DOLFIN, Giovanni
Primo dei quattro figli maschi dell'uomo politico (sarà, tra l'altro, capo del Consiglio dei dieci) nonché titolare d'un banco privato Andrea (1508-1573) di Giovanni di Daniele e di Cristina di Tommaso Mocenigo, nacque a Venezia il 30 marzo 1529. Al contrario dei fratelli Daniele (morto nel 1572), Benedetto (1539-1615) - entrambi "accettati" nel 1562 dai soci fondatori della Compagnia degli accesi (L. Venturi, Le Compagnie della Calza, in Nuovo Arch. ven., n. s., XVII [1909], p. 217), si occuparono tutti e due degli affari di famiglia e il secondo sarà pure membro del Senato e del Consiglio dei dieci - e Leonardo (morto in Siria nel 1576), precocemente immessi nella vita pratica, il D., destinato alla carriera ecclesiastica, prolungò la propria istruzione sino a perfezionarla a Padova con studi di diritto civile e canonico e di teologia. Portatosi a Roma e quivi preso a benvolere per le sue humanitas e dottrina dal cardinale Antonio Trivulzio (al cui seguito il D. partecipò alla sua seconda missione francese; e, stando alla lapide dedicata al D. nel duomo vecchio di Brescia, egli avrebbe fatto pure parte di missioni diplomatiche in Germania ed Inghilterra), il D. cercò di sommare uffici e titoli. Tant'è che, nel 1566, risulta aver acquistato, per 20.000 ducati, che tende a recuperare a sua volta rivendendo, "un secretariato, una abbreviatoria de minori, una scrittoria apostolica, una scrittoria d'archivio, un correttoria d'archivio, dui cavalierati di s. Paolo, dui di s. Pietro, un di s. Giorgio, uno del giglio, un scudierato, dui presidenti et tre portioni".
Tra gli intimi - con altri ecclesiastici veneti come il vescovo di Pola Antonio Elio, quello di Verona Alvise Lippomano, quello di Curzola Pietro Barbarigo e il futuro vescovo di Sebenico Girolamo Savorgnan - d'Antonio Carafa, il D. frequenta pure Carlo Borromeo partecipando, col nome di "Leale", alle riunioni dell'Accademia delle Notti Vaticane da questo fondata. S'avvia, al di là delle dotte conversazioni accademiche, un duraturo rapporto lungo il quale la personalità fortissima del futuro santo finisce coll'imporsi ingombrante ed invadente, su quella subito intimidita del D., da un lato suggestionato dal fervore dell'impegno controriformista di Borromeo, dall'altro convinto - stando alle sue professioni di riconoscenza sparse nella corrispondenza con questo - di dovere a lui i suoi avanzamenti, di non poter, comunque, da lui prescindere per affermarsi.
Nominato, il 3 genn. 1563, vescovo di Torcello, il D. poté, in tale veste, presenziare all'ultima fase del concilio tridentino, ove giunse il 28 apr., quanto meno alla promulgazione del decreto, del 15 luglio, sull'ordine sacro e sui seminari e alla proclamazione, del 4 dicembre, della chiusura. Il che offrì il destro al Paruta di farne un interlocutore nel ricco fraseggio del dibattito a più voci sulla "perfezzione" o meno della "vita politica", ambientato, appunto, a Trento, in coincidenza colle ultime batture conciliari.
Nel dialogo parutiano - ove l'autore è attento a far pronunciare ai partecipanti parole corrispondenti alla loro effettiva posizione, esprimenti il loro reale modo d'essere e di pensare - il D. rapporta clima e inclinazioni; auspica la contemperanza tra vita attiva (che dà compiutezza all'uomo "animale sociabile") e contemplativa ("perfezione", questa, "della mente" che rende l'uomo "di certa divinità partecipe"), priviliegiata, comunque, rispetto alla prima; dice la sua su la fortezza, la prudenza, la temperanza, la felicità, l'onore, l'amicizia, la nobiltà notando, a proposito di quest'ultima, come la si intenda variamente, come, al contrario che altrove, a Firenze, Genova e, soprattutto, Venezia "i più nobili" siano "per lo più i mercatanti di maggior faccende". Qualificante presa di posizione personale, altresì, l'esaltazione del "nostro secolo" quale "fertilissimo di belli ingegni", quale maturazione anche espressiva. Valorizzante, in effetti, l'inserimento del D. nel trattato di Paruta, tra "uomini tutti di chiara fama"; e tale da autorizzare una valutazione della sua figura non meramente contratta a quella di remissivo corrispondente di Carlo Borromeo. Quanto meno il D. fu uomo colto, informato, curioso, interessato allo "studio delle cose civili": "avendo io posta molta cura - gli fa dire Paruta nel suo trattato dialogato - nel raccogliere d'ogni parte libri d'ogni lingua e d'ogni scienzia, per farne d'essi a commun beneficio degli studiosi la mia libraria abondante et ornata, io mi sono sommamente maravigliato della copia degli auttori che di questa materia scrissero". Così il D., smentendo il dottissimo Daniele Barbaro lamentante invece la presunta esiguità trattatistica attorno a "questa facultà civile". Ma, al di là dell'oggetto del contendere, resta l'accostamento tra il D. ed un grande intellettuale della Venezia cinquecentesca che ha, al di fuori delle pagine parutiane, il suo oggettivo riscontro nella celebre guida di Venezia di Francesco Sansovino, laddove, nel cenno alle "librerie particolari" di "singolar stima", viene appunto menzionata, con quella dell'"eletto d'Aquileia", quella, del pari ragguardevole, del Dolfin, Ed è forse perché troppo affezionato ai suoi libri che il D., a volte, interrompe con prolungati soggiorni veneziani la residenza, di per sé obbligatoria, a Murano, sede della diocesi torcellana includente - oltre a Torcello e Murano - Burano, San Michele del Quarto, Trepallade, San Donà di Piave, Cavazuccherina (Iesolo), Grisolara, Lio Grande, Lio Piccolo, Treporti, Cavallino.
