GIOVANNI di Piermatteo, detto Giovanni Boccati
Non si conosce la data di nascita di questo pittore, figlio di Piermatteo, vissuto nel XV secolo e originario di Camerino, nelle Marche.
Il primo documento di cui si è in possesso, nel quale compare il nome di G., risale al 3 ott. 1445 e si riferisce a una richiesta rivolta ai Priori del Comune di Perugia per ottenerne la cittadinanza. Dallo scritto risulta che la domanda venne accolta positivamente e che G. viveva ormai da più di sei mesi nella città dove esercitava l'arte della pittura in cui era giudicato "expertissimus" (Feliciangeli, 1906, p. 8). Evidentemente a tale data l'artista aveva già consolidato la propria fama anche fuori delle Marche. Questa testimonianza suggerisce di collocare la data di nascita di G. (che firma le proprie opere come "Bochatis, Boccatii o Bochacii") non dopo il 1420, anche in considerazione del fatto che in molti Comuni italiani la cittadinanza veniva concessa soltanto agli immigrati che avevano compiuto il venticinquesimo anno d'età.
Taciuto da Vasari, il nome di G. è appena accennato da Lanzi. Dopo le ricerche di Ricci (1834), che abbozzò una prima ricostruzione dell'identità dell'artista marchigiano, sino ad allora citato esclusivamente nelle memorie degli eruditi perugini, e cioè da Orsini (1784) e da Mariotti (1788), è a Feliciangeli che, agli inizi del Novecento, si devono i primi studi rivolti a una puntuale ricostruzione storica e documentaria della figura di G., giustamente ricondotta a un contesto culturale e artistico pertinente all'area marchigiana, a fronte dello scarso interesse mostrato dalla critica sino ad allora o della superficiale lettura della scuola camerinese, che veniva erroneamente ricondotta all'ambito umbro.
Il dipinto d'altare, raffigurante una Sacra Conversazione (Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria), datato 1447, è la più antica opera che documenta l'attività di Giovanni di Piermatteo.
Comunemente nota come Madonna del Pergolato, era stata in realtà commissionata da Angelo Geraldini, rettore della Sapienza Nuova cui la pala era destinata in origine (Mancini, p. 30); ma, per motivi che rimangono sconosciuti, questi l'aveva rifiutata. Il dipinto fu saldato dai priori della Confraternita dei disciplinati di S. Domenico di Perugia, dove era registrato da Lanzi. La somma cospicua pagata a G., 250 fiorini, induce a pensare che potesse includere anche il prezzo della cornice oggi perduta, oltre ad attestare l'alta stima di cui il pittore godeva già all'epoca (De Marchi, p. 17).
Partendo da questa tavola la critica ha impostato il lavoro di ricostruzione della complessa formazione dell'artista, che qui si mostra maturo e sensibile alle novità elaborate in area toscana e soprattutto fiorentina. La precoce adozione di una tavola a campo unificato a sviluppo orizzontale, che si contrappone alla forma del polittico gotico ancora ampiamente diffusa, e utilizzata in quegli stessi anni dal Beato Angelico nel polittico eseguito per la chiesa di S. Domenico di Perugia, e la costruzione prospettica dello spazio rivelano un artista al quale non sono sfuggite le innovazioni introdotte dagli artisti fiorentini a partire dalla fine degli anni Trenta. Chiari riferimenti sono riscontrabili nella pala eseguita nel 1437 da Filippo Lippi per la famiglia Barbadori in S. Spirito a Firenze (Parigi, Louvre); e già Zampetti (1971, p. 27) rilevava affinità e corrispondenze in "quegli angeli dalle espressioni caricate, quasi piccoli gnomi, senza collo" e nella stessa composizione "raccolta in quella specie di mondo chiuso che è la pala di fra Filippo".
Alla cerchia di artisti vicini a Lippi, come il Maestro della Nascita di Cristo di Castello o il Maestro di Pratovecchio, sembrerebbe fare riferimento G. per la delicata qualità cromatica, e in modo particolare al Maestro delle Tavole Barberini, Bartolomeo di Giovanni Corradini da Urbino, che tra il 1445 e il 1446 è documentato a Firenze come "dipintore et disciepolo di frate Filippo" (L. De Angelis - A. Conti, Un libro antico della sagrestia di S. Ambrogio, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, VI [1976], p. 105).
Dove G. abbia potuto raccogliere queste sollecitazioni è un problema non del tutto risolto, benché sia difficile scartare l'ipotesi di un apprendistato fiorentino, che Zeri collocava subito dopo la sosta del pittore a Perugia (pp. 94 s.).
