GIOVANNI di Balduccio (o Balducci)
Scultore-architetto pisano attivo in Toscana e in alcune città dell'Italia settentrionale dal 1318 al 1350 circa.L'educazione di G. è da situarsi in primo luogo nei cantieri seguiti dall'Opera del duomo di Pisa, al cui servizio l'artista, nato forse nei primissimi anni del secolo, dovette entrare giovanissimo, nel periodo immediatamente successivo al definitivo allontanamento dall'istituzione e dalla scena artistica cittadina di Giovanni Pisano e di Tino di Camaino. Nell'ambiente pisano ruotante intorno alla figura di Lupo di Francesco, per molti versi ancora da mettere in luce compiutamente, G. effettuò il proprio apprendistato, secondo quanto testimoniato dalle fonti e dalla presenza di sculture riconducibili all'artista sull'esterno di due monumenti condotti da tale équipe intorno al 1320: il Camposanto e l'oratorio di S. Maria della Spina. Nel primo caso è forse possibile avvicinare a G. gli angeli-telamoni del portale maggiore (Novello, 1990), mentre per quanto riguarda il piccolo edificio sull'Arno è stata da tempo riconosciuta allo scultore (Carli, 1943) una Madonna con il Bambino entro tabernacolo, in parte basata su modelli iconografici giovanneschi ma già del tutto autonoma come resa plastica, anche rispetto al meno distante Tino, con una semplificazione formale e un trattamento caratteristicamente appiattito delle superfici, ma con una naturalistica, ampia morbidezza di modellato e una pienezza plastica, evidente in particolare nei volti, che sarebbero rimasti a qualificare in ogni periodo lo stile dell'artista.Al 1327-1328 risale la più antica opera firmata, al contempo prima importante commissione a G.: il monumento sepolcrale di Guarnieri degli Antelminelli, sfortunato ultimogenito di Castruccio vissuto solo pochi anni e premorto al padre, certamente compiuto dopo la scomparsa del signore lucchese, nel 1328, come prova il testo dell'epigrafe (Sarzana, S. Francesco). Si tratta di una tomba pensile ad arca di ridotte dimensioni ma di struttura tipologicamente completa, con il piccolo sarcofago, sul quale trova posto una tripartita Pietà con dolenti intercedenti, sormontato dalla figura del bambino giacente, svelato da due angeli reggicortina. Al di sopra, entro tabernacolo, si trovava una Madonna con il Bambino (Filadelfia, Mus. of Art, Johnson Coll.; Valentiner, 1927). Sul timpano, incentrato su un Redentore benedicente, trovano posto angeli oltre a insistiti elementi araldici volti a richiamare l'attenzione sulla dignità di vicari imperiali della famiglia e a ribadirne così il prestigio in anni di rapida decadenza politica.Stilisticamente non dissimili dalle sculture sarzanesi, i tre angeli reggicortina a Genova (Mus. di S. Agostino) sono quanto sopravvive di due monumenti funebri, forse provenienti dalla distrutta chiesa di S. Francesco di Castelletto, pure verosimilmente risalenti alla fine del terzo decennio del Trecento (Seidel, 1975-1977).Ancora al periodo pisano dell'artista vanno ascritti i capitelli a lui recentemente attribuiti (Seidel, 1975-1977), provenienti dal distrutto chiostro del convento domenicano di S. Caterina a Pisa (Mus. dell'Opera del Duomo; Francoforte sul Meno, Liebieghaus), di disuguale livello qualitativo, dei quali soprattutto quello a Francoforte mostra ariose testine di indubbia paternità balduccesca, ispirate ad alcune figure di Giovanni Pisano ma con occhi a mandorla vivacizzati da iridi a pasta di piombo, già viste per es. a Sarzana, che ripropongono una felice e tradizionale particolarità della scultura romanica - si pensi anche solo ai Bigarelli - e voluminose e mosse capigliature occhiellate al trapano.Ad anni non lontani dall'esperienza di Sarzana deve rimontare la tomba familiare dei Baroncelli, in Santa Croce a Firenze, parte della cappella la cui decorazione, iniziata nel 1328 (1327 secondo lo stile fiorentino), doveva comprendere il polittico giottesco e gli