Attivo e solerte l'esordio vescovile del D. che, il 17 apr. 1563, convocò nella chiesa muranese di S. Stefano il sinodo, nel quale, tra l'altro, si raccomandavano l'abito e la tonsura, si stabilivano i giorni di riunione, si rieleggeva come vicario generale il canonico Giovanni Renio, si fissavano le facoltà di questo. Seguì, nella chiesa di S. Donato, sempre a Murano, il 15 luglio 1564, un secondo sinodo destinato alla lettura dei decreti conciliari e all'impegno d'attuarli. Visitati, quindi, "tutti i monasteri" della diocesi "con paterna dilettione", il D., nel 1565, pubblicò delle Constitutioni che, redatte "secondo i decreti" tridentini, disponevano il "regolato vivere delle monache sottoposte alla sua giurisdizione".
Con quarantacinque meticolosi capitoli - relativi al "silentio", al "mangiar alle finestre et ne i parlatorii", all'elezione della badessa o priora, alle vesti, al portamento, ai rapporti coll'esterno, alle letture (assolutamente escluse le profane), all'obbedienza, alle ingiurie, alla scelta dei confessori e dei cappellani, all'amministrazione, alle conversazioni, allo "stroppar i luoghi sospetti", alle preghiere, alle trasgressioni, alle punizioni, alle modalità d'uscita - il D. s'adoperava per ricondurre nell'alveo della disciplina una vita monacale disordinata e con punte scandalose.
Attento al decoro degli edifici vescovili, il D. si occupò del loro restauro ed incoraggiò l'edilizia sacra. Nel maggio del 1567 si recò a Roma per la visita d'omaggio a Pio V rientrando il 19 giugno pieno d'"infinito contento" per aver "veduto quella città così ben riformata che nessuno, benché scrupolosissimo, si potrebbe in alcun conto scandalizzare". Così, con entusiasmo, in una lettera del 21 al Borromeo, la cui ombra autoritaria si staglia ammonente nella vita del D., che al santo si rivolge non tanto come all'amico in cui confidare, ma, con trepida riverenza, come alla "Signoria Illustrissima e Reverendissima", alla quale egli sempre si raccomanda come "obbligatissimo e devotissimo servitore", che s'inchina "humilmente" e sovente si sente in dovere d'aggiungere "le bascio le mani".