Zampetti (1971, pp. 28 s.) suggeriva l'ipotesi di un giovanile viaggio di G. a Venezia e a Padova, eseguito prima di recarsi a Perugia, dove egli avrebbe potuto prendere visione diretta delle opere di Domenico Veneziano (Domenico di Bartolomeo da Venezia), di Donatello, Paolo Uccello e soprattutto degli affreschi eseguiti da Lippi per Padova, anche sulla base delle sorprendenti aperture paesaggistiche, caratterizzate da coste lagunari, che fanno da sfondo agli episodi della predella della Madonna del Pergolato, raffiguranti la Cattura di Cristo, l'Andata al Calvario e la Crocifissione, con ai lati S. Tommaso e S. Sebastiano.
Dal confronto con questa pala la critica è concorde nel riferire agli stessi anni l'esecuzione di un piccolo gruppo di opere giovanili tra cui l'Adorazione dei magi di Helsinki (Athenäum) che Zeri (p. 62) per la prima volta aveva attribuito al pittore camerinese, rilevandone le affinità con il dipinto di analogo soggetto eseguito da Gentile da Fabriano (Gentile di Niccolò di Giovanni di Massi) per la chiesa di S. Trinita a Firenze.
Alla ripresa di motivi tardogotici corrisponde l'inattesa ampiezza del paesaggio che suggerisce possibili contatti con Domenico Veneziano presente a Perugia alla fine degli anni Trenta (si veda per esempio il tondo con l'Adorazione dei magi della Gemäldegalerie di Berlino).
Nel capoluogo umbro, all'epoca in cui G. eseguiva la Madonna del Pergolato, non esistevano tradizioni locali adeguate a testimoniare una continuità culturale tale da giustificare gli esiti del camerinese, che vi risiedeva da oltre un anno, e dei pittori perugini poco più giovani di lui (Toscano, 1987, p. 366). Diversamente, dalla fine del quarto decennio, la scena cittadina è teatro di alcune rilevanti imprese decorative che sono significativamente affidate a pittori legati alla cultura rinascimentale fiorentina fra le quali il già ricordato polittico eseguito dal Beato Angelico (Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria) la cui datazione, un tempo fatta risalire al 1438, oggi viene posticipata di quasi una decina d'anni. Accanto a fra Angelico, presenza fondamentale per capire la formazione di G., un altro intervento significativo all'interno del panorama artistico della città è rappresentato dal polittico eseguito nel 1438 per il monastero di S. Giuliana da Domenico Ghezzi, artista di ambito senese, anch'egli aggiornato sulle novità del Rinascimento fiorentino (ibid.). Sempre a Perugia è probabile che G. abbia avuto contatti con Giovanni Francesco da Rimini, un artista che nel 1441 si trovava a Padova e che lasciò nella città umbra un trittico (ibid.) proveniente dalla sacrestia della chiesa di S. Francesco al Prato.
Ma ad aver maggiormente influenzato la formazione di G. fu con ogni probabilità Domenico Veneziano, che a Perugia, nel 1438, dipinse una sala nel palazzo di Braccio Malatesta Baglioni, oggi distrutto. Degli affreschi, che raffiguravano gli Uomini illustri, faceva forse parte il frammento con Guerriero, oggi conservato nella Galleria nazionale dell'Umbria.
È attraverso la mediazione di Domenico Veneziano che, probabilmente, G. si accosta ai modi della pittura fiamminga, nella descrizione lenticolare dei paesaggi che fanno da sfondo alle sue prime opere. Una "vena vaneyckiana che serpeggia nel pittore di Camerino" (Zeri, p. 61) è riscontrabile confrontando la Crocifissione eseguita dall'artista fiammingo (New York, Metropolitan Museum) con le tavolette di analogo soggetto di G., da quella di Esztergom (Museo cristiano), a quelle di Urbino (Galleria nazionale delle Marche) e di Venezia (Ca' d'oro), dove lo spazio si dilata e l'espediente illusionistico di inserire personaggi in parte tagliati fuori dal dipinto invita lo spettatore a percepire la rappresentazione oltre i limiti della tavola. E ancora nella più drammatica e concitata Crocifissione che costituisce uno scomparto laterale della predella della Madonna del Pergolato e in quella più tarda di Torino (Galleria Sabauda), forse parte di un polittico smembrato (Zeri, pp. 53 s.).
