DOLFIN, Giovanni
Nacque a Venezia, secondo fonti cronachistiche coeve, intorno al 1303 da Benedetto (Benetto, Bello, Bellerio, Bellerino), figlio di Enrico (Rigo), fondatore del ramo familiare detto dai Ss. Apostoli.
Il padre, procuratore di S. Marco de Supra dal 16 dic. 1300, era stato politicamente attivo soprattutto in seguito alla serrata del Maggior Consiglio (1297) e, sventando la congiura capeggiata da Marino Bacconio, si era guadagnato fama di uomo d'azione, ma cauto ed avveduto. Nulla si sa della madre, come pure dell'unico fratello, Daniele, che pare non abbia ricoperto pubblici incarichi. Nel 1345 il D. è ricordato come genero di Albano Zane ma non è noto il nome della moglie. Rimasto vedovo, si risposò con Caterina Giustinian, di cui non è noto il nome del padre.
Il D. ebbe tre figli maschi: Benedetto, Pietro, Nicolò. Non era invece suo figlio - come erroneamente segnalato da più parti -, bensì suo nipote, Enrico, figlio del primogenito Benedetto, che sposò Lucia Contarini e con essa fu sepolto nella basilica dei Ss. Giovanni e Paolo. Delle quattro figlie femmine, Cataruccia fu monaca in S. Zaccaria; Costanza e Lucia, in giovane età, sposarono rispettivamente Zanino Michiel e Marco Morosini da S. Giovanni Novo; Franceschina andò sposa dodicenne a Bertucci Contarini da S. Aponal. Morendo, il D. affidò il figlio Pietro alla suocera Agnesina (forse una Bembo), con l'incarico di tutelarlo fino all'età di sedici anni, e istituì suo precettore Francesco da Trento. La famiglia possedeva immobili ai Ss. Apostoli, a S. Giacomo dell'Orio e una grande casa a S. Canciano, accanto al fontego dei Turchi, passata poi in eredità al figlio Nicolò. Fuori Venezia, aveva beni a Torre delle Bebe e in Istria.
Fonti cronachistiche ricordano il D., poco attendibilmente, fra gli elettori ducali di Giovanni Soranzo (1312); più verisimilmente, fu tra quelli di Francesco Dandolo (1329). Sporadiche tracce documentarie, non scevre da dubbi per omonimie, testimoniano la partecipazione del D. alla vita pubblica negli anni Venti e Trenta del secolo. Intorno al 1345 era fra i capi di Quarantia a decidere spese militari in Istria, dove l'impopolarità del governo veneziano si univa a latenti simpatie per la Corona ungherese. Tre anni dopo, secondo fonti cronachistiche, il D. partecipava come capo dei Quarantotto (ma nei documenti compare il solo nome di Marco Soranzo) alla spedizione navale contro Capodistria, dove la rivolta contro Venezia era appena scoppiata (17 sett. 1348). A questi fatti potrebbe legarsi l'incarico di conte di Valle, ricoperto nel marzo 1350, secondo i documenti, da un Giovanni Dolfin, senza ulteriori denominazioni che lo possano inequivocabilmente identificare. Fu giudice di Petizion già nel 1345, dopo un'elezione contestata, ma alfine approvata. Nell'autunno del 1348 si recò, con Stefano Morosini, Nicolò Venier, Almorò Gradenigo, Marino Soranzo e Pancrazio Zen, incontro al re Ludovico d'Ungheria, proveniente dal Regno di Napoli, e di passaggio per la pianura padana. Compito della missione, di poco successiva alla pace dell'agosto 1348 con Ludovico, era sorvegliarne il viaggio attraverso il dominio veneto.
Il 25 apr. 1350 - secondo altri, ma erroneamente, il 24 agosto - ottenne, in luogo di Giacomo Soranzo, l'ambita carica di procuratore di S. Marco de supra Secondo il Barbaro, circostanza determinante a tale elezione fu il positivo risolversi di una sua ambasceria (1349), che aveva portato alla conclusione di un'alleanza quinquennale tra Venezia e l'imperatore di Costantinopoli contro Genova (è da notare che il titolo di "procurator" accompagnava il nome del D. già nell'ottobre 1348, quando venne eletto, con Giustiniano Giustinian e Marino Falier, savio "pro mittendo iustinopolim"). In realtà l'ambasceria del 1349 era costituita dal solo Paolo Loredan, poiché il D. si era rifiutato di partire. Nel marzo di quell'anno il D. si era fatto portavoce in Senato di istanze imperiali, ottenendo per Costantinopoli l'autorizzazione di trarre dai boschi di Segna materiale per la costruzione di navi. Nel luglio 1350 ai tre savi in Istria se ne affiancarono altri tre: il D., Stefano Contarini (anch'esso procuratore di S. Marco) e Stefano Gradenigo, con l'incarico di vigilare sui movimenti del duca d'Austria in Friuli. A quest'incarico si aggiunse per breve tempo quello più specifico di provveditore in Treviso, "con le genti delle galee" a difesa della città e del territorio, insieme con Alvise Vitale e Stefano Contarini. Ben presto però, considerato che il duca d'Austria non si era mosso e che la truppa protestava per la paga, la Signoria ordinò ai tre provveditori di accontentarla ed offrire agli uomini un nuovo imbarco.