Il D. è nell'intimo impressionato dalla "grandezza" del presule porporato, e, nel contempo, quasi angosciato dal desiderio di sdebitarsi - in qualche modo, per qualche verso - degli "infiniti obblighi" contratti con una "servitù" iniziata a Roma. Una situazione di subalternanza soggettiva, di interiorizzata dipendenza, di evidente complesso d'inferiorità che il Borromeo si guarda bene dallo sbloccare, che nemmeno tenta d'alleggerire. Si ha invece l'impressione egli ritenga la soggezione del D. un atto dovuto, un atteggiamento doveroso. Al D., che si preoccupa di spedirgli "un poco di malvasia, bottarghe ed altre cosette", che si dice a sua perenne disposizione, che supplica d'essere considerato in ogni caso e in ogni situazione e per il passato e per il futuro "divotissimo servitore", il santo non offre la mano perché possa un po' rialzarsi. Implicito od esplicito, il suo tono col D. è sempre imperioso. Da lui s'attende un servizio obbediente. Donde, ad esempio, l'invio a Venezia di velluti, rasi, arazzi, argenti, scimitarre, "robbe" varie perché il D. si prenda "carico" di far vender il tutto alle condizioni più vantaggiose sicché egli possa ricavarne, auspicabilmente, 10.000 scudi coi quali, a sua volta, "poterne pagar" il duca d'Urbino Guidobaldo II Della Rovere, la cui figlia Virginia aveva sposato il suo defunto fratello Federico Borromeo, una "briga", questa che il santo affibbia al D., la quale si protrae - con cruccio e affanno del D.- dal gennaio del 1566 al luglio del 1569, essendo arduo collocare la merce al prezzo preteso dal Borromeo, che, indispettito dalla lentezza dell'operazione, pungola da Milano, sollecita, interviene con stizza malcelata, elargisce, con petulante sicumera, consigli pratici. E il D., una volta rispeditegli le "robbe" invendute, non manca di fargli presente - e in questo caso con piglio deciso, quasi con fierezza e dignità - che "parte" delle "robbe" è ben stata vantaggiosamente messa in vendita e sono ben arrivati a Milano i relativi "dinari". Certo che il Borromeo non s'è gran che preoccupato dell'impegno vescovile del D., che, per assecondarlo, s'è dovuto improvvisare piazzista di merce eterogenea, con "grandissima difficoltà", ché il fallimento degli "hebrei" ha vanificato le speranze di massicci acquisti in blocco, mentre s'è rivelata defatigante e ardua la vendita scaglionata "a poco a poco".
S'aggiungono, ad allentare lo zelo di vescovo del D., altre incombenze che lo sottraggono alla cura della diocesi, proiettandolo, peraltro, in più vasti orizzonti e cimentandolo con più complessi problemi. Proposto dal Borromeo, in una lettera a Niccolò Ormaneto del 17 apr. 1568 ove lo definisce "huomo di buone lettere et costumi", quale consigliere di Bartolomeo di Porcia, abate commendatario di Moggio, per la futura visita apostolica a questo affidata nel patriarcato d'Aquileia, il D., nell'ottobre 1568-gennaio 1569, per ordine di Pio V, accompagna Giovanni Francesco Commendone nella sua missione viennese, sostituendolo, altresì, come osservatore, nel sinodo provinciale di Salisburgo.
Ma mentre il credito del D. sta crescendo agli occhi della Santa Sede, ove lo si apprezza soprattutto per le sue doti diplomatiche, il banco paterno, da tempo in difficoltà per un eccesso d'esposizione, sempre più incapace di controllare la precipite spirale di un'insolvenza provocata anche dalla dichiarazione di fallimento di taluni dei suoi più cospicui debitori, tracolla vistosamente e quindi crolla con tonfo clamoroso. "È fallito il banco Dolfin - scrive il 9 ag. 1570 il nunzio papale a Venezia Giovanni Antonio Facchinetti (il futuro Innocenzo IX) - ch'era di grandissimo credito". Si tratta d'un autentico disastro finanziario, d'una vera e propria catastrofe. Pare - riporta Facchinetti - il "fallimento" sia di 500.000 "scudi", sicché Venezia, "essendovi infiniti interessati et in grosso", è "tutta sottosopra". Una catastrofe di cui non c'è traccia nelle lettere del D. - il quale, evidentemente, non ne risente se può versare 2.000 scudi per la lotta antiturca - a Borromeo del 1570.Dalle lettere, invece, emerge come il santo - smanioso d'attirare a Milano i migliori ecclesiastici e, a tal fine, anche prepotente e prevaricante - non abbia avuto il minimo scrupolo nel catturare per i pulpiti della sua diocesi il teatino Geremia Isachino, anche se il D., l'aveva scongiurato di lasciarlo a Venezia ove non soltanto era predicatore di grande efficacia che lo stesso D. si recava di sovente ad ascoltare, ma pure confessore di varie "gentildonne", tra le quali alcune "parenti strettissime" del D., dal frate persuase a dedicarsi, sprezzando "le vanità" mondane, alle "operationi" più cristiane e più virtuose. Addolorato il D., perciò, dallo sgarbo del Borromeo, ma non al punto da smettere di rapportarsi costantemente a lui. Tant'è che il D. (il quale è, tra la fine del 1570 e l'inizio del 1571, col patriarca Giovanni Trevisan e coll'inquisitore Valerio Faenzi, collettore deputato alla riscossione della "tansa ... sopra il vero valore dei benefitii", dalla quale Pio V si attende di ricavare la somma di 100.000 ducati "netta et libera da ogni spesa"), quando, il 15 maggio 1571, apprende, repentinamente, di doversi recare subito a Roma per le opportune istruzioni sulla nunziatura presso l'imperatore cui è stato destinato, essendo morto, il 22 aprile, il nunzio Melchiorre Biglia, ancora frastornato dall'inaspettata nomina, immediatamente chiede al santo lumi sul "modo di governarmi".
