DOLFIN, Giovanni
Nasce a Venezia, attorno al 1490 da Lorenzo (1468-1527) di Giovanni e da Lucrezia di Bernardo Contarini.
Figura, sotto il profilo politico, piuttosto slavata quella del padre del D., ché non va al di là dei poco prestigiosi "Dieci offici", cui risulta preposto all'inizio del Cinquecento, mentre la sua successiva candidatura - riscontrabile nel 1505-1507 e, di nuovo e per l'ultima volta, nel 1510 - a bailo a Costantinopoli - ottiene nelle votazioni pochissimi suffragi. E forse nuoce alla mancata affermazione di Lorenzo il discredito caduto sul fratello (e zio, quindi, del D.) maggiore Francesco (che muore nel 1520) alla cui "pocha diligentia" viene addebitata la perdita, all'inizio d'ottobre del 1509, di Raspo, in Istria, della quale era capitano. Fuggito a Venezia, annota Sanuto, Francesco Dolfin si rintana avvilito tra le pareti domestiche, sinché, il 7 novembre, giunta notizia del ricupero veneto della cittadina "vene fuor di caxa senza dir altro". Pure il diarista Girolamo Priuli, dopo aver sottolineato che all'arrivo dei Tedeschi, egli "no hera in la citade" essendo "andato a solazo", registra lo star "molti giorni abscosso in caxa" di Francesco "per vergogna", deprecando, in più, l'assenza di qualsiasi pubblica riprovazione per il suo comportamento, per il quale, invece, "meritava esser chastigato et punito" esemplarmente, "per exemplo - appunto - de altri" ed affinché nessuno avesse più l'impudenza di "scampare senza vedere li inimici et senza legitima cauxa abandonando le citade a loro comesse" (Idiari, in Rerum Ital. Script., 2 ediz., XXIV, 3, a cura di R. Cessi, pp. 386-387, 390-391). Rimarcato, di contro, positivamente nelle memorie lagunari il dono, a garanzia d'un prestito di 25 ducati d'oro, alla Scuola di S. Marco fatto, il 22 ag. 1509, da Lorenzo, il padre del D., del prezioso e miracoloso anello d'oro cesellato (R. Gallo, Il tesoro di S. Marco, Venezia-Roma 1967, pp. 101-103) costituente da secoli il vanto della famiglia. L'avrebbe donato, in occasione della fantomatica apparitio del 1049 (questione alquanto pasticciata sulla quale s'ingegna di metter ordine R. Cessi in una "Notizia" in "Archivio veneto", s. 5, LXXV [1964], pp. 113-115, e in Venezia ducale, II, 1, Venezia 1965, pp. 165-166) lo stesso s. Marco, repentinamente sbucato da una colonna della basilica marciana, ad un antenato del D. (Domenico, stando alla maggior parte delle affabulazioni o, secondo altre, Giovanni Dolfin). Commosso dalla sua devozione l'evangelista si sarebbe tolto dal dito l'anello e gliel'avrebbe dato "al cospetto di ogn'uno", mentre, per altre versioni dell'episodio, il Dolfin, primo a scorgere lo sporgersi del braccio del santo dalla colonna, "dove è l'altar di s. Giacomo", "non essendo chi lo vedesse, li cavò l'anello del ditto". Fatto sta che quest'anello, ritenuto capace di sanare gli infermi, esibito con orgoglio nelle processioni dalla Scuola di S. Marco (e con lustro, quindi, anche della famiglia del D., essendo notorio ch'era stato, come ricorda Sanuto, "abuto per cha Dolfin da San Salvador"), sarà rubato, nel 1574, da tal Nadalin da Trento. Un furto sacrilego latore di sventura ché, mentre l'anello viene fuso, il figlioletto del ladro cade nel crogiolo morendo atrocemente. Né lo sciagurato padre riesce a gudagnare gran che: ridotto l'anello a "verghetta", lo vende ad un orefice per appena un ducato, risultando d'"oro basso". E, mentre il ladro, scoperto, viene crudelmente giustiziato, la "verghetta", appena posta dall'acquirente nella borsa, "sparve". Così almeno, racconta il canonico Giovanni Stringa nella Vita di s. Marco ... (Venetia 1610, ff. 58r-61r).