Nell'estate del 1350 tutti i savi - e quindi anche il D., sebbene non specificamente menzionato - furono inviati a presiedere l'isola di Tenedo, nell'estremo mar Egeo, presso l'Asia Minore e in posizione strategica per il controllo degli Stretti, in vista della guerra contro Genova.
L'attività del D. si spostava così in Romania con nuovi e pressanti impegni diplomatici e, all'occorrenza, militari. Creati i venticinque savi a sovraintendere "super factis et provisiones contra Januenses", si armarono nell'Arsenale veneziano una ventina di galee che, al comando di Nicolò Pisani, lasciarono Venezia nel marzo 1351.Secondo la cronaca dei Caresini, insieme con la piccola flotta partì come ambasciatore a Costantinopoli, anche il Dolfin. La procura ricevuta dal D. per quest'ambasceria porta la data del 16 marzo 1351. In base a questa il precedente trattato con Venezia - sottoscritto il 10 nov. 1349 - fu quindi ratificato il 2 luglio 1351. Accettando la proposta di concludere un'alleanza antigenovese con il re d'Aragona, l'imperatore poteva armare, finanziato da Venezia, otto galee.
Con l'evolversi della guerra il D. unì all'attività diplomatica anche l'impegno militare. Nel febbraio 1352 partecipò alla violenta battaglia del Bosforo, terminata con gravi perdite da ambo le parti. Morì in seguito alle ferite ricevute anche Pancrazio Giustinian, capitano generale da Mar, che fu sostituito nell'alto incarico da Nicolò Pisani. Per suo mandato il D., ancora ambasciatore alla corte imperiale, fece ritorno in patria a dar notizia del fatto luttuoso e a chiedere nuovi finanziamenti per le galee catalane. Il successo dell'impresa militare annunciato in Senato dal D. - la vittoria era obiettivamente dei Genovesi - sembra aver suscitato dubbi; tant'è vero che si elessero quattro provveditori "contra Januenses" - oltre al D., Marco Falier (secondo il Caroldo, Marino il futuro doge), Marco Corner (poi doge) e Marino Grimani - ad affiancare il capitano generale. Eletti il 1º maggio, partirono con i fondi per l'armata il 13 di quel mese. Nel frattempo, dopo aver fortificato Pera e Galata col consenso dell'imperatore, l'armata genovese aveva lasciato il Mediterraneo orientale alla volta di Genova.
I quattro provveditori, insieme con il Pisani, si trasferirono quindi a Candia, e valutata la situazione, licenziarono le galee catalane. La flotta, ridotta a otto vascelli, tornò poi a Costantinopoli e tentò invano l'espugnazione di Pera, ben difesa per l'appoggio dato ai Genovesi da Orkhan I sovrano dei Turchi ottomani. Fu allora stabilito di dividere la flotta in tre parti. Mentre il capitano generale da Mar restava con due provveditori all'assedio di Pera, al Falier e al D. fu ordinata un'azione di disturbo nei confronti delle navi nemiche, che si limitava però ad atti di sabotaggio ed alla cattura di navi isolate. Il 22 dic. 1352 il D. in qualità di procuratore di S. Marco ebbe in deposito dal doge un baláscio che Marin Falier, allora in Oriente, aveva a sua volta ricevuto in pegno dall'imperatore di Costantinopoli, Giovanni Paleologo, per i 5.000 ducati prestatigli da Venezia.
Nuovi incarichi diplomatici in funzione antigenovese portarono il D. a Padova (gennaio 1353), Verona (gennaio 1354) e Mantova insieme al procuratore Paolo Loredan e a Marino Grimani. All'inizio del 1354 Venezia tentò approcci di pace con l'Ungheria, per mediazione di Verona e nell'ambito delle trattative il D. e Marino Grimani furono inviati a Cangrande (II) Della Scala in qualità di oratori. Successivamente il D. fu nominato governatore dell'esercito ed incaricato di bloccare la costruzione di un ponte nemico sul fiume Po. Durante il dogado di Marin Falier, succeduto al Dandolo nel 1354, non pare che il D. abbia ricoperto incarichi pubblici di spicco. Il 10 luglio 1355 fu uno dei provveditori che cooperarono all'edificazione della cappella di S. Isidoro nella basilica di S. Marco come risulta dall'iscrizione ivi posta.