All'appello il Borromeo accondiscende con un po' di sussiego, non mancando altresì di far presente al D. che il suo antecessore Biglia era solito avvisarlo "spesso delle occorrenze di quella corte. Onde - così, con tono apparentemente cortese, ma sostanzialmente imperativo - voglio pregare anchor lei", ossia il D., "di pigliarsi fatica di scrivermi qualche volta". Sin scontata la disponibilità del D., il quale, ritornato da Roma e ripartito il 28 giugno alla volta di Vienna che raggiunge il 22 luglio, approfitta della sosta a Verona per scrivere, il 4 luglio, al santo che "non mi offerisco di servirla", essendo "superfluo l'offrirle quello che è suo et però... la doverà sempre commandarmi et io l'ubbidirò sempre".
Ormai insediatosi il D. nella prestigiosa nunziatura, circola però, a Venezia, la voce, piuttosto disdicevole e sconcertante, che l'incarico sia stato comperato per 10.000 scudi e che la somma gli sia stata fornita proprio dal padre e dai fratelli, allora in prigione e privati della libertà (colpevole, comunque, del fallimento del banco sarà giudicato lo scrivano milanese Bernardino Rotolo; il padre del D. esce di prigione il 18 giugno 1572 e suo fratello Benedetto, reintegrato nella nobiltà, potrà riprendere la vita politica).
Grande l'irritazione del papa, che, nella lettera del 24 maggio 1571 a Massimiliano II, aveva preannunciato l'invio del D., uomo, a detta del pontefice, "ob pietatem caeterasque alias virtutes" d'assoluta probità. Le accuse di "legatione" acquistata a caro prezzo screditano tanto il D. quanto la Santa Sede. Perciò Pio V è deciso ad appurare la "verità del fatto", vuole si indaghi a fondo, esige di sapere "a chi sono stati sborsati questi denari". Tranquillizzante la lettera del 29 agosto del nunzio a Venezia G. A. Facchinetti. Il tutto si sdrammatizza. La voce si sgonfia. Del presunto acquisto tramite esborso dei parenti bancarottieri Facchinetti non ha "inteso parola". Ha, invece, "sentito dir" che i creditori, decisi a esperimentare tutte le vie per un recupero, paiono intenzionati a mandare "uno d'essi" a mo' di rappresentante a Roma per sollecitare - qualora il D. "non si risolva di rinuntiare a benefitio loro gli offitii che egli ha" - un intervento del papa che li autorizzi a metter mano sulle sue rendite. È intollerabile, infatti, per i creditori esasperati che queste costituiscano una zona franca, che il D. sgusci imperterrito senza conseguenze personali rispetto alla rovina del banco di famiglia. E le richieste in tal senso proseguono a lungo se - come avvisa Facchinetti il 6 giugno 1573 - "certi creditori del banco del padre vogliono convenire" proprio lui "al foro secolare". È preoccupato, il nunzio dell'"influsso d'attioni" degli avogadori di Comun "contra la giuriditione ecclesiastica". Non giova, di certo, al buon nome del D. la sua appartenenza ad una famiglia tanto discussa e maledetta dai creditori più colpiti. Ed il nunzio paventagli derivi ulteriore discredito dal fatto sia suo "parente" quel Girolamo Gritti che, bandito da Venezia per aver perduto in un naufragio una galea, sta brigando per tornarvi a proclamare la sua poco sostenibile "innocenza" e a riprendere gli affari per forza di cose interrotti. Quanto al D. - stando ad una sua lettera, del 13 ag. 1571, da Vienna al Commendone - "la disgratia et infelicità di casa nostra", anche se "grandissima", non crede sia "occorsa ... per colpa di i miei". Una fatalità, dunque. Lo sconcerta altresì sia "ritenuto" pure il fratello Benedetto, "il quale non si è mai impacciato di cosa alcuna". Impensabile "dovessero bolare il mio studio et la mia robba". Si augura che in breve il padre e il fratello Daniele "giustificheranno le cose loro", sicché ci sia "compassione", a Venezia, "delle disgratie nostre". Salda, nella lettera, la fiducia in Dio: "siamo christiani et habbiamo fermissima speranza che Dio ... non ne abbandonerà". Assente, nel contempo, nel D. un minimo di comprensione per quanti sono stati, a loro volta, rovinati dal fallimento del banco. Né c'è, nel cenno sbrigativo alla "durezza de i creditori", alcun larvale impegno, da parte sua, ad ammorbidirla concretamente con una proposta, che coinvolga anche le sue rendite, di risarcimento parziale e protratto nel tempo.