Quanto al D. - da non confondere coll'omonimo Giovanni Dolfin di Girolamo, rettore a Feltre nel 1506-1507 ed energico combattente durante la guerra cambraica - entra, grazie all'estrazione del 17 marzo 1510 della balla d'oro, prima dei venticinque anni previsti dalla legge, in Maggior Consiglio. E lo stesso capita l'anno dopo al suo fratello minore Bernardo che sarà podestà di Camposampiero, vicesopracomito e sopracomito e morrà nel 1524. Ufficiale alla ternaria vecchia nel 1515, il D. viene eletto, nel maggio del 1516, membro della Quarantia civil, mentre - per quanto offra centinaia di ducati in prestito e il "don" - non racimola voti sufficienti per diventare auditor vecchio, camerlengo e castellano a Veglia, capitano di Corfù, conte e provveditore di Lesina, capitano di Raspo, la stessa località, cioè, dove suo zio non ha certo ben figurato. Una difficoltà d'avvio che ben presto si sblocca se il D., dopo aver fatto parte della Quarantia criminal ed essere stato capo di quella civile, viene nominato savio agli Ordini nel marzo del 1518, veste nella quale, l'11 settembre, pronuncia "una bona renga" sull'"indusiar" delle partenze, a parte dei padroni dell'Arsenale, "per aver i noli di le nave". Rientrato nella Quarantia criminale, nel 1519 il D. è pure sindaco di S. Marco e sta a lui, l'11 maggio, introdurre "il caso per manzarie fatte e altre enonne cosse" nel "processo" contro i due scrivani dei signori di Notte. Tra i capi della Quarantia dall'aprile del 1520, nel medesimo anno il D. è attivo "compagno" della Compagnia della calza dettasi degli Immortali, la quale - a sottolineare l'ammissione di Federico Gonzaga - realizza, il 13 febbraio, a palazzo Foscari a S. Simeon Piccolo, un'eccezionale festa, "la più bella" che mai sia stata "fatta in questa terra" assicura Sanuto, mobilitante l'intera zona circostante, con cacce di tori, balli, fuochi e uno stupefacente corteo allegorico. Segue una grandiosa cena per trecentocinquanta persone, dopo la quale "uno nominato Ruzante" - col che Sanuto fa capire che questi non è ancora noto a Venezia - recita "excellentissimamente" una "comedia a la vilanesca". Ricomparso, in maggio, il marchese di Mantova a Venezia, il 27 il D., "con alcuni altri" degli Immortali, chiede ufficialmente alla Signoria la concessione - già promessagli personalmente dal doge un paio di giorni prima - di piazza S. Marco "per far il soler" necessario alla splendida rappresentazione progettata per festeggiare l'illustre ospite. E, nello spettacolo, che si svolge il 29, il D. è ra i ventisette "compagni" cui si deve l'attuazione della grandiosa iniziativa.
Né questo adoperarsi del D. va liquidato come risvolto frivolo e gaudente. Le feste degli Immortali hanno, in tale occasione, finalità politiche: guadagnano a Venezia l'animo del figlio di Francesco II, già prigioniero, una decina d'anni prima, della Repubblica; suscitando l'ammirazione popolare, rafforzano, in fin dei conti, tramite il divertimento elargito, il consenso al reggimento aristocratico. Non per niente l'impegno mondano del D. s'accompagna alla non interrotta serietà della sua presenza politica che gli fa proporre, proprio alla fine di maggio, assieme ad Alvise Mocenigo, che - ad evitare lo smarrimento dei fascicoli processuali - "si tegni" precisa annotazione de "diti processi dati a li avogadori", i quali, d'ora in poi, non possano trattenerli a casa più di quindici giorni. E la proposta viene approvata a gran maggioranza dal Senato.
Nella lista, all'inizio del 1521, dei ventitré patrizi ai quali, avendo compiuto i trent'anni ed essendo stati gavi agli Ordini, viene riconosciuto, previo versamento d'un prestito (e il D. offre, come il più degli altri, 25 ducati), il diritto d'accedere al Consiglio dei dieci, il D. è, nel marzo 1524-aprile 1525, rettore di Bassano, quando questa è investita da una febbrile attività edilizia volta ad imprimerle, dopo i saccheggi e le devastazioni belliche, un'immagine ampiamente rinnovata. È durante il rettorato del D. e non senza suo diretto interessamento - con lui, infatti, stipulano il relativo contratto i proti e i mureri - che si costruisce, parte, quanto meno il pilone, in pietra e parte in legno, il "ponte bellissimo et novo" sul Brenta, il quale, però, il 3 ott. 1526, crollerà non reggendo il furibondo impeto delle "grandissime acque" del fiume in piena. Il D., frattanto, è rientrato a Venezia dove, nel 1525, si sposa con Chiara di Andrea Vendramin e dispone - unico erede dopo la morte, nell'aprile del 1524, del fratello Bernardo, del padre Lorenzo che muore il 1º ag. 1527 - d'un cospicuo patrimonio immobiliare e fondiario costituito coi proventi della navigazione marittima. E il D. dà l'impressione d'avere a che fare coll'attività armatoriale laddove, volendo "varar la sua nave", gli si concedono, ancora nel dicembre del 1525, "vasi, palancole et zochi da l'Arsenale"; una grande marciliana proveniente da Alessandria con un carico di spezie di sua spettanza viene catturata, nel 1530, da due galeoni francesi; sua la "nave" giungente coi suoi "formenti" felicemente a Venezia "dal Zaffo" il 18 luglio 1528 dopo essere fortunosamente scampata, nei pressi di "Strovilli", all'assalto di "14 fuste de mori".