Intanto preoccupanti notizie provenivano dall'Egeo. Il Senato perciò delegò cinque savi (oltre al D., Lorenzo Celsi, poi doge nel 1361, Francesco Bembo, Giustiniano Giustinian e Nicolò Falier), per esaminare in gran segreto lettere inviate dal duca e dai consiglieri di Creta. La commissione, eletta il 18 ag. 1355, ebbe il compito di vagliare "atti commessi da certi candioti, pericolosi per l'autorità dello Stato". In questo frangente prese il sopravvento in Senato il partito favorevole alla pace con il re d'Ungheria, sostenuto dai "quatuor sapientes Sclavoniae": il D., Marco Giustinian, Pietro Zane e Jacopo Mauro. Ambasciatori solenni - Marco Falier e Marco Corner - furono inviati a Ludovico d'Ungheria per ottenere le fortezze di Clissa e Scardona e chiarire i diritti veneziani su altri luoghi della Schiavonia, per cui erano autorizzati a un esborso di 6/7.000 ducati. Per rendere più autorevole l'ambasceria gravata di delicatissimi compiti, si cercò di coinvolgervi il D., che però ricusò "propter defectum personae". Tuttavia ogni tentativo diplomatico di concludere la pace fallì e la situazione precipitò verso lo scontro aperto.
La temuta cavalleria ungherese scese nel Trevigiano mentre i tradizionali nemici di Venezia - il patriarca d'Aquileia, i duchi d'Austria, i Carraresi - occultamente o apertamente appoggiavano Ludovico, che alla testa dei suoi uomini (da quaranta a sessanta mila, a seconda delle fonti) si affrettò ad assediare Treviso. In questo contesto, a partire dal febbraio 1356 al D. furono affidati anche incarichi militari. Come uno dei tre provveditori in Treviso (insieme col procuratore di S. Marco Paolo Loredan e con Marco Giustiniani), si recò nella città assediata accompagnato dai figli Benedetto e Nicolò. Secondo le cronache il D. era allora tormentato da un catarro all'occhio destro, infermità che si aggravò per le dure condizioni dell'assedio.
L'8 ag. 1356 con la morte di Giovanni Gradenigo si concludeva un ducato di transizione, durato poco più di un anno. In un momento di difficoltà come quello attuale occorreva una personalità decisa al tempo stesso condottiero, diplomatico, amministratore, e la scelta del D., che già era stato a lungo in ballottaggio al momento dell'elezione di Giovanni Gradenigo, parve pressoché obbligata. Provveditore di S. Marco de supra, fueletto doge il 13 ag. 1356 mentre si trovava ancora in Treviso, assediata dagli Ungheresi, come provveditore in campo. Durante il ballottaggio, che aveva contrapposto il D. al procuratore Andrea Contarini e a Paolo Loredan provveditore in campo, ci furono giorni d'esitazione e lunghe discussioni sull'opportunità d'elevare al soglio dogale un uomo pur prudente e saggio, ma guercio d'un occhio. La sola cronaca del Trevisan non nasconde il disappunto dell'opinione pubblica per il caratter "superbissimo" che il D. aveva dimostrato fino ad allora.
Ad elezione avvenuta, al re d'Ungheria furono inviati Andrea Contarini, Michele Falier e il cancellier grande Benintendi de' Ravagnani per ottenere, ma invano, un salvacondotto per il nuovo doge che si trovava nella città assediata. Né ebbe miglior successo, a quanto pare, un'altra ambasceria, composta da personaggi neutrali, il vescovo di Fermo e il notaio Stefano. Nel frattempo Treviso, animata dagli ultimi avvenimenti, resisteva con rinnovate energie e ben presto Ludovico, fallito un attacco verso il borgo dei Santi Quaranta, decise di partire anche se il grosso del suo esercito continuò l'assedio. A questo punto il D. tentò una sortita con 100 cavalieri e 200 fanti (secondo altri, ma meno attendibilmente, 600 cavalieri e 1000 fanti) e raggiunse Mestre, accolto dal podestà e da dodici ambasciatori solenni che lo accompagnarono fino a Marghera, poi in barca all'isola di San Secondo, per una sosta. Seguendo il cerimoniale, il D. prese posto sul bucintoro inviato con la nobiltà a riceverlo. A Venezia scese il 25 agosto fra le acclamazioni del popolo. Accanto al D., che dovette sostenere ingenti spese "in introitu ducatu", diventava dogaressa la moglie, Caterina Giustinian.