affreschi di Taddeo Gaddi con Storie della Vergine. Rispetto al monumento lunigianese, si assiste a una netta evoluzione verso un pittoricismo che avrebbe svolto un ruolo costitutivo nella cultura iconografica e stilistica dell'artista, testimoniato dalla minuzia decorativa delle parti architettoniche, dalle colonne tortili riccamente ornate, dalla resa morbida e piatta dei panneggi, ma anche dall'inserimento di lunette a fresco e dalla policromatura che doveva forse interessare tutta l'opera (Novello, 1990). Per quanto strutturalmente simile alla tomba Antelminelli, il monumento funerario fiorentino costituisce probabilmente il prototipo di arca 'passante', ossia visibile e decorata sui due lati, peculiarità che la particolare posizione del sepolcro Baroncelli, sul tramezzo che separa la cappella dal transetto della chiesa, fa ritenere semplice ma geniale soluzione sperimentata qui - e subito copiata nella cappella controlaterale - per ovviare alla carenza di spazio e alla problematica visibilità che il monumento avrebbe avuto se posto all'interno della cappella, arretrata e angolata rispetto alla visione dal transetto.Serenità e naturalismo nei volti sicuramente plasmati da G., che iniziò qui a servirsi con frequenza di aiuti, avvicinabili agli esiti formali della pittura della scuola giottesca non meno delle coeve realizzazioni di Andrea Pisano, allontanano lo scultore dal ricordo dell'intensità patetica - se non della mai raccolta drammaticità - giovannesca, e si accordano agli stessi elementi tipologici e compositivi dello scheletro architettonico del monumento, ricavati da pregresse opere tinesche, come la tomba del cardinale Riccardo Petroni nel duomo di Siena o lo stesso monumento di Gastone della Torre, parimenti in Santa Croce, come del resto già convincentemente stabilito dalla critica.Ricordi campionesi riaffiorano nell'elegante pulpito di S. Maria del Prato a San Casciano in Val di Pesa, nel Chianti fiorentino. E ciò tanto nelle rigorose cornici marmoree bicrome, quanto nella spaziatura e, in parte, nella scelta dei soggetti iconografici. Il pulpito, che schematicamente richiama il precedente fiorentino di S. Pier Scheraggio, di mano ticinese, presenta anteriormente una bipartita Annunciazione, come già l'opera di Giroldo da Como (v.) a San Miniato (Mus. Diocesano d'Arte Sacra). Sui fianchi le due figure dei Ss. Domenico e Pietro martire testimoniano il legame del pulpito con l'Ordine dei Domenicani, cui l'edificio infatti apparteneva. A fronte degli elementi retrospettivi dell'opera stanno due importanti novità, che rappresentano il principale motivo di interesse di questo episodio di scultura e ne fanno una delle meglio riuscite testimonianze dell'arte balduccesca: il respiro pacato e nobilmente classico che l'intera composizione emana, alimentato da un coerente pittoricismo e da un'interpretazione sottilmente e affettuosamente psicologica delle figure, e la profonda rilettura iconografica dell'episodio dell'Annunciazione, qui per la prima volta, nella scultura toscana del Trecento, espressamente riambientato in chiave aulica, a dispetto della collocazione relativamente periferica dell'opera, con Maria, sorpresa assisa presso un elegante banco decorato e recante un vaso di fiori, intenta a leggere le scritture esposte su un ricco leggio, sullo sfondo costituito dal leggero drappo che scende a rivestire il seggio.Alla stessa epoca sono da far risalire le formelle a compasso con apostoli ed evangelisti murate all'esterno di Orsanmichele e provenienti dallo stesso edificio fiorentino, con figure di singolare espressività, facenti originariamente parte di una struttura architettonica, forse un tabernacolo, oggi assolutamente non ricostruibile, peraltro caratterizzato da piccole unità decorative entro cornici mistilinee al pari di quanto in quegli stessi anni si andava realizzando nell'ambiente fiorentino, dalla prima porta del battistero