Interessi sul mare che non lo distolgono, comunque, dalla politica. Questa resta l'asse portante della sua esistenza. Della commissione, eletta il 9 giugno 1525, degli otto savi incaricati di riesaminare la tassazione imposta, dai quindici savi "sopra le Tanse", a "molte povere et miserabel persone", colla possibilità di attenuare e anche annullare le decisioni di quelli, se così a detta commissione parrà in "conscientia", il D. è quindi provveditore sopra la Revisione dei conti e viene, altresì, grazie al cospicuo esborso di 1.500 ducati, eletto, nell'agosto del 1526, avogador straordinario di Comun. Successivamente avogador ordinario, l'11 ag. 1527 subentra - ancora una volta come avogador straordinario - ad Alvise Bon, sostenendo (nel conflitto di competenza "zerca lo andar per le Camere" sorto tra i provveditori sopra queste e, appunto, gli avogadori straordinari), con un lungo ed articolato discorso pronunciato il 10 ottobre, il diritto d'accesso dei secondi, in ciò contraddetto dal provveditor sopra le Camere Marcantonio Barbarigo. Una presa di posizione, quella del D., che suscita pesanti insinuazioni nei suoi confronti al punto che, esasperato, il 31, chiede, con supplica presentata in Collegio, "sia dà taia" - che egli è disposto a pagar di persona - da parte del Consiglio dei dieci contro l'anonimo "autor" di voci calunniose. Né per queste s'ammorbidisce la sua intransigenza: esige severi provvedimenti contro i casi di corruzione verificatisi a Cipro; vuol sindacare l'operato non solo di semplici scrivani venali, ma anche di autorevoli patrizi; vieppiù accentua la sua inclinazione ad opporsi alle scarcerazioni e a perorare ulteriori carcerazioni. Un atteggiamento urtante che provoca la ripulsa unanime, del 20 apr. 1528, dei consiglieri alla sua richiesta alla Signoria di subentrare come avogador ordinario al defunto Alvise Bon. Comprensibile, d'altronde, quest'aspirazione del D., ché, se accontentato, avrebbe goduto di più ampie e sicure prerogative. Tant'è che, il 19 giugno, dovendo "andar in campo in Lombardia a veder le monede forestiere" che ivi "si spende", il D. obietta al Consiglio dei dieci l'inopportunità d'affidargli tale incarico, visto che egli non può "li rei menar, per non esser ordinario". Donde, appunto, l'invio, al suo posto, dell'avogador ordinario Marcantonio Contarini, al quale, peraltro, il 1º settembre, il D. subentra potendo così - finalmente ridivenuto avogador ordinario - dispiegare con più autorità il suo severo orientamento. Nella riunione, del 26 novembre, che vede riunite la Quarantia criminale e quella civil vecchia, il D. s'è "portato benissimo", annota Sanuto, venendo "laudato da tutti" gli astanti, "siché - precisa Sanuto - li rei saranno conventi". S'afferma, inoltre, il 4 dicembre, il principio da lui sostenuto per cui non è lecito - e ciò vale per due patrizi di riguardo disposti a rilasciare, a titolo di cauzione, una fideiussione - uscire di prigione se non assicurando "l'officio di danari o tanti pegni mobili".