Tra i primi atti di governo del D. vi fu l'invio di ambascerie ai Carraresi che avevano appoggiato Ludovico d'Ungheria, ma non ebbero l'esito sperato, perciò fu allora richiamato da Padova il podestà Marino Morosini, vietato l'invio di sale e sospeso ogni commercio. Egualmente grave era la situazione nella Terraferma: cadute (Asolo, Serravalle), defezioni (il vescovo di Ceneda), aperte ribellioni (gli Onighi della marca trevigiana, un tentativo soffocato a Treviso). Nondimeno il primo anno del dogado del D. fu caratterizzato da tentativi di ripresa commerciale. I traffici, solitamente destinati alle vie orientali, furono volti ad Occidente e si armarono a spese pubbliche quattro galee grosse per il cosiddetto "viagium Flandriae". Conclusasi ad Avignone, grazie a Marco Gradenigo, l'alleanza antiturca propugnata da Innocenzo VI, tra Venezia, il re di Cipro ed i Cavalieri di Rodi, il D. ricorse alla mediazione papale per i preliminari di pace con l'Ungheria affidata agli ambasciatori Andrea Contarini, Michele Falier e al cancellier grande Benintendi de' Ravagnani, risoltasi in una breve tregua e nell'invio di emissari ungheresi a Venezia (febbraio 1357). Le esorbitanti pretese di Ludovico obbligarono il doge e il Senato a rifiutarne le proposte. In quegli stessi mesi giunse a Venezia il re di Cipro, che si recava in Francia per cercare alleati nella lotta contro gli infedeli e come ospite di riguardo fu accolto sul bucintoro dal D. e poi alloggiato in palazzo Corner sul Canal Grande a S. Luca.
Allo scadere della tregua con l'Ungheria, dopo la Pasqua del 1357, la guerra riprese. Il nemico dapprima si spinse fino ai bordi della laguna, costringendo i Veneziani a bloccarvi la navigazione e costruire palafitte a difesa della stessa città; poi ripiegò in Dalmazia. A Venezia fu annunciata la resa di Traù e Spalato, la caduta di Zara per tradimento, la valorosa difesa della piccola fortezza di Enone. La diminuzione delle entrate e l'accrescimento delle spese di guerra, costrinsero il governo ad autofinanziarsi: tra l'altro il Senato stabilì che gli interessi prodotti dai titoli di Stato non potessero, in futuro, esser volti ad altro uso. A parte gesti di eroismo personale, il peso di una lotta impari fiaccò in molti la volontà di resistere ad un esercito come quello ungherese, con caratteristiche ancora feudali, basato sull'obbligo dei baroni di fornire al re uomini avvezzi alle armi, mentre Venezia doveva ricorrere a mercenari. Infine il partito della pace ebbe il sopravvento sui fautori della guerra ad oltranza. A trattare le dure condizioni poste dal vincitore, furono inviati a Zara Pietro Trevisan, Giovanni Gradenigo e il cancellier grande Benintendi. Recavano in dono "un grifalco e due falconi"che erano stati donati al doge dal re dei Tartari.
Il trattato di pace del 18 febbr. 1358 con Ludovico d'Ungheria determinò un mutamento repentino del titolo ducale. Da "Dux Venetiarum, Dalmatiae et Chroatiae et Dominus quartae partis et dimidiae totius Imperii Romaniae", forma usata sin dai tempi di Pietro Ziani, si passò al conciso "Dei gratia dux Veneciarum et cetera", che rimase inalterato fino alla caduta della Repubblica. Al re passò la Dalmazia da Durazzo fino al Quarnaro, con le sue città, dove ai sudditi veneziani non fu più concesso possedere beni. Dal canto suo Ludovico si impegnò a non armare navi da guerra, e ad osteggiare la pirateria e a restituire a Venezia - impegnata a sua volta con analoghe condizioni - Treviso, il Trevigiano, il Cenedese e i territori occupati nell'ultimo anno di guerra. Pubblicata la pace, Zara, Ragusa, Arbe, Pago, Lesina e Curzola furono consegnate agli Ungheresi, che dal canto loro restituirono ai Veneziani Conegliano, Serravalle, Asolo e Valmarino. Insieme col titolo, cambiò anche la legenda delle bolle ducali che, se pendenti a documenti emessi dopo il 18 febbraio, recano la formula abbreviata. In seguito fu poi stipulata anche la pace con Padova. Per l'occasione Francesco da Carrara si recò personalmente a Venezia, onorevolmente ricevuto e festeggiato nel suo palazzo presso la chiesa di S. Polo. Questo però non valse a rendere sicura l'ambigua amicizia. Nello stesso periodo il Carrara fece erigere due fortezze sulle principali vie d'acqua (Brenta e Bacchiglione) che univano la laguna alla Terraferma; di rimando Venezia fortificava Lizza Fusina.