Tuttavia non si può trascurare il peso degli stimoli raccolti anche in patria e del profitto nato dalla conoscenza diretta delle opere eseguite da artisti corregionali, come Gentile da Fabriano, e dal contatto avvenuto nelle Marche tra i pittori della stessa scuola camerinese, tra cui Giovanni Angelo d'Antonio e Girolamo di Giovanni, che alla fine degli anni Quaranta eseguì gli affreschi per la chiesa di S. Agostino a Camerino. Da questa varietà di esperienze nasce il suo stile del tutto personale che non aderisce mai integralmente alle novità rinascimentali, riuscendo tuttavia a fondere le sollecitazioni che ne derivano con la sua vena poetica vicina allo spirito del gotico internazionale.
Terminata l'esecuzione della pala di Perugia, G. si trasferì poco dopo a Padova, dove, secondo quanto si desume da un documento del 1448 (Fiocco), il 23 gennaio di quell'anno viene ricordato come "habitator Padue in contrata Santi Egidi". Non sappiamo quanto tempo G. sia rimasto nella città veneta, dove non risulta inserito tra i membri della corporazione dei pittori della città, come invece sarà per il conterraneo Girolamo di Giovanni che nel 1451 compare tra gli iscritti. Alla mediazione di questo, riconosciuto come l'autore di uno degli scomparti degli affreschi della cappella Ovetari nella chiesa degli eremitani, si deve la conoscenza della pittura pierfrancescana da parte di G., che in parte emerge nelle opere eseguite dopo il periodo padovano. Tra queste va sicuramente collocata la Madonna dell'Orchestra (Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria), dipinta per l'oratorio della Compagnia del Ss. Sacramento in S. Simone del Carmine di Perugia.
Qui i ricordi padovani vanno letti in riferimento soprattutto a Donatello, sulle cui opere eseguite per la città veneta G. deve avere meditato, come mostra chiaramente il fregio a imitazione di un rilievo antico che orna il trono della Vergine.
A un periodo vicino al soggiorno padovano va poi riferita la Madonna in trono con Bambino e angeli di Ajaccio (Musée Fesch) probabile scomparto centrale di un polittico smembrato di cui, secondo Zeri (p. 54), dovevano far parte i Ss. Giovanni Battista e Sebastiano (Oberlin, Allen Memorial Art Museum), i Ss. Giovanni da Plano, Giorgio, Antonio da Padova e Chiara conservati nella Pinacoteca Vaticana e forse la Crocifissione di Torino. Secondo una caratteristica che gli è propria, in alcuni particolari G. mostra di prendere spunto dalle opere di Ansuino da Forlì, Filippo Lippi e Piero Della Francesca (De Marchi, p. 17).
Echi donatelliani e mantegneschi si percepiscono non soltanto in opere che, come questa, sono caratterizzate da una più forte espressività, ma anche in alcune tavole raffiguranti la Madonna col Bambino e angeli, eseguite in anni più avanzati, dove i personaggi sono raccolti dietro un parapetto che funge da espediente illusionistico per entrare nello spazio dell'osservatore, attraverso la posizione studiata degli angeli sporgenti dal davanzale. È il caso delle tavole di Settignano (Villa I Tatti, collezione Berenson) e Poznán (Museo nazionale) - quest'ultima assai vicina per scelte formali e compositive al dipinto della collezione Chiaromonte Bordonaro di Palermo - e della Madonna del Latte (Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria), che Vitalini Sacconi (p. 129) ritiene faccia parte di uno stendardo processionale insieme con la Madonna della Misericordia, conservata nello stesso luogo.
Riferimenti pierfrancescani, inoltre, sono ravvisabili nella Madonna con Bambinoe angeli di Princeton (University Art Museum) proveniente dalla raccolta Caccialupi di Macerata, che palesa l'intento di raggiungere una maggiore sintesi e un atteggiamento più distaccato.
Tuttavia, pur accogliendo le sollecitazioni dello stile rinascimentale di marca toscana e settentrionale, la vena espressiva di G. non abbandona mai del tutto i legami con la cultura tardogotica che sostanzia il suo linguaggio fiabesco (come nel caso della Madonna con Bambino e angeli, di ubicazione sconosciuta, esposta nel 1924 a New York), rendendo quanto mai difficile la collocazione cronologica di buona parte delle sue opere non datate, visto il suo "cammino non a direzione univoca, ma a ritorni e svolte" (Zampetti, 1971, p. 199).