Sordo pertanto alle proteste e ai reclami dei creditori, il D. attende, specie a Vienna, parte a Praga ("pochi" qui i cattolici, essendo il "popolo" in maggioranza "hussito", ossia, "come essi si chiamano, subutroque"), alla sua nunziatura che, iniziata colla prima udienza imperiale del 25 luglio 1571, si prolunga sino alla fine d'aprile del 1578. Dapprima suo compito è quello d'incalzare il restio Massimiliano II per indurlo ad un'adesione "se non publica, almeno segreta" alla crociata antiturca, o quanto meno di sventare la proroga per otto anni della tregua offerta dalla Porta.
Incessanti i "buoni offitii" del D. in proposito e soprattutto "gagliardissimo" quello, dell'agosto 1572, in "occasione" dell'arrivo dei ciaussi spediti, per stringere l'accordo, dal pascià di Buda Mustafà Soqolli. Con soddisfazione del D. l'imperatore propende a licenziarli "senza trattar cosa di momento"; e, a detta del D., lo stesso, all'inizio del 1573, pare voglia aderire alla lega, anche se, ancora il 9 dic. 1572, ha confidato al D. di non poter "risolversi" a rompere "col Turco" senza il "consenso" dei principi tedeschi, ottenibile solo se, a sua volta, dispone di "sigurtà di non essere abbandonato", ché, in tal caso, sarebbe rimasto "in bianco". Indispensabile, insomma, per lui, prima di convocare la Dieta, la garanzia che i "collegati" gli forniscano uomini e mezzi. Ma di fatto, a scorno delle speranze del D., Massimiliano sta traccheggiando, tant'è che non solo non sospende il versamento ai Turchi del tributo annuo di 30.000 ducati, ma nemmeno ne ritarda l'esecuzione.
Quanto alle malefatte uscocche, esse inducono di frequente il D. ad "ufficio caldissimo" di protesta, nel quale s'adopera con particolare convinzione specie quando può fondere la veste di nunzio con quella di figlio di Venezia, a ciò autorizzato da Roma donde gli si ordina - come scrive il segretario di Stato Tolomeo Galli, il 14 apr. 1576, al nunzio a Venezia Giambattista Castagna - che "perseveri" nel "procurar con ogni istanza appresso l'imperatore il remedio desiderato" dalla Serenissima, l'unico "reputato ... efficace", quello, cioè, "di cacciar via quei tristi dallo stato suo".
Causa d'attrito tra Massimiliano II e la Santa Sede il titolo granducale a Cosimo I; e alla posizione imperiale, a veder della quale non è lecito al papa intromettersi "de temporalibus in locis" a lui "non subiectis", specie "de dignitatibus et titulis" il cui conferimento spetta, invece, se "in locis Romano imperio subiectis", all'imperatore, il D. replica ora che "l'antica libertà di Firenze", non intaccata da accordi successivi, non contempla "subiettion" all'Impero e che, semmai, è la Santa Sede a poter pretendere "vassallaggio", ora - non senza contraddizione colla prima argomentazione - asserendo "la superiorità" papale "nel imperio et in tutte le provintie christiane".
Sul terreno religioso il D. ascrive a proprio merito la proibizione della circolazione della Christlich Kirche Agenda..., "che è come una pratica della confessione augustana" uscita nel 1571, nonché l'abiura d'un grosso dignitario polacco "prima heretico".
Riluttante però Massimiliano II al suo zelo di spietata repressione ereticale: "Volendo far meglio", osserva l'imperatore (personalmente, poi, tentennante, in fatto d'ortodossia), si rischia di peggiorare la situazione. Più avveduto procedere "contentandosi a poco a poco avanzar qualche cosa". Inarrestato, però, e irreparabile l'affermarsi del protestantesimo in talune zone. Se Dio non compie miracoli - ammette il D. nel 1573 - Magdeburgo, Halbenstadt, Naumburg, Merseburg, Meissen vanno considerate perdute. Solo nel duca di Baviera Alberto V si può contare con "fiducia e speranza". Impossibile, invece, fare affidamento sul grosso dei cattolici, deboli ed incoerenti. Vergognoso, per il D., i vescovi trascurino di chiedere a Roma conferma della loro nomina. Paghi della designazione imperiale - s'indigna il D. -, "entrano nel possesso dei beni temporali senza pigliarsi alcun pensiero delle cose spirituali".