Ormai distintosi come personalità energica, l'elezione, del 31 dicembre, a savio di Terraferma suona come riconoscimento. Pressata la Repubblica dall'esigenza di rastrellare denaro, il D. è, in tale veste, nel 1529 tra i più attivi nell'escogitare provvedimenti atti a produrre una tempestiva disponibilità pecuniaria; è tra i più decisi ed inventivi nella volontà di procedere nell'elaborazione d'incisivi meccanismi tributari; è tra i più conseguenti nella determinazione di imporre il massimo di mobilitazione coinvolgendo anche il clero. Inoltre, nel marzo, caldeggia, assieme a Giovanni Contarini, che a Francesco I, pronto a scendere in Italia se così farà Carlo V, si fornisca, oltre al pattuito sostegno in uomini e armi, per tutta la durata della campagna, la somma mensile di 20.000 ducati. Ma la sua "savia e bona renga" non ha successo; prevalgono quanti - sostengono l'eccessiva onerosità d'un simile esborso. Designato, il 26 maggio, capitano a Bergamo, il D. preferisce accettare la successiva nomina, del 18 giugno, alla carica, ben più importante, di provveditore generale in Campo. Partito da Venezia con 10.000 ducati, cui s'aggiungono 15.000 raccolti man mano, tocca Padova Vicenza Verona Brescia Bergamo Crema; il D. giunge a destinazione il 17 luglio accolto festosamente "da tutti per aver portato danari". Procedendo d'intesa col duca d'Urbino Francesco Maria Della Rovere, governatore generale delle milizie venete, il D. - mentre la situazione rapidamente muta: il papa e l'imperatore addivengono alla pace, Francesco I, lungi dall'entrare in Italia, s'accorda col secondo, gli Spagnoli s'insediano a Milano - si porta, il 30 agosto, a Verona donde controlla il settore veronese e vicentino. E, quando le vicende belliche - delle quali riferisce meticolosamente al Senato - si concludono definitivamente in dicembre, il D. rimane suggestionato dall'ampio e unitario disegno d'articolata riorganizzazione difensiva del territorio concepito da Della Rovere e caldeggia, in particolare, il radicale rinnovamento delle strutture fortificatorie di Vicenza che risulta tappa fondamentale nell'attuazione del progetto globale del duca d'Urbino. È il D. che, il 2 genn. 1530, descrive le prime linee della reimpostazione delle difese urbane di quella città, le quali prevedono - come vuole Della Rovere - di "lassar el monte fuora", stringendo, nel contempo, Vicenza con una cinta di due miglia e mezzo attorniata, a sua volta, da un fossato utilizzante l'acqua dei Bacchiglione. Né la richiesta licenza, giunta a Venezia l'11 gennaio, di "repatriar" intacca l'energia colla quale il D. sovrintende al ripristino della vita civile e dispone - per Carlo V, che il D. deve incontrare e scortare, attraversante le terre venete per rientrare in Germania - la "mostra d'arme" a Villafranca organizzata con abile regia. Né, nel maggio, il D. - in procinto di ritornare a Venezia dove viene nominato senatore - dimentica di lamentare l'inerzia governativa riguardo alla fortificazione di Vicenza: "nula si fa", protesta, nonostante la delibera esecutiva.
Sensibile all'esigenza d'una programmazione generale che investa tutto il territorio della Serenissima, che sappia, auspicabilmente, coniugare l'urgenza d'un rafforzamento delle difese di Terraferma con un'ulteriore attrezzatura valida a fronteggiare la minaccia turca, partecipe o, quanto meno, non ignaro dell'accidentato travaglio ridefinitorio in corso di svolgimento sfociato, con la legge senatoria del 17 dic. 1531, in un vasto programma di riforma razionalizzante la plurisecolare aggrovigliata sedimentazione giuridico-statutaria costituente il diritto veneto, il D. s'impone come politico di spicco. Designato rappresentante la Serenissima nelle pendenze veneto-arciducali, savio di Terraferma, provveditore all'Arsenale, il D., il 26 maggio 1532, viene eletto podestà di Verona. Una podestaria ambiziosa questa del D. (disturbato però nella sua propensione all'aulicità dalla condotta scandalosa di fratacci stupratori e pederasti, a proposito dei quali scrive, nell'aprile-agosto 1533, ai capi del Consiglio dei dieci. Non dà segno, tuttavia, di grande intuito laddove, sbigottito dalle boccaccesche tresche tra i francescani di S. Fermo e le monache di S. Maria Maddalena, se la prende con la "maledicta giesia lutterana", quasi sia l'eresia ad ispirare le "scripture disonestissime" delle missive fratesche a suore conniventi), protesa a marcare la città con segni capaci di riecheggiare la renovatio urbanistico-architettonica che sta, durante il dogado grittiano, qualificando Venezia. Donde il riparo accurato degli argini danneggiati dall'inondazione dell'Adige dell'ottobre del 1532, la lastricazione della via del Corso nel suo tratto principale da S. Anastasia a Castelvecchio, la collocazione enfatizzante del leone marciano nel palazzo podestarile e soprattutto, l'avviata erezione della porta Nuova, vistosissimo intervento edificatorio condotto all'insegna della "magnificenza" maestosamente intimidatoria della sua massiccia gagliardia di struttura militare destinata ad una eminente funzione civile, pel quale il D. - non dimentico di farvi figurare nome e stemma - si rivolge a Michele Sanmicheli da lui già apprezzato, ancora nel 1529, per l'impianto della struttura difensiva di Legnago.