La perdita della Dalmazia rendeva indispensabile il consolidamento del possesso della marca trevigiana, acquistata da Verona che però non ne deteneva un possesso legittimato. A questo proposito furono inviati ambasciatori all'imperatore Carlo IV di Boemia per chiedere l'investitura feudale. Ma le esorbitanti pretese di questo resero tanto difficili le trattative da indurre la Repubblica a richiamare due degli inviati (Marco Corner e Giovanni Gradenigo), lasciando il compito delle trattative a Lorenzo Celsi (futuro doge nel 1361). Un'ulteriore umiliazione dovette provare il D. quando giunse a Venezia la notizia dell'arresto del Corner e del Gradenigo mentre attraversavano le terre del castellano di Sench. Vane furono le numerose iniziative diplomatiche in loro favore presso Alberto duca d'Austria ed il patriarca d'Aquileia. La vicenda fu risolta solo nel marzo 1362, quando il D. non era più in vita. Anche le difficili relazioni con gli Ungheresi mettevano a dura prova la diplomazia veneziana.Nel 1360 un'ambasceria a Ludovico, composta da Andrea Contarini e Pietro Trevisan accompagnati dal cancelliere Benintendi, si dovette dedicare alla definizione di alcuni incidenti che avevano rischiato di incrinare la recente pace.
Alle amarezze pubbliche si unirono tristi vicende private aggravate da preoccupazioni economiche che angustiarono il D., facendogli presagire l'imminente fine. Nel febbraio 1360 scoppiò una nuova pestilenza (ad alta mortalità infantile) che colpì anche la famiglia del doge. Si estinsero, senza lasciare eredi, dieci nobili casate. Preoccupato per l'avvenire della propria - con la morte del figlio maggiore e della moglie era composta solo da vecchi o da giovanissimi (figli e generi non avevano ancora diciott'anni) - il 25 luglio 1360 davanti al cancelliere Benintendi, a palazzo, il D. dettò il proprio testamento.
Inutilmente curato dal medico Albertino da Padova, il D. morì a Venezia il 22 luglio 1361 e fu sepolto secondo il suo desiderio nell'arca marmorea fatta da lui stesso costruire nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. Prima di essere spostata nella cappella a sinistra dell'altare, per lasciare posto al monumento funebre del doge Andrea Vendramin, essa si trovava nella cappella maggiore, sorretta da due mensoloni dorati e fregiati dell'arma di famiglia (d'azzurro e tre delfini d'oro).
Il pregevole sarcofago gotico è ornato di bassorilievi con la vita di Cristo; nel prospetto, dinnanzi al Salvatore, stanno inginocchiati la dogaressa e il doge. Gli esecutori testamentari, i procuratori di S. Marco, dovettero saldarne il conto il 2 marzo 1362 pagando 59 ducati d'oro al tagliapietra Andrea da San Felice. Sempre alla chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo il D. lasciò 100 ducati per la costruzione del suo monumento funebre e altre offerte in suffragio della propria anima. Il 21 marzo 1362 i giudici del Procurador stabilirono che con 1100 ducati sarebbe stata pavimentata la cappella maggiore. Altri lasciti andavano ai minori conventuali, al capitolo di S. Marco e alla Scuola di S. Maria della Valverde, di cui il D. era confratello. Morendo, il D. beneficò anche i suoi servitori: affrancava la schiava Cristina, cui lasciava congrua dote; 40 ducati erano per le nozze di Girardina, governante, e una piccola somma andava a Guertia, che abitava in casa della suocera. Il D. doveva unire all'attitudine politica interessi filosofico-letterari, come testimonia la presenza, fra i manoscritti della sua biblioteca, posta in vendita dagli esecutori testamentari, delle opere di Severino Boezio e di Dante Alighieri. Fu venduta in quell'occasione una Divina Commedia con glosse.
Durante il dogado del D. furono coniate le seguenti monete: lo zecchino (aureo), il soldino (argenteo), il soldino, il piccolo o denaro, il tornesello. Un ritratto del D. si trova in palazzo ducale a Venezia, nella sala del Maggior Consiglio di fronte al trono dogale, con la legenda "Taruisium obsidione liberum feci pace cum hungaris inita".
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