In tanto sbandamento di vertici, cui corrisponde la confusione nella massa dei fedeli, un saldo punto di riferimento è costituito dall'incrollabile e combattiva ortodossia dei "gesuiti, che fanno - confida il D. al Borromeo - grandissimo frutto in queste provintie". Senza di loro - commenta - "saressino in evidentissimo pericolo di perdere affatto". Da parte sua il D. caldeggia attivamente - in ciò fedele all'impostazione borromeiana - l'erezione del seminario sia a Vienna sia a Praga nonché la rivitalizzazione delle pratiche religiose, battendosi, nel contempo, contro la diffusione della pubblicistica ereticale. Morto (1576) Massimiliano II, il D. si sente più appoggiato da Rodolfo II, che sin dalla prima udienza professa la più rispettosa affezione alla Santa Sede. S'accentua in effetti il controllo, incrudelisce la repressione e non solo contro gli eretici. Da "estirpare" per il D. pure la sinagoga: "se si potesse levare - così il D., il 6 apr. 1578, a Borromeo - questa sinagoga..., sperarei di vedere le cose di Vienna ridursi a buon termine". Vigorosa, infatti, la ripresa cattolica nella città: "da molti anni in qua - scrive il D. soddisfatto nella stessa lettera - non si sono vedute le chiese più frequentate et maggior concorso di persone" ai sacramenti. Con questa nota positiva il D., cui succede Bartolomeo di Porcia, lascia alla fine del mese Vienna giungendo - dopo diciotto giorni di viaggio "pessimo" per vari disagi - il 12 maggio a Treviso portandosi quindi a Venezia e di lì, per una rapida visita alla sua Chiesa, a Murano per poi ripartire alla volta di Roma a ragguagliare il pontefice sulla sua missione. Il tutto in fretta, però, ché già - forse ad attenuare la massicia deroga, peraltro voluta dalla Sede apostolica, all'obbligo tridentino della residenza - all'inizio di luglio il D. rientra.
Sua determinazione, dopo tanta lontananza, riassumere la "cura" del vescovato, "servire Dio et vivere a me stesso in santa pace". Deve "riordinare le cose del vescovato", attendere alle "consecrationi" e ad altri "ufficii" e, insieme, dipanare gli "intrichi domestici" provocati dalla sua "lunga assenza". Morto, il 12 ag. 1579, il vescovo di Brescia Domenico Bollani, il 26 il D. - così consistentemente ricompensato delle sue benemerenze diplomatiche - viene designato a succedergli.
Accingendosi al trasferimento a Brescia - ove si insedia il 18 novembre, solennemente e anche dispendiosamente (non per niente viene ricordato il suo ingresso per l'eccesso di spese sostenute dal Comune) accolto - il D., il 24 ottobre, chiede, ignaro di porre così le premesse per l'ingabbiamento della sua attività, al Borromeo di "commandarmi tutto quello che conosce poter apportare beneficio... al governo della mia chiesia, ch'io m'ingegnerò sempre - promette incautamente - con ogni prontezza et ossequio effettuare quanto da lei mi sarà imposto". Questo proclama d'obbedienza indiscriminata che s'aggiunge ad altri analoghi antecedenti, ora che il rapporto col santo si fa obbligatorio essendo il D. a capo d'una diocesi suffraganea di quella di Milano, è foriero d'una situazione di crescente disagio, è destinato a costargli caro. Nell'esercizio concreto delle sue funzioni, infatti, il D. avrà a che fare coll'invadente ingerenza del santo (che talvolta riesce a schivare come quando preferisce un vicario generale di sua scelta a quello che a tutti i costi Borromeo vorrebbe appioppargli), il quale lo tratta ruvidamente, ingiunge, pretende, esige senza un minimo di tatto, senz'ombra di riguardo. Soffocato e schiacciato dalla straripante personalità del suo gigantesco interlocutore che incombe dappresso rampognante, il D. la subisce come in incubo tormentoso, vanamente dibattendosi per trovare il modo e il tono per salvaguardare una linea di dignitosa autonomia.