Ma la committenza del D. non significa fiducioso affidamento all'autonomia professionale e alla competenza dell'architetto; pesante è la sua ingerenza nella progettazione al punto che Vasari attribuirà alla sua autoritaria inframettenza la sproporzione - che compromette l'armonia del manufatto - derivante da un'eccessiva larghezza e da un'altezza troppo ridotta, sin schiacciata.
Incaricato (19 apr. 1533) di dirimere a Trento, col commissario del re dei Romani Ferdinando I Niccolò di Trautsmansdorf, le questioni confinarie tra i sudditi austriaci di Avio e quelli veneti di Belluno Veronese, il D. si reca di nuovo a Trento il 10 settembre, forte del mandato, del 10 agosto, di Marino Grimani grazie al quale è pure procuratore del patriarca d'Aquileia, ben attento, comunque, ad assicurare il commissario austriaco Raimondo Dornberg dell'indipendenza del patriarcato dalla Serenissima, ché è, appunto, convinzione di Ferdinando I - la ricorderà anni dopo il nunzio Pontificio a Venezia A. Bolognetti - che i Veneziani "non potevano ingerirsi nelle cose del patriarca signore separato". Portatosi in Istria, per "assettar", assieme ai "commissari" asburgici, "li confini tra loro", il D. - come informa, il 28 ottobre, un cronista udinese - giunge poi a Gradisca "per far lo medemo in Friuli". Infine si sposta a Trento dove interviene al congresso - che, iniziato a fine giugno, si protrae sino a fine luglio del 1535 - il 24 novembre e il 1º dic 1533. E determinante è la sua presenza nelle ultime battute di questo quando, col titolo d'ambasciatore, rappresenta la Serenissima con delega, del 5 luglio 1535, per la ratifica della sentenza conclusiva. Altro incarico, peraltro più di spicco e, insieme, meno faticoso, diplomatico del D. - che, nel frattempo, tra l'autunno del 1533 e quello del 1535, è della "zonta" del Pregadi, del Consiglio dei dieci e capo di questo, avogador di Comun, della zonta del Consiglio dei dieci e di nuovo capo di questo - la designazione, del 4 sett. 1535, a membro, con Tommaso Contarini, Marco Foscari e Vincenzo Grimani, d'un'ambasceria straordinaria a Carlo V. I quattro, una volta avuta la relativa commissione dell'11 dicembre, giungono a Napoli il 22 ufficialmente per congratularsi coll'imperatore reduce dall'Africa, non senza sconcerto e dispetto del primo consigliere signore di Granvelle quando li appura privi di un mandato relativo alla "confirmatione della lega" o a "qualche altra cosa di momento". In effetti la missione dei quattro, al di là dei complimenti, è solamente esplorativa. Morto, il 1º novembre, Francesco Sforza, si tratta d'intendere le intenzioni imperiali su Milano appetitissima dalla Francia e di verificare l'attendibilità delle voci di matrimonio tra Alessandro de' Medici e Margherita, figlia naturale di Carlo V. Questi, comunque, è tranquillizzante: niente gli sta più a cuore della "pace", ché, assicura, non lo sospinge "alcuna cupidità di Stato". Donde la proposta della ratifica della lega "tra me e la Signoria non altrimenti che se il duca Francesco vivesse". Un invito cui la Repubblica aderisce sollecita: ripartita la commissione alla volta di Venezia il 16 genn. 1536, non appena giunta, la lega, il 24, viene rinnovata.