di Andrea Pisano alle tarsie di Taddeo Gaddi per gli armadi della sagrestia di Santa Croce (Firenze, Gall. dell'Accademia).Forse coevo alle opere fiorentine e risalente dunque al quarto decennio del sec. 14° è l'altare bolognese di S. Domenico, smembrato e, in parte, disperso (Bologna, Mus. di S. Stefano; Mus. Civ. Medievale; Marsiglia, Mus. Grobet-Labadié), di cui restano le figurette dei Ss. Pietro Martire, Domenico e Petronio, recentemente identificato con l'altare della cappella del castello papale bolognese di porta Galliera (Novello, 1990; Medica, 1991), malgrado la forte connotazione iconografica domenicana lasci peraltro aperta la possibilità di vederlo opera destinata sin dall'origine alla importante postazione cittadina dell'Ordine.Negli anni successivi, a partire forse dal 1334 o data di poco posteriore, G. si trasferì a Milano al servizio di Azzone Visconti, per il quale lavoravano in quegli anni altri celebri artisti non lombardi, in primis Giotto. Non appare tuttavia semplice ricostruire l'attività dei primi anni di G. a Milano, data la distruzione del maggior numero delle opere da lui verosimilmente eseguite. Tra queste, il monumento sepolcrale per un personaggio della casa viscontea in S. Tecla, di cui restano apprezzabili frammenti scolpiti (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), o le sculture che decoravano i tabernacoli delle porte urbane della città, peraltro affidate in gran parte a scolari, di cui rimangono scarne vestigia (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica; Baroni, 1955).Al 1339 risale la principale realizzazione scultorea di G. in Lombardia: l'arca di S. Pietro martire in S. Eustorgio a Milano. L'imponente organismo marmoreo consta di un sarcofago sorretto da pilastri e cariatidi su un piedistallo e sormontato da un tabernacolo cuspidato, ed è decorato da una fitta ornamentazione scultorea rispondente a un unico e preciso programma iconografico, comprendente rilievi e statue. Il nuovo martire domenicano riposa nella cassa apparentemente sorretta dalle Virtù con i loro simboli e compare effigiato nel tabernacolo al pari di S. Domenico, ai lati della Madonna con il Bambino, mentre le storie della sua vita e i suoi miracoli occupano gli otto pannelli scolpiti della cassa, intervallati da figure di santi. Al di sopra, sul coperchio, scolpito con le raffigurazioni di personaggi contemporanei, committenti, finanziatori o sostenitori dell'opera, tema a cui piuttosto raramente nella scultura italiana viene dato un simile rilievo, trovano posto figure rappresentanti le gerarchie angeliche. A coronamento, la statua del Redentore tra serafini. G. dimostra di avere fatto anche in questo caso largo ricorso agli aiuti, che ormai, dopo alcuni anni di soggiorno milanese, dovevano formare, tra toscani e lombardi o campionesi, una sorta di scuola stabile intorno all'artista, che certo in patria difficilmente avrebbe potuto raggiungere con altrettanta rapidità una simile affermazione. Per se stesso, G. riserva le parti maggiormente in vista: sicuramente le Virtù e, probabilmente, almeno la Madonna con il Bambino e forse alcune delle statuette intermedie, mentre dei rilievi dovette approntare perlomeno disegni di massima, poi messi in pratica da aiuti. Le false cariatidi balduccesche richiamano da vicino a livello iconografico e, talora, fisiognomico (Giovanni Pisano a Genova, 1987), le statue giovannesche di identico soggetto alla base del sarcofago della imperatrice Margherita a Genova e la figura della stessa defunta (Genova, Mus. di S. Agostino). Differisce l'interpretazione, con la pacata espressività e il consueto, terso e delicato plasticismo in ogni tempo perseguito dallo scalpello di G., che qui raggiunse uno dei suoi più felici esiti. La difficoltà di approntare nuove soluzioni iconografiche per illustrare per la prima volta con tale compiutezza la storia del nuovo santo viene risolta con complesse