Giovanni di Salisbury e la concezione del potere nell'alto Medioevo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Composto nella seconda metà del XII secolo, il Policraticus dell’inglese Giovanni di Salisbury costituisce il primo grande testo di filosofia politica del Medioevo cristiano: un testo nel quale i temi del sovrano che conferisce unità organica alla comunità civile, della Legge da cui la sua azione di governo deve essere sempre guidata e del rischio che tale governo si trasformi in tirannide sono affrontati sulla base di una concezione del potere la cui genesi risale alla riflessione paolina e agostiniana.
Giovanni di Salisbury
La funzione dei tiranni nell’ordine provvidenziale
Policraticus: l’uomo di governo nel pensiero medievale, Libro VIII, cap. 18
Ogni potere è buono, dal momento che deriva da Colui che è la solo origine di tutte le cose, necessariamente buone. A chi lo esercita o lo subisce, il potere può talvolta apparire cattivo; e tuttavia, da un punto di vista generale, è buono, in quanto è il prodotto di Colui che volge al bene i nostri mali. All’interno di un quadro i colori scuri o cupi o che, comunque, sono di per sé brutti svolgono una loro funzione; allo stesso modo, quelle cose che, considerate di per sé, possono apparire sgradevoli e malvagie, sono buone e belle in relazione all’insieme, modellato a propria immagine da Dio. Perciò anche il potere del tiranno è in certo senso buono, pur non esistendo nulla di peggio della tirannide, che consiste nell’abuso del potere concesso da Dio all’uomo.
Giovanni di Salisbury, Policraticus: l’uomo di governo nel pensiero medievale, a cura di L. Bianchi, Milano, Jaca Book, 1985
Lungo tutto il cosiddetto alto Medioevo non è dato trovare un solo testo che corrisponda in toto a ciò cui siamo soliti associare l’espressione “scritto politico”: non soltanto perché, sino alla riscoperta, nel XIII secolo, dell’Etica e della Politica di Aristotele la cultura dell’Europa latina è sostanzialmente sprovvista di un vocabolario tecnico di cui servirsi per porre (e risolvere) in maniera rigorosa questioni che possano definirsi a pieno titolo politiche, ma anche – e soprattutto – perché solo il progressivo diffondersi dell’idea della naturale socievolezza dell’uomo, nella seconda metà del Duecento, induce a guardare in modo nuovo alla dimensione politica, che per la prima volta dopo tanto tempo non è più considerata un male necessario, un effetto collaterale del peccato originale, e torna a essere concepita da molti intellettuali dell’Europa cristiana in termini positivi, come un fenomeno naturale, frutto di bisogni e desideri radicati in ogni essere umano.
In questo periodo, invece, domina la convinzione (più o meno esplicita) che le diverse forme di aggregazione civile e le trasformazioni cui esse vanno incontro non costituiscano, di per sé, un oggetto di studio degno. Partendo dal presupposto – sul quale torneremo più avanti – che le istituzioni politiche siano semplicemente il rimedio al quale Dio ha voluto che ci si affidasse per circoscrivere le conseguenze della Caduta, per ovviare alla condizione di fragilità e di propensione al vizio cui soggiacciono tutti i discendenti di Adamo, diviene naturale parlare di cose politiche solo in termini etico-religiosi: limitarsi, cioè, a dire quali sono le virtù che dovrebbero contraddistinguere chi appare come uno strumento divino e quale funzione rivestono i principi terreni nell’ordine provvidenziale dell’universo.
Assistiamo così al graduale emergere di una forma di letteratura filosofico-politica, quella degli Specula principum (Specchi dei principi), che dispensa a piene mani consigli su come governare a imperatori e re, ricordando loro a ogni pagina i doveri cui non possono derogare, se vogliono poter continuare a sostenere che il loro potere goda dell’indispensabile favore di Dio (vale a dire, che il loro sia un governo legittimo).