Nel marzo del 1451, G. viene citato in una lettera che il mercante Ansuino di Pietro spedisce da Camerino al genero Giovanni Angelo d'Antonio, dalla quale risulta che questi era partito diverso tempo addietro dalla città marchigiana insieme con "Iohanni Boccaccio" (Feliciangeli, 1910, p. 367), fiducioso di trovare facilmente lavoro e guadagno.
Nello scritto, indirizzato a Firenze dove all'epoca si trovava Giovanni Angelo, alloggiato in casa di Cosimo de' Medici, si fa inoltre riferimento a madonna Elisabetta Malatesta, vedova di Gentile da Varano, signore di Camerino, la quale avrebbe a sua volta espresso il desiderio di riavere in patria il pittore.
Dunque la lettera attesta che almeno la prima parte della carriera dei due artisti è stata caratterizzata da esperienze comuni e consente di ipotizzare che, come per Giovanni Angelo, anche per G. fosse familiare il rapporto con Firenze da un lato e con i signori di Camerino dall'altro.
Nel novembre del 1454 G. risulta di passaggio a Spoleto, dove intervenne al fianco del collega Iacopo Vincioli come consulente nell'ambito di una controversia insorta tra il pittore Morichetto e il suo committente.
Il successivo documento riferito all'artista è del 1458, quando questi comparve a Camerino in qualità di testimone per un testamento. Da questa data sembra che G. si sia fermato per un certo periodo nelle Marche, e la sua presenza è più volte confermata a Camerino: nel 1462 risulta essere testimone alla stipula di un contratto tra il pittore Vincenzo di Pasqua e i monaci di S. Francesco di Tolentino per l'esecuzione di una tavola; il 18 febbr. 1465 è ancora citato come testimone; il 3 ag. 1470 viene nominato in un atto in cui i padri della chiesa di S. Venanzietto cedono un beneficio già appartenuto a G.; il 30 agosto dello stesso anno, infine, ricorre nuovamente come testimone, a Camerino, di un pagamento a favore di Vincenzo di Pasqua emesso dai monaci di Tolentino.
Entro gli anni Sessanta va fatta risalire l'esecuzione dei dipinti murali per il palazzo urbinate di Federico da Montefeltro, in coincidenza con la fase iniziale dei lavori di ampliamento e ristrutturazione dell'edificio.
I dipinti, che decorano la seconda sala dell'appartamento della Iole, nel piano nobile del palazzo, vennero riscoperti nel 1939 da Rotondi (p. 163), che pur ostacolato dalle cattive condizioni conservative dovute a pitture realizzate completamente a secco, formulò l'attribuzione a G., in seguito quasi unanimemente accolta dalla critica. I restauri eseguiti negli anni Ottanta del Novecento - durante i quali è stato possibile sperimentare un trattamento della superficie pittorica che, esposta alla luce di lampade a raggi infrarossi, ha permesso di recuperare momentaneamente alla vista i contorni di figure appena percettibili a occhio nudo - consentono oggi una lettura iconografica sufficientemente chiara, necessaria alla definizione di una più precisa datazione dell'impresa decorativa (Dal Poggetto, pp. 71-78).
Sotto un soffitto originariamente dipinto a imitazione di una stoffa rossa damascata si apre uno spazio che forma una sorta di padiglione con lunette, vele e pennacchi variamente decorati da motivi con putti, nastri, stemmi e racemi. Sulle quattro pareti è finta una tenda continua che si apre all'altezza del camino, dove due putti mostrano lo stemma dei Montefeltro, e che fa da sfondo ai diciassette Uomini d'arme, raffigurati accostati a due a due, ritti sopra un'alta zoccolatura, a imitazione di un palco, su cui sono riportati altri stemmi. L'essere riusciti a riconoscere in alcuni di questi le armi di Federico (le strisce trasversali e l'aquila) inquartate con quelle della famiglia Sforza (il leone rampante con il frutto del cotogno) consente di riferire con buone probabilità l'impresa decorativa alle nozze del signore di Urbino con Battista Sforza, avvenute a Pesaro il 13 nov. 1459. Una datazione a ridosso di questa data coincide opportunamente con l'attestata presenza di G. nelle Marche negli stessi anni, e trova ulteriore conferma in un documento del 28 nov. 1467, da cui si ricava che a quella data i dipinti murali erano già terminati, poiché si fa riferimento a un incontro con Luciano Laurana avvenuto nella "camera picta" del palazzo, "iuxta plateam et stratas" (Budinich, p. 58), che va senz'altro identificata con la sala in cui ha lavorato Giovanni.