e monumentali composizioni, talora intricate e leggibili con qualche difficoltà, talaltra più libere e sciolte, ma sempre affollate di figurette rapide e ridotte, perlopiù convenzionali e ripetitive, caratteristiche che accomunano del resto anche gran parte delle statue libere dei livelli superiori del monumento, che, peraltro, appare dalle fonti avere raggiunto lo scopo prefissato di eguagliare per magnificenza il sepolcro bolognese dello stesso Domenico e di denunciare la liberale magnanimità dei committenti viscontei.A G. spetta anche l'esecuzione del monumento funerario dello stesso Azzone Visconti, realizzato negli anni successivi nella chiesa palatina di S. Gottardo in Corte a Milano. Gli elementi che ne rimangono, in pratica tutte le parti scolpite, mostrano ancora una volta un coerente e peculiare impegno progettuale, soprattutto a livello iconografico: sulla cassa che racchiude i resti del signore milanese è dato infatti vedere un breve corteo di personificazioni delle città settentrionali su cui signoreggiava la potenza viscontea, rappresentate da figure che, introdotte dai relativi santi protettori, si genuflettono in atto di vassallaggio, più che di preghiera, davanti a s. Ambrogio accompagnato dalle personificazioni del Comune di Milano e del dominio visconteo di Gallura, o piuttosto della Vicaria ecclesiastica sugli stessi territori padani (Novello, 1990).Nel periodo lombardo dell'artista risalta un'unica opera architettonica da lui progettata, sebbene egli ne firmi esplicitamente il solo portale. Si tratta della facciata della chiesa di S. Maria di Brera a Milano, dei Frati Umiliati, demolita in età neoclassica, rivendicata a G. da un'epigrafe datata 1347. Era una facciata a capanna tripartita, bicroma, comprendente un grande portale cuspidato con rosone centrale e altri inserti scolpiti minori, in parte conservati (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica; Monza, Parco reale). L'opera propone un'autonoma rivisitazione di facciate pisane, in primo luogo S. Caterina e S. Maria della Spina (Romanini, 1955), entrambe teatro peraltro, in tempi precedenti, dell'attività dell'artista, con una semplificazione formale e decorativa ben attribuibile a G., che anche in questo caso, malgrado la firma, deve avere lasciato campo libero agli aiuti nella decorazione scultorea, a giudicare dalle incisioni settecentesche e dai lacerti oggi esaminabili. L'importanza dell'opera non risiede tanto nella qualità della sua decorazione plastica quanto nel valore di exemplum formale e iconografico che essa dovette assumere nell'architettura lombarda della metà del Trecento e dei decenni successivi. È stato infatti possibile riunire un gruppo di edifici costruiti negli anni immediatamente successivi alla facciata di Brera e dotati di caratteristiche stilistiche o tipologiche dichiaratamente ricavate da quest'opera (Romanini, 1964); tale gruppo comprende la fondazione - anch'essa umiliata - di Viboldone, alle porte di Milano, 'trascrizione' lombarda in cotto dell'opera di G. (Romanini, 1955), la chiesa di S. Cristoforo sul Naviglio a Milano, fino alle più tarde costruzioni di S. Maria in Strada e della stessa collegiata di S. Giovanni Battista a Monza, edifici innalzati da maestri lombardi e campionesi, i primi dei quali verosimilmente in rapporto di collaborazione con G. sin dall'esperienza di Brera, che riflettono un ben definito filone di gusto all'interno del panorama dell'architettura gotica regionale, in grado di influenzare alcune delle più importanti realizzazioni di quei decenni in Lombardia, come gli stessi protiri campionesi della basilica di S. Maria Maggiore a Bergamo.A un ambiente di collaborazione artistica toscano-lombarda sono da far risalire anche alcune interessanti opere scolpite talora direttamente attribuite a G., in primo luogo il trittico dei Magi ancora in S. Eustorgio a Milano, con tre formelle quadrate cuspidate entro