Il più noto di questi manuali di buon governo è quello composto nel 1159 dal filosofo, letterato e diplomatico inglese Giovanni di Salisbury. Nello stesso tempo, tuttavia, il suo Policraticus (neologismo che possiamo tradurre con L’uomo di governo) costituisce una parziale eccezione rispetto al quadro delineato sin qui e può essere descritto, entro certi limiti, come il primo grande frutto della riflessione politica medievale: un testo di filosofia politica, dunque, al cui centro Giovanni colloca il tema della struttura della comunità civile, dei rapporti che sussistono fra le sue componenti. Nell’affrontare tale tema, il Policraticus istituisce un’analogia di proporzionalità fra regno e corpo umano, recuperando e sviluppando una metafora politica – detta organicistica – che aveva già alle spalle una lunga tradizione (risalente almeno al celebre apologo di Menenio Agrippa narrato da Tito Livio) e che, proprio grazie allo scritto di Giovanni, avrebbe conosciuto una straordinaria fortuna nei secoli successivi.
Nelle pagine di Giovanni la metafora Stato/corpo umano assume una valenza conservatrice, veicolando l’idea che ciascun membro della società – come pure ogni suo organo – debba stare al suo posto e ponendo grande enfasi sulla necessità di tenere sotto controllo qualsiasi pulsione centrifuga; nel contempo, dalla concezione organicistica della comunità politica discende la convinzione che il bene della collettività debba sempre essere anteposto a quello del singolo individuo o gruppo, all’interesse di parte.
All’interno di questo Stato concepito come macro-uomo, Giovanni rivolge un’attenzione particolare alla testa, cioè al sovrano, chiamato appunto a preservare l’unità organica della comunità che regge, a mantenere il giusto equilibrio fra le sue parti e a farsi carico dell’interesse generale, incarnandolo. Nell’adempiere tale compito, il principe rappresenta “una sorta di immagine terrena della maestà divina”: egli è un mero strumento nelle mani di Colui da cui proviene ogni autorità, la “mano subordinata” per mezzo della quale Dio esercita il potere su quello specifico popolo, punendo i malvagi e premiando i buoni. Ne deriva che la cifra caratteristica del legittimo sovrano, l’elemento che permette di distinguere un buon re da un tiranno, consiste nel porsi come semplice esecutore della volontà divina (abbiamo quindi un monarca a sovranità limitata!): egli si lascia guidare docilmente dalla Legge, tiene sempre aperta sulla sua scrivania la Scrittura, facendone il principio ispiratore di qualunque atto di governo.
Ma cosa accade quando in chi governa emerge una volontà politica che si discosta dai dettami del testo sacro e il sovrano sceglie di fondare il proprio potere esclusivamente sulla forza? “Se le autorità costituite cessano di attenersi ai comandamenti divini” – scrive in proposito Giovanni nel sesto libro del Policraticus – “e tentano di coinvolgermi nella loro guerra con Dio, rispondo che quest’ultimo va preferito a qualsiasi potere umano”. Tuttavia – aggiunge – una “ferita al capo si ripercuote su tutto il corpo e qualunque attacco al capo o al corpo è un crimine gravissimo”: un “delitto di lesa maestà”, in quanto aggressione indiretta contro Dio. In queste righe sono perfettamente riassunti i due corni del dilemma che Giovanni si trova ad affrontare: vi è un punto di rottura raggiunto il quale i sudditi non sembrano essere più legati da alcun vincolo di obbedienza nei confronti di un principe trasformatosi in tiranno e però, nello stesso tempo, la mano che dovesse levarsi armata verso un simile tiranno si assumerebbe la responsabilità di colpire quello che resta pur sempre un ministro di Dio, vale a dire oserebbe modificare intenzionalmente un ordine di cose alla cui origine vi è comunque il volere divino.