Forse influenzato dalle iniziative urbinati di Federico, Giulio Cesare da Varano, unico signore di Camerino dal 1464, avviò in questi anni il rinnovamento del proprio palazzo, provvedendo a decorare tutte le sale con dipinti, oggi quasi completamente scomparsi e pressoché illeggibili, di cui parla Camillo Lili nella sua Historia della città di Camerino (Macerata 1649-52). Tra i collaboratori a questa impresa alcuni studiosi (Zampetti, 1971, pp. 31 s.; Battistini, p. 400) ritengono di poter inserire anche G., il cui intervento sarebbe comprovato dalla presenza prolungata del pittore nella sua città natale, accanto forse a Girolamo di Giovanni e Giovanni Angelo di Antonio.
Al settimo decennio del secolo risale una serie di dipinti di qualità discontinua, tutti eseguiti per località vicine a Camerino, dove l'artista alternò al mediocre polittico per la chiesa dell'Assunta di Castel Santa Maria di Castelraimondo, datato 1463, opere che, pur mostrando maggior impegno, come il trittico, non più integro, della chiesa di S. Maria del Seppio di Pioraco del 1466 (il S. Sebastiano è conservato nel Museo diocesano di Camerino) e quello molto lacunoso della chiesa parrocchiale di Nemi, ambedue commissionati dal pievano Angelo di Mirabella, non risollevano il giudizio pertinente a questa fase produttiva ripetitiva e stanca. Un'opera di maggiore impegno e di più alto risultato è il polittico della chiesa di S. Eustachio di Belforte del Chienti, firmato e datato 1468.
Qui emerge in tutta evidenza il recupero da parte di G. degli esempi tardogotici, visibile nel modo raffinato ed elegante di rappresentare la folla di santi che, ai lati del trono su cui si trovano la Vergine e il Bambino attorniati dagli angeli, occupano i diversi scomparti che compongono la complessa struttura cuspidata del polittico, i pilastri laterali e la predella. Appena percettibili sono i ricordi delle novità fiorentine e venete adottate nei dipinti di alcuni anni prima (nella qualità luminosa delle storie rappresentate nella predella o nei due studioli rinascimentali che ospitano gli evangelisti Giovanni e Matteo); mentre è possibile riscontrare attinenze con le opere che sempre in questi anni esegue Antonio Vivarini per alcune città marchigiane.
Dagli inizi degli anni Settanta G. non è più documentato a Camerino, da dove riparte per recarsi nuovamente in Umbria. Nel 1473 data un'importante pala per la cappella di S. Savino nel duomo di Orvieto. Oggi il dipinto è diviso in varie sedi museali: la tavola centrale è stata acquistata nel 1895 dal Museo di belle arti di Budapest dove attualmente si trova, mentre alcuni scomparti della predella, raffiguranti le Storie di s. Savino, sono divisi tra Roma (collezione Lanfranchi), Parigi (collezione Spiridon), Madrid (Museo Thyssen-Bornemisza) e Urbino (Galleria nazionale delle Marche).
In questo periodo G. è ancora in piena attività visto che il 1° luglio 1480 è presente a Perugia per riscuotere il pagamento di due tavole, oggi perdute, destinate alle chiese di S. Benedetto sotto San Niccolò di Celle e di S. Salvatore di Pozzagli, situate nel contado perugino. L'anno precedente l'artista aveva firmato una Pietà per la chiesa di S. Agata, ancora per il capoluogo umbro, suo ultimo dipinto documentato (Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria).
Il ritorno di G. a Perugia, attestato anche da un contratto relativo all'affitto di un suo pezzo di terreno del 6 dic. 1480, coincide dunque con importanti commissioni e può motivare questa sua fase caratterizzata da un rinnovato impegno e da un inatteso riaffiorare di interessi nei confronti dell'arte di matrice fiorentina, come mostra l'adozione del formato quadrato per la pala di Orvieto.
Il tentativo di aggiornare il proprio linguaggio su quello recentemente adottato da alcuni pittori operanti in territorio umbro, come Lippi e Andrea del Verrocchio (De Marchi, p. 17) emerge proprio nella Pietà, purtroppo molto deteriorata, dove G., sullo sfondo di un ampio paesaggio, ambienta una scena dai forti toni drammatici, messi in risalto dall'incisività del segno che evidenzia le pieghe dei tessuti e gli strati sedimentati delle rocce.
Il silenzio che segue dopo queste date fa supporre che la morte abbia colto l'artista agli inizi degli anni Ottanta.
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