Paralizzante, per lui, la visita apostolica (un'ossessiva ispezione a setaccio di tutta la diocesi, meticolosa, pedante, rigoristica per la quale il santo s'avvale d'uno scatenato staff di covisitatori tra loro gareggianti in pignoleria e severità; un implacabile censimento d'una miriade d'irregolarità, omissioni, scorrettezze, abusi, incette indebite, negligenze seguito da un'imperversante grandinata di imposizioni, ingiunzioni, intimazioni, rabbuffi, reprimende, anatemi, sospensioni, minacciate scomuniche, termini ultimativi, pene ventilate, interdetti, bandi, censure, multe, precettazioni, sequestri, destituzioni, privazioni, umiliazioni, divieti), che, iniziata il 24 febbr. 1580, si protrae per tutto l'anno, mentre la promulgazione dei relativi decreti - una spada di Damocle per il D. - viene differita sino all'agosto del 1582. Il D. vuole attendere l'esito per indire il sinodo. Il Borromeo, invece, pretende lo convochi subito, come primo atto doveroso di vescovo sollecito. Il sinodo - spiega al D. - è "ricognitione generale del suo clero et della sua diocesi", e premessa di "preparatione alle... visite" che lo stesso D. deve fare. Solo convocandolo egli può "mostrar" d'avere realmente "voglia" d'essere un buon pastore di anime. Ma il D. - che, peraltro, s'assenta dalla diocesi un paio di volte (nell'agosto del 1580 parte alla volta di Norimberga "per assistere al convento imperiale", spostandosi, quindi, nel settembre a Praga e rientrando in sede solo il 17 dicembre; nell'aprile del 1581 va a Roma, ritornando a Brescia, dopo l'intervallo d'un soggiorno veneziano d'un mese, solo il 10 luglio), in entrambi i casi vivamente disapprovato da s. Carlo, che giudica colpevole diserzione l'abbandono dei doveri locali, ché, comunque, il "pastore" non deve mai staccarsi dal gregge (ma è ben Gregorio XIII a scrivere, il 13 luglio 1580, all'imperatore che avrebbe inviato come nunzio apostolico al "conventum. ... Norimbergiae ... episcopum ecclesiae Brixiensis") - obietta, il 25 genn. 1581, che "nella sinodo diocesana... non si potria far cosa buona se prima" Borromeo "non havesse finito la sua visita apostolica.
Supplica, perciò, accoratamente il metropolita "a dar fine a questo negotio, stando tutta questa diocesi sospesa, non potendo io fare cosa alcuna [evidente che pel santo i decreti risultati dalla sua visita possono scavalcare e invalidare quelli sinodali; altrettanto evidente che il D. vuole evitare siffatto inconveniente], non sappendo la intentione sua". Furente il Borromeo: non solo il D. pare volersi sottrarre al suo controllo, ma, sospetta, posticipando il sinodo, mediti di seppellire le disposizioni ch'egli emanerà come visitatore apostolico. Sdegnata, perciò, e sarcastica la sua replica in una lettera non datata, ma probabilmente dell'aprile 1581: "mi par di comprendere ch'ella intenda che, finita la visita, a lei s'aspetti non d'esseguire, ma di disfare quanto ... ordinato" dal "visitatore", cioè da lui stesso, sicché "si possano rifare gli altari demoliti ne luoghi et forme prohibite et levare le sospensioni decretate", mettendo nel dimenticatoio "le scritture della visita".
Il D. - che non va considerato del tutto inattivo: nel 1580 approva la Compagnia di S. Maria della Misericordia per l'assistenza ai condannati a morte; pubblica la bolla Incoena Domini; si adopera perché i gesuiti abbiano una sede stabile; e l'11 maggio 1582 parteciperà, sedendo a sinistra del Borromeo, al concilio provinciale - a tutta prima sembra intenzionato a dimettersi di fronte ad un attacco così violento. Ma l'impulso rientra e rimane al suo posto, donde, umile ma anche testardo, ribatte lo stesso tasto: "presto saranno due anni che mi trovo inadeguatamente a questo carico, senza haver fatto sinodo né visitata la diocesi". Ricevute, finalmente, il 9 ag. 1582, le "ordinationi", il D. può proseguire con più lena la visita pastorale, iniziata ancora nel giugno, portandola innanzi (non compiutamente, però, ché l'ostacolano le piogge e la pessima viabilità), in Valcamonica, in Valtrompia, in parte della pianura, sino al novembre del 1583.
Una visita incompleta, dunque, epperò abbastanza accurata, anche se condotta senza la necessaria serenità, dal momento che il suo impegno - tallonato e sorvegliato dal diffidente Borromeo che sospetta nel D. il veneziano sensibile più alle ragioni di Stato che a quelle della Chiesa, che ravvisa nel D. i tratti d'un membro del patriziato lagunare così inquinato da una prassi giurisdizionalistica - deve, di per sé, incentrarsi nell'applicazione della visita apostolica. Arduo e dilemmatico per il D. accontentare il severo e arcigno metropolita sedando, nel contempo, le proteste del clero e delle popolazioni locali nei confronti di prescrizioni lesive d'abitudini a lungo sedimentate e sin introiettate (come quella, a Gardone, dell'uso civico della campana) e di ordini onerosi come quelli esigenti immediatamente restauri, ridipinture, ristrutturazioni, rimozioni, rinnovo d'arredi, erezioni d'altari e balaustre, e lavori comportanti in genere spese, in parecchi casi, insostenibili e, in più casi, eccessive, troppo pesanti. I savi del clero - dodici ecclesiastici locali eletti nel sinodo - protestano, infatti, a Roma contro i "decreti" borromeiani, mentre il D. - come scrive, il 4 sett. 1582, a s. Carlo - è continuamente "molestato da monache, frati, preti et secolari", i quali, impossibilitati a rispettare le troppo ravvicinate scadenze ultimative per l'esecuzione degli "ordini", lamentano a gran voce che "le loro chiese debbano restare interditte con grandissima mormoratione del popolo". E, in effetti, "grande alteratione" v'è a Brescia, avvisa il D. il 12 ag. 1582; "tutta questa città e diocese è sollevata", conferma lo stesso il 1º settembre.