Eletto, il 12 marzo, capitano a Padova, dove si insedia il 24 settembre per partirne il 16 sett. 1537, il D. s'impegna nella riorganizzazione della "cittadella" all'interno d'una città sempre più insofferente dello stravolgimento del suo volto civile indotto da interventi dettati da esigenze difensive che le sono estranee. Di nuovo a Venezia il D., tra il 1537 e il 1541, figura nel Consiglio dei dieci, capo di questo, in Senato, nella zonta di questo. Dei quattro, nel 1537, incaricati di visitare a Murano il duca d'Urbino, il D. si scontra altresì, nel 1539, violentemente in Senato con Marcantonio Corner in fatto di politica estera. Veemente l'attacco del D. al collega, del pari aspra la replica di questo. Un episodio talmente clamoroso che ne giunge eco a Udine, dove, in data 5 aprile, un diarista lo registra come "gran disturbo in quel Senato maggior che fusse da molto tempo in qua". Quando, poi, scoppia il caso Cavazza (vale a dire lo scandalo dei due fratelli Niccolò e Costantino, segretari accusati di propalazione di segreti di Stato), nel ronzio pettegolo dei sussurri, nel rabbioso allargarsi delle accuse si fa, con sempre maggiore insistenza, pure il nome del Dolfin. Il tradimento dei due Cavazza è percepito come sintomo d'una corruzione che alligna nella stessa classe dirigente, nella quale, si va dicendo, "come il re di Francia" ha "tanta auttorità", così "anco l'imperatore" conta sui suoi "salariadi", a loro volta rivelatori di "segreti". Si allarga a dismisura l'ombra del sospetto, mentre - così, il 6 sett. 1542, l'ambasciatore gonzaghesco Benedetto Agnello al castellano di Mantova Giovan Giacomo Calandra - le indagini s'estendono a "tutti quelli che scoprivano li loro secreti" investendo anche i nobili, sicché "ultimamente" è stato arrestato il savio agli Ordini Francesco Giustinian. Corre "qualche parola" dell'autorevolissimo Marco Foscari, già compagno d'ambasceria del D., che, a sua volta, di questo è ancor più chiacchierato. "Si parla assai - scrive infatti del D. l'agente mantovano - che serà ritenuto". In fin dei conti è un Dolfin quell'Ermolao Dolfin - ma non è parente del D. come si insinua a sproposito; è figlio dell'Alvise (1478-1513) già provveditor generale in Friuli - che "sapeva ogni cosa" e che viene bandito per aver agevolata la fuga di Costantino Cavazza. "Debole", si protesta, con questo la "giustitia". Il bando è "poca pena" rispetto alla gravità della sua colpa. Quanto al D., nessuno osa rimproverargli pubblicamente alcunché, né gli viene mosso alcun addebito specifico. Molte però le "ciance" dietro le spalle. Ed egli, per "cavarle di testa al volgo", si reca a bella posta, fieramente, sì che tutti lo vedano) "spesso, anzi di continuo in corte di palazzo". Ma "il disgusto e dispiacere", che nel Maggior Consiglio dilaga nei confronti dei vertici della classe dirigente (la sbrigativa conclusione del caso Cavazza è vista come elusione di presunte connivenze e complicità attribuite, rancorosamente più che fondatamente, al settore più influente del patriziato dal patriziato di minor prestigio e ricchezza), si esprime "con far cascar", il 30 settembre, "de zonta de Pregadi" - oltre a Francesco Morosini "inquisitor delli secreti" reo d'"aver diffeso" Ermolao Dolfin, oltre al fratello di quest'ultimo Giacomo, oltre ad Antonio Venier ed Antonio Dandolo - pure il D. "come sospetto - così un dettagliato racconto del caso Cavazza e delle sue conseguenze - d'esser stato subornato dal duce d'Urbino", Guidobaldo II Della Rovere, "e da Cesare Fregoso" (già comandante della cavalleria veneta e poi passato al servizio della Francia, morto, nel 1541, mentre si portava per un'ambasceria a Venezia), "con tutto che - aggiunge la stessa fonte - non fosse stato nominato da alcuno delli rei".