Nella parte conclusiva del Policraticus si alternano allora passi in cui si sostiene che, in quanto “immagini viventi della malvagità di Lucifero”, “i tiranni, in genere, vanno uccisi”, quando non vi sia altra strada per tenerli a freno (cioè come misura estrema), e passi ove invece si pone l’accento sul fatto che sono anch’essi vicari di Dio, di cui quest’ultimo si serve per affliggere gli ingiusti e temprare i giusti. Accanto a pagine ove Giovanni rileva come, una volta inflitta la punizione di cui Israele si era reso meritevole, Dio abbia concesso al suo popolo di sbarazzarsi del tiranno che ne era stato incaricato (“chi usurpa la spada, del resto, è degno di essere passato a fil di spada”), troviamo pagine nelle quali si afferma che il modo più sicuro ed efficace per togliere di mezzo dei tiranni consiste nell’affidarsi alla misericordia divina, nel pregare e attendere pazientemente che il Signore trovi la soluzione migliore per porre fine a quel governo tirannico.
Mentre la giustificazione teorica del tirannicidio e il riconoscimento della liceità dell’opposizione individuale in presenza di un governo che ignori i dettami della Legge costituiscono un indubbio elemento di novità, l’altra metà del discorso di Giovanni di Salisbury, il cui approdo è una sorta di quietismo politico (sul genere: “vivi – bene – e lascia vivere e governare il tiranno, finché Dio non riterrà giunta l’ora di fare a meno dei suoi servigi”), si inserisce in una tradizione di lungo periodo, che possiamo definire paolino-agostiniana.
È san Paolo, in una celebre pagina dell’Epistola ai Romani (13, 1-4), a porre le fondamenta di quella che per secoli e secoli sarà la concezione del potere caratteristica del pensiero cristiano: “non vi è autorità che non tragga origine e non sia stabilita da Dio”. Ne discende il dovere di restare sempre sottomessi a chiunque governi, buono o cattivo che sia, perché qualsiasi atto di disobbedienza equivarrebbe a ribellarsi a Dio, a trasgredire la legge divina in base alla quale un determinato popolo è stato affidato alla guida di quel particolare sovrano. Se si accetta il presupposto che chi siede sul trono lo fa nelle vesti di “unto del Signore”, di rex gratia Dei, non rimane alcuno spazio per la formulazione di una teoria del diritto di resistenza: opporsi al proprio re comporta inevitabilmente il fatto di macchiarsi del delitto di alto tradimento, rifiutandosi di riconoscere lo status di indiscussa superiorità (la “maestà”) derivantegli dall’investitura divina.
Sempre l’Epistola ai Romani, inoltre, contiene l’idea che, lungi dal “portare la spada invano”, i governanti terreni siano i ministri cui Dio delega la giusta condanna di chi opera il male. Un’idea ripresa e sviluppata, più tardi, da Agostino di Ippona nel suo De civitate Dei (La città di Dio), scritto – a partire dall’anno 412 – per ribattere alle accuse di quegli intellettuali pagani secondo i quali la conquista di Roma per mano delle truppe di Alarico (410) sarebbe da imputare ai cristiani, rei di aver svigorito l’ordine tramite la diffusione di una dottrina che suscita nei fedeli un senso di estraneità nei riguardi del mondo terreno e, quindi, mina la loro fedeltà alle istituzioni.
Agostino inquadra invece quanto avvenuto nel 410 e, più in generale, l’intera storia del genere umano in una visione provvidenzialistica al cui interno ogni avvenimento assume un significato ben preciso, rientrando nell’ordine complessivo fissato da Dio. Assistiamo così all’elaborazione di una teologia della storia in cui quest’ultima appare come il teatro di un conflitto continuo fra due società (“famiglie”) di uomini: la “città di Dio”, ossia la comunità dei giusti fondata sull’amore verso Dio, e la “città terrena”, vale a dire l’insieme degli empi che antepongono a tutto l’amor proprio e voltano le spalle al vero bene.
Nel discorso agostiniano queste due grandi comunità, contraddistinte da scelte di vita antitetiche, percorrono la storia inestricabilmente mescolate e soltanto il giorno del Giudizio, quando finalmente si separeranno, risulterà chiara la loro composizione.