C'è una reazione diffusa, dunque, contro la rigidezza del presule milanese, il quale (anche se in singoli casi specifici attenua l'asprezza delle disposizioni, allarga le scadenze, mostra un po' d'indulgenza, s'atteggia a comprensivo, fa persino marcia indietro rispetto a talune formulazioni particolarmente indigeste, ne ammorbidisce le punte fanatiche), nell'apprenderla, propende ad addebitarla allo scarso entusiasmo applicativo del D., che percepisce inoltre antitetico al suo modo d'essere e d'intendere. Il D., infatti, celebra messa solo la domenica, si compiace d'una mensa raffinata, vive nel lusso, è assai parsimonioso in fatto di prediche; non è, come il santo, ardente di zelo, non freme d'attivismo, è incapace di strenua esclusiva dedizione.
Motivo d'aspro cocente rimbrotto, da parte di s. Carlo, la mancata celebrazione del sinodo che il D., tergiversando, continua a rimandare, perché preoccupato di non poterlo agevolmente controllare, perché angosciato dal timore non esiti in esaltante concordia organizzativa e operativa e, invece, si trasformi - com'è già capitato al suo predecessore Bollani - in occasione di scontro e di rottura tra lui e il clero, tra lui e, quanto meno, i dodici savi. Una lacerazione che, paventa il D., autorizzerebbe le interferenze dell'autorità politiche, solleciterebbe l'intervento dei rettori, attirerebbe l'attenzione della Serenissima.
Certo a Brescia il D. non gode di quella "santa pace" dell'anima ripromessasi reduce da Vienna. Meglio, molto meglio - da questo punto di vista - il placido governo, lontano dalla furia riformatrice borromeiana (che non vuole da lui collaborazione paritetica ma solo ardore nell'"essecutione", solo prontezza d'obbedienza), della marginale e ben lontana da Milano diocesi torcellana. Indubbiamente più prestigiosa quella di Brescia, ma anche oberata da "pensioni"ma anche avvelenata da una "lite" per ragioni "di suppellettili et frutti lasciati" da Bollani, nella quale, per fortuna del D., il nunzio a Venezia Alberto Bolognetti riesce ad indurre Francesco Longo, di quello cognato, a non ricorrere al Collegio.
Motivo d'amarezza, peraltro taciuta, la nomina, del 12 dic. 1583, a cardinale del vescovo di Verona Agostino Valier, suo sodale nella frequentazione dell'"antica accademia" delle Notti Vaticane. Il D. capisce che è stato s. Carlo a premere in tal senso, capisce, del pari, che s'è ben guardato dal raccomandare anche per lui la "promotione" della porpora. Esternamente non gli resta, comunque, che felicitarsi: "abbiamo inteso - così il D., il 21 dicembre, al Borromeo - la promotione" di Valier, "della quale mi rallegro con la S.V. ... come di persona meritevole et creatura sua". Al che il santo, non solo colla solita mancanza di tatto e di riguardo, ma con un di più di voluta cattiveria, ricorda al D. che un'altra "creatura sua" è stata innalzata al cardinalato: si tratta del vescovo di Cremona Niccolò Sfondrato, "vostro comprovinciale" precisa crudelmente il santo. Ecco - questo il sottinteso - il premio per chi celebra il sinodo, per chi non discute la visita apostolica, per chi non mostra "spirito di contraditione".
Senza il decoro, della porpora, logorato dal contrasto col Borromeo, la cui palese disistima - rivelandosi il D. scadente pedina, fiacca, elusiva e anche riottosa pel disegno di riforma della diocesi che egli ha in mente, gli ha ben scritto d'essere "sforzato di dirle" che "mi pare molto differente dall'opinione", buona, "ch'io havea" - è per lui motivo d'acuta tormentosa sofferenza, il D., nell'aprile del 1584, s'ammala e - assistito durante l'agonia dallo stesso Borromeo che gli somministra i sacramenti - muore, a Brescia, il 1º maggio 1584, venendo sepolto, "in medio cathedralis", ossia nel duomo vecchio o Rotonda, in un sepolcro marmoreo, mentre, a testimonianza dei suoi allargati interessi culturali, resta agli eredi la sua ragguardevole biblioteca lagunare. Per ironia della sorte è lo stesso Borromeo - che l'ha implacabilmente tormentato per tutta la vita - a celebrare la messa funebre e a pronunciare il discorso d'encomio.
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