Una cocente umiliazione lo smacco di questa mancata elezione per il D., già capo del Consiglio dei dieci. Per fortuna dispone di mezzi sufficienti - un'affrancazione di livello del 12 marzo 1541 ed una ricevuta di quietanza del 5 nov. 1543 l'attestano anche non disattento proprietario terriero - per far valere altrimenti il suo orgoglio. Può ben imporre, in Riva del Ferro, la connotata e connotante fabbrica del palazzo (sede dal 1867 della Banca d'Italia, radicalmente alterato all'interno, all'inizio dell'Ottocento, da Giannantonio Selva quand'era proprietà dell'ultimo doge Lodovico Manin, rimane, dell'aspetto originario, solo la facciata esterna prospiciente sul Canal Grande) eretto, tra il 1536 e il 1540 e proseguito dal 1545, sull'assieme frazionato d'immobili già del padre a S. Salvador, su "modello" fornito da Iacopo Sansovino, come preciserà nella guida di Venezia il figlio di questo Francesco, forse così intendendo più che un progetto compiuto e rispettato un'idea iniziale. Il D., infatti, committente travalicante e debordante, deve aver preferito - accentuando quell'ingerenza di cui aveva dato prova con la porta Nuova veronese - provvedere direttamente a seguire i lavori del cantiere disponendo per proprio conto e di testa propria. Comunque sia, accomunando il palazzo Dolfin a quello dei Loredana S. Marcuola, dei Grimani a S. Luca, dei Corner a S. Maurizio, tutti caratterizzati da soggiogante linguaggio architettonico, da "artificio di pietre vive", da eminenza maestosamente ammonente, tutti richiedenti per la costruzione una spesa eccedente i 200.000 ducati, Francesco Sansovino lo giudicherà uno dei quattro "principalissimi di tutti i palazzi" sul Canal Grande, apprezzandone in particolare l'estensione su "gran spatio di terreno", la "ben intesa facciata", il "cortile nel mezzo circondato di loggie all'usanza romana", le "larghissime et commode stanze". Col che, al di là delle oscillazioni insite nella vita politica (ultima traccia della presenza del D. il comparire del suo nome tra i votati, l'11 nov. 1546, per subentrare, nel Consiglio dei dieci, a Sebastiano Malipiero), il D. imprime il suo marchio indelebile su di un punto centralissimo della città. Inevitabile il contemplarlo con invidia e con ammirazione.
Il D. muore a Venezia il 22 luglio 1547.
Dalla moglie ha avuto una figlia - Elisabetta che sposa Andrea Pisani e, rimasta vedova, Niccolò Foscari e, di nuovo vedova, Paolo Tiepolo - e cinque figli: Lorenzo (1530-1590) che sarà "sopra gli Otto" e della "zonta ordinaria" del Senato; Francesco (1534-1570) che sarà rettore a Chioggia e governatore di galea; Bernardo che, nato nel 1539, avrà breve vita; Andrea (1541-1602); Bernardo (1542-1605). Ed è Andrea, il quartogenito, quello che più si distingue. Quand'è camerlengo, nel 1562, figura tra i quattordici fondatori della Compagnia degli accesi. Grosso finanziere, sottrae la propria personale fortuna - che da un prospetto da lui compilato risulta articolatamente differenziata in livelli i quali offrono il più alto interesse annuo, superiore al 6%, titoli pubblici, case, altri immobili, gioie - agli sconquassi che investono, nel secondo Cinquecento, i banchi privati. Suscita scalpore la sua elezione, del 15 nov. 1573, a procurator di S. Marco de supra, previo il versamento della somma - enorme, pari a quasi un decimo delle spese sostenute per l'erezione del palazzo di famiglia, dove, nel 1562, si tiene, per sua volontà una grandiosa "festa" - di 20.000 ducati. "In ricchezza primo della città" lo definisce lo storico Niccolò Contarini. Tragica, però, la fine di Andrea, il quale risulta savio all'Eresia alla fine del 1596 e nell'autunno del 1599 nonché savio grande nel 1601, ché muore ammazzato nel 1602, l'anno successivo all'erezione della sua suggestiva villa (i cui caratteri stilistici autorizzano a supporre autore persino Vincenzo Scamozzi) a San Germano Campolongo nel Vicentino. Nella chiesa di S. Salvador, vicina al palazzo di famiglia, nella navata destra, viene eretto a lui e alla moglie Benedetta Pisani, scomparsa nel 1599, un monumento funebre opera di Giulio del Moro mentre i busti dei due coniugi sono attribuiti a Girolamo Campagna.