cui le Storie dei Magi si svolgono con denunciato pittoricismo di matrice giottesca, con ritmo più lento e composizione meno serrata rispetto alle storie dell'arca; si tratta di un'opera, datata al 1347, tipologicamente e iconograficamente impostata con pressoché assoluta certezza da G., che di polittici scolpiti si dovette già occupare con diverso risultato a Bologna, ma eseguita da altra mano.All'ambito artistico lombardo di G. sono da riportare anche il monumento del Beato Lanfranco Settala, in S. Marco a Milano, databile intorno alla metà del secolo, la tomba Rusca, proveniente da Como (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), e, infine, la più tarda arca di S. Agostino a Pavia, replica con alcune varianti della macchina innalzata dallo scultore in S. Eustorgio a Milano, iconograficamente più complessa del prototipo e stilisticamente più lontana dall'arte di G., che stanno tuttavia a dimostrare la vitalità della bottega da lui diretta a Milano e la forza di penetrazione del suo gusto in una regione dove, peraltro, oltre a registrarsi le voci della declinante tradizione campionese, altre e parimenti innovative presenze dell'arte toscana stavano incidendo sull'evoluzione della locale scultura. Si tratta con buona probabilità di Gano da Siena, la cui opera a Cremona, due santi del protiro occidentale della cattedrale (Valentiner, 1947; Gnudi, 1949), era stata per lungo tempo infondatamente attribuita a G. stesso.Il probabile rientro dell'artista in patria alla metà del secolo, a seguito dell'invito da parte dei responsabili dell'Opera del duomo pisano a dirigere i cantieri dell'organizzazione (Tanfani Centofanti, 1898), mentre lascia dunque aperta e attiva una fase produttiva gestita da una ormai scaltrita e composita bottega in Lombardia, la cui eco raggiunse la fine del secolo, con opere come il trittico della Passione, nella stessa chiesa milanese di S. Eustorgio, non pare riesca ad aprire a Pisa nuove prospettive artistiche in una fase fondamentalmente di stallo della situazione artistica cittadina, dominata dalla figura di Nino Pisano, che avrebbe ancora per due decenni applicato i modelli elaborati con il padre realizzando una lunga e monotona teoria di statue, perlopiù di piccole dimensioni. Se un nucleo di opere plastiche pisane dell'inizio della seconda metà del Trecento risente della cultura balduccesca e prova l'avvenuto ritorno nella città dello scultore dopo la lunga parentesi lombarda (Novello, 1990), non appare al momento tuttavia possibile rintracciare con certezza opere di questa fase sicuramente ascrivibili al maestro, che con ogni probabilità deve essere scomparso non molto tempo dopo il suo ritorno nella città natale.In tutta la sua carriera, G. mostra di scegliere volta per volta, con personale determinazione, prototipi e modelli iconografici e stilistici a cui rifarsi, sottomettendoli peraltro a una uniformante rilettura operata in totale fedeltà ai convincimenti della propria poetica, e unendoli alle figure originate da una fervida fantasia immaginatrice.A fronte di una qualità esecutiva non sempre eccelsa e costante, ma pur personale e, nei suoi episodi migliori, attingente un elegante e spontaneo lirismo, occorre in conclusione soprattutto riconoscere a G. una notevole capacità inventiva per avere saputo mettere a punto in quasi tutte le sue opere nuove composizioni iconografiche, e talora finanche, a quanto sembra, creare nuove tipologie scultoree, rielaborando ed esportando la più avanzata cultura figurativa toscana - e alcuni dei dettami della nuova architettura gotica elaborati in tale ambito -, rendendola più agevolmente comprensibile, e apprezzabile, in un differente contesto sociale e culturale e contribuendo così più di qualsiasi altro artista, all'infuori di Giotto, alla diffusione dei nuovi stilemi propriamente gotici in Italia settentrionale.
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