Agostino non riconduce quindi la loro distinzione a una contrapposizione fra istituzioni terrene (impero e papato), a differenza di quanto faranno poi molti interpreti del De civitate Dei, con l’intento di servirsi della dottrina delle “due città” per rivendicare la superiorità del potere spirituale rispetto a quello temporale. A dire il vero, vi sono pagine del De civitate Dei ove si dice che “la città terrena si è espressa” (cioè ha assunto una forma concreta) nei vari imperi succedutisi nel corso della storia. Tuttavia Agostino non si spinge mai sino a identificare pienamente una città con gli organismi politici esistenti e l’altra con la Chiesa del suo tempo; non solo, infatti, denuncia la presenza nel corpo ecclesiastico di elementi estranei alla comunità dei giusti, ma ammette altresì la possibilità – apparentemente paradossale – che la “città celeste” includa uomini provenienti dalle fila dei nemici della Chiesa, in virtù di una decisione divina il cui senso non può essere colto dalla ragione umana.
Durante il loro lungo periodo di convivenza forzata, entrambe le società umane descritte nel De civitate Dei mirano alla pace, che però esse non intendono nella stessa maniera: la città dei giusti mira ovviamente alla pace celeste, pur apprezzando la protezione che i governanti terreni tentano di assicurare a chi è loro soggetto, mentre la “città terrena” ha come unico fine il conseguimento di una condizione di assenza di conflitti, che dipende dalla capacità dello Stato di tenere a freno le pulsioni violente innescate in ogni essere umano dal peccato originale. Agostino spiega quindi la genesi del potere politico con l’esigenza di rimediare al disordine provocato dalla scelta di Adamo: privando l’anima dell’originaria capacità di mantenere il controllo del corpo, infatti, essa ha reso gli uomini schiavi dei loro desideri materiali e, in particolare, di quella bramosia di dominio (libido dominandi) che li porta inevitabilmente a sopraffarsi l’un l’altro. In questa prospettiva, le istituzioni politiche (il governo, le leggi, la forza pubblica ecc.) appaiono un espediente cui è necessario fare ricorso se si vuole evitare che prevalgano gli istinti antisociali, essendo venuta meno l’inclinazione dell’uomo a uniformare ogni azione al volere divino. Tale discorso, d’altra parte, riguarda anche i membri della “città celeste”, i quali, in attesa della beatitudine eterna promessa loro, hanno tutto l’interesse a obbedire scrupolosamente alle leggi della comunità civile in cui conducono la loro esistenza terrena.
Come si è accennato in precedenza, dunque, Agostino porta a piena maturazione la tesi paolina secondo cui le autorità politiche sono la soluzione imposta da Dio a un’umanità sfigurata dalla colpa di Adamo – e concepita come una massa di disperati inclini al male – per limitare i danni della Caduta: un rimedio proveniente dall’alto, una “medicina” che gode dell’approvazione divina. È questo il modo in cui, sulla scia di Agostino, la riflessione politica altomedievale concepirà a lungo il governo temporale, da Gregorio Magno sino a Bernardo di Clairvaux, passando per Isidoro di Siviglia e gli innumerevoli Specchi dei principi composti in età carolingia.
Secondo questa tradizione di pensiero, a prescindere dalle loro qualità personali, tutti i principi terreni sono scelti dal Re dei re, sulla base di criteri del tutto incomprensibili (ma “mai ingiusti”), affinché assumano l’incarico (ministerium) di punire il male presente nel mondo e di impedire che gli esseri umani si taglino reciprocamente la gola. L’unica differenza consiste nel fatto che i re assolvono tale incarico secondo giustizia, mentre la spada dei tiranni si abbatte anche sui giusti. In entrambi i casi, comunque, la presenza del sovrano rientra nel piano divino della storia, nello stesso disegno della provvidenza che fa sorgere il sole e cadere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti (cfr. Matteo, 5, 45). Se a “piovere” su una comunità è un tiranno, si tratta del flagello temporaneo utilizzato da Dio Padre per punire le colpe di quello specifico popolo e per mettere alla prova quella parte dei suoi figli che non ha peccato, consolidandone le virtù: spetta quindi unicamente a Dio determinare quando il tiranno in questione ha esaurito il compito assegnatogli nell’ordine dell’universo e non ha più alcun contributo da offrire alla bellezza complessiva del mondo.