Fonti e Bibl.: Il D., il grosso della cui attività politica è ricostruibile sino al 1533 colla scorta sicura dei Diarii sanutiani, è oggetto del focalizzante contributo monografico di A. Foscari, Il "cursus honorum" di Z. D…, in Ateneo veneto, n. s., XX (1982), pp. 205-236. Si rinvia pertanto alle fonti e bibl. quivi indicate, solo riprendendo un paio di titoli - e precisamente: E. A. Cicogna, Delle inscriz. veneziane..., II, Venezia 1827, pp. 66, 75; IV, ibid. 1834, p. 21; VI, ibid. 1853, pp. 204, 281, 603; L. Venturi, Le Compagnie della Calza, in Nuovo Archivio veneto, n. s., XVII (1909), pp. 156, 212 (a p. 217 il figlio Andrea) - per precisare le pp. di pertinenza del Dolfin. E, inoltre, si aggiungono le seguenti fonti e bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 159/1 alla data di morte; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci. Lett. di rettori e di altre cariche, bb. 192, n. 178 e 193 nn. 3, 5-9, 11, 12, 14, 16, 17; Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, Mss. P.D., C, 671/77; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 785 (7292), miscellanea con trascrizione della sentenza tridentina del 17 giugno 1535 sottoscritta dal D. e riepilogo delle trattative successive alla morte di Francesco Sforza, ove concernono il D. le cc. 162r-185v, 210v-211r, 213v, 215r, 229r; Ibid., Mss. It., cl. VII, 820 (8899), 821 (8900), 822 (8901), 823 (8902): Raccolta de' consegi..., VIII, cc. 84r, 179r, 228r, 253r, 325r e IX, cc. 2r, 106r, 302r e X, cc. 35v, 99r e XI, C. 47; Ibid., Mss. It., cl. VII, 2579 (12471): Successi de' secretari... 1542, non num.; Regesten zur deutschen Geschichte aus den Handschriften der Marcusbibliothek…, a cura di G. Valentinelli, München 1865, nn. 996, 1902, 1006, 1013; Calendar of State papers relating to English affairs... in ... Venice, IV, a cura di R. Brown, London 1871, p. 241; L. e G. Amaseo-G. A. Azio, Diarii udinesi..., Venezia 1884-85, pp. 341, 454; G. Pellicier, Correspondance politique…, Paris 1899, p. 402; I Libri commemoriali della Rep. di Venezia. Regesti..., a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, p. 214; Nunziature di Venezia, II, a cura di F. Gaeta, Roma 1960, pp. 34, 45, 49; Lettere di negozi del... Cinquecento, a cura di B. Nicolini, Bologna 1965, pp. 22, 174 n. 13; Relazioni di amb. ven. ..., a cura di L. Firpo, II, Torino 1970, p. XV; Relazioni dei rettori..., a cura di A. Tagliaferri, IV, Milano 1975, p. LIV; IX, ibid. 1977, p. LXXX; P. Paruta, Hist. vin., in Degl'istorici delle cose ven., III, Venezia 1718, pp. 586, 641; P. Sarpi, Venezia, il patriarcato di Aquileia..., a cura di C. Pin, Udine 1985, pp. 208, 215-216, 236; A. Gloria, I podestà e capitani diPadova..., Padova 1861, p. 17; G. Cappelletti, Storia di Padova, II, Padova 1875, p. 279; O. Brentari, Storia di Bassano, Bassano 1884, p. 464; L. Dolfin, Una famiglia... i Dolfin..., Genova 1904, pp. 38-39; R. Gallo, Contributi su J. Sansovino, in Saggie mem. di storia dell'arte, I (1957), p. 87; Disp. degli amb. al Senato. Indice, Roma 1959, p. 93; A. Stella, Chiesa e Stato nelle rel. dei nunzi... a Venezia..., Città del Vaticano 1964, p. 142; A. Prosperi, Fra evangelismo e Controriforma: G. M. Giberti..., Roma 1969, pp. 162-164, 188-189; E. Concina, La macchina territoriale..., Bari-Roma 1983, pp. 17, 32, 195, 201 n. 94; Cultura e società nel Rinascimento..., a cura di V. Branca-C. Ossola, Firenze 1984, p. 101; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, p. 164; G. Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo ... Cambrai, Milano 1986, p. 226 n. 23; L. Puppi, M. Sanmicheli..., Roma 1986, pp. 39, 54, 55 n. 1, 65; Id., Venezia e Roma, Palazzo Dolfin..., in Venezia e la Roma dei Papi, Milano 1987, pp. 143-170. Per il figlio Andrea: F. Sansovino, Venetia…, a cura di L. Moretti, Venezia 1968, p. 407; G. Tassini, Iscrizioni... di S. Salvatore..., Venezia 1895, pp. 12-13; F. Barbieri, V. Scamozzi, Vicenza 1952, p. 153; G. Lorenzetti, Venezia..., Roma 1956, p. 387; G. Cozzi, Il doge N. Contarini, Venezia-Roma 1958, pp. 7 n. 2, 30 n. 2, 242, 354; R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, Milano s.d. (ma 1970), pp. 558-559; Renaissance Venice, a cura di J. R. Hale, London 1973, pp. 390-391, 406 n. 60; P. F. Grendler, The "Tre savi sopra l'eresia" 1545-1605..., in Studi veneziani, n. s., III (1979), pp. 334 s.; Venezia, Milano 1985, p. 326.