di un torto subito dalla propria donna, non vuole più esserle devoto: trascinato in tribunale, resiste alle minacce del giudice nonché alle torture e, condannato a morte, affronta gioiosamente il supplizio piuttosto che recedere dal proprio sdegno. Costruito tutto sulla dimostrazione della potenza dello "sdegno" astrattamente considerato - non viene specificato infatti il motivo del risentimento del protagonista - il poemetto riprende, a livello popolaresco, il tema dello "sdegno amoroso" presente nei coevi canzonieri (vedi, per esempio, sotto questo titolo, alcuni sonetti di Orazio Comite, Rime, Napoli 1616, pp. 17, 34, 35, 91). L'alternarsi delle battute durante il processo fra il giudice e l'accusato, mentre gli astanti commentano, assume struttura teatrale; nel curioso epilogo, di sapore medievale, alla morte dell'uomo echeggia ancora la frase che egli ha ripetuto durante tutta la vicenda: "mai più non l'amerò quant'aggio amato" (è il verso conclusivo di ogni ottava), e queste stesse parole i presenti troveranno impresse nel suo cuore. Risalta, nella fattura rozza, l'insistenza sui dettagli truculenti del supplizio, di sicuro effetto che è caratteristica comune anche all'altro più notevole componimento: La morte di Martia Basile napolitana, drammatico resoconto dell'uxoricidio di una giovane napoletana, dietro istigazione del suo amante, della scoperta del crimine, della condanna e dell'esecuzione della colpevole e dei suoi complici (la servitrice e un sicario). Se ne conoscono una dozzina di edizioni, alcune delle quali seicentesche - la prima è del 1624 ("in Napoli e in Viterbo", s. ed.) -, ottocentesche, e, numerose, le più recenti; consta di cinquantuno ottave (in qualche stampa cinquantadue). L'intento educativo e moralistico della narrazione è appena accennato e confinato nell'ottava conclusiva; il racconto, puntando a suscitare nel pubblico le emozioni più forti, insiste sui momenti di maggiore violenza, come il delitto e l'esecuzione dei colpevoli. In questa scelta dell'effetto facile ha modo di manifestarsi anche qualche pregio, come il realismo descrittivo, nella sua vivace crudezza prossimo a certi gusti iconografici della coeva pittura, e lo studiato rallentamento finale che prolunga l'attesa incerta dell'epilogo facendo talora balenare la possibilità di una grazia e descrivendo il tragitto dei rei verso il patibolo attraverso la città e l'alternarsi di disperazione, rassegnazione e speranza nell'animo di Marta, non senza una pietosa partecipazione.
Del Dialogotra un povero di campagna et un ricco della città sono conosciute una ventina di edizioni, quasi tutte ottocentesche, mentre la più antica è dell'anno 1625 (Terni, Guerrieri); il poemetto consta di trentasei (a volte trentasette) ottave, ed è costruito sul confronto fra un gentiluomo cittadino e un pastore. La struttura dialogica e la presenza di didascalie (più o meno numerose nelle varie edizioni) conferiscono un andamento rappresentativo-teatrale anche a questo componimento, nel quale il povero dimostra al ricco la superiorità di una vita semplice, attenta alle cose essenziali, condotta in armonia con le leggi divine e che si svolge al riparo dei rovesci della fortuna, senza l'assillo della ricchezza o della roba da accrescere e salvaguardare.
La scarsa consistenza dell'impronta dialettale, reperibile, anche nelle più antiche edizioni, solo in alcune caratteristiche marginali della veste linguistica, indica che probabilmente i componimenti nacquero destinati a un pubblico popolaresco assai vasto e non specificamente napoletano o meridionale (ciò ha recentemente suggerito a E. Malato l'ipotesi che a un'altra produzione, dialettale, oggi ignota, fosse legata la fama largamente documentata del C. come "cantatore"). Va comunque notato che il genere "popolaresco", sottraendo i testi a qualsiasi scrupolo di trasmissione fedele, e motivandone anzi la peregrinazione nei secoli di città in città (che non poco incide appunto sull'assetto testuale), ha determinato numerose alterazioni nelle più diffuse edizioni ottocentesche. Malagevole, di conseguenza, un esame stilistico; attraverso il quale è tuttavia dato cogliere, specialmente in alcuni punti di La morte di Martia Basile napolitana, al di là dell'espressività popolaresca, la presenza di una cultura letteraria di qualche consistenza, non ignara di modelli narrativi colti e, tra questi, delle ottave ariostesche ormai diffuse in tutt'Italia fino ai più larghi strati sociali.
Fonti e Bibl.: A quanti sinora si sono occupati del C. erano rimaste ignote le stampe più antiche dei tre poemetti (in particolare F. Novati aveva dato un elenco di edizioni che un'indagine limitata ai cataloghi della Vaticana, della Nazionale di Parigi e del British Museum consente di triplicare): queste permettono, oltre alla lettura di un testo più attendibile e alla correzione dei titoli, qui in forma alquanto diversa da quella proposta dal Novati e comunemente accettata, anche il superamento della questione "Carriola-Carrettola" (quest'ultima è l'unica forma presente nelle edizioni tarde) che allo stesso studioso aveva posto difficoltà insormontabili circa l'identità dell'autore e aveva suscitato l'ingegnosa, ma infondata soluzione di F. Russo.
G. C. Cortese, Micco Passaro innamorato, Napoli 1633, p. 20 (II, 28); G. B. Basile, Lo Cunto de li cunti overo lo trattenimiento de peccerille, Napoli 1644, p. 482 (IV, 6); F. Sgruttendio, La tiorba a taccone, Napoli 1646, pp. 5 (corda I, sonn. 8-9), 95 (corda VII, "A lo dottore Chiaiese"); R. D'Ambra, Vocabolario napolitano-toscano, Napoli 1873, p. 106 (sub v.Carriola); F. Novati, G. d. C. Un cantastorie napoletano del sec. XVI ed i suoi "Contrasti", in Il libro e la stampa, VIII (1914), 6, pp. 148-65; F. Russo, Uncantastorie napoletano del Cinquecento, Napoli 1915; B. Croce, G. d. C. e la sua "Storia di Marzia Basile", in Aneddoti di varia letter., Bari 1953, II, pp. 83-96; E. Malato, La poesia dialettale napoletana, I, Napoli 1960, pp. 102, 105 s.; A. Altamura, I cantastorie e la poesia popolare ital., Napoli 1965, pp. 8, 119-34.