DOLFIN, Giovanni
Secondo degli otto figli maschi di Nicolò di Piero e d'Elisabetta di Angelo Priuli, nacque a Venezia il 22 apr. 1617. Salvo il soggiorno romano, nella prima infanzia, del 1620-21 presso l'omonimo prozio cardinale, la vita del D. trascorre a Venezia nel palazzo da questo acquistato a S. Pantalon, dove suo padre si sistema con tutta la numerosa famiglia. Suggestiva la porpora dell'illustre prozio - un esempio contagioso il suo diventare da politico uomo di Chiesa e una svolta, in termini di strategia familiare, pei Dolfin dello stesso ramo, il cui appetito di rendite ecclesiastiche sconfina, a volte, nell'arrembaggio - anche per il D.: ricevuta un'accurata istruzione, pienamente padrone del latino, buon conoscitore del greco, egli, infatti, una volta conseguita, a Padova, la laurea, celebrata da un'orazione del giurista Giacomo Caimo, in utroque, vagheggia, a tutta prima, un brillante ingresso nella vita religiosa. Ma l'aspirazione rientra, ché il D. - specie quando gli impegni pubblici costringono il padre ad assentarsi - deve occuparsi dei fratelli minori e attendere a domestiche incombenze, coltivando, nel contempo, le letture e assecondando l'affiorare d'una ancora acerba inclinazione alla poesia, e indulgendo, in più, al trastullo d'una relazione - così, anni dopo, la dispensa papale, del 5 apr. 1656, d'accesso agli ordini sacri - "cum quadam muliere libera et vitae licentiosae".
Ma così il D. suscita la smaniosa gelosia d'un altro Dolfin - Bernardo (1594-1638) di Daniele di Lorenzo di Giovanni - del ramo di S. Salvador, il quale, a scorno dell'età ormai matura, ad onta della moglie e dei figli, a disdetta del rilievo pubblico, della stessa s'è violentemente incapricciato. Nel 1638 questi, spalleggiato da un amico, irrompe furibondo "in cubiculum in quo" la giovane s'intrattiene col D. e, per niente placato dalla "blanda oratione" improvvisata per frenarlo, s'avventa sul rivale ferendolo alla testa "stylo". Immediata la reazione del D. che, a sua volta, "capto pugione", colpisce l'aggressore, il quale, di lì a ventidue giorni, muore in seguito ai "vulnera" ricevuti.Trattandosi di legittima difesa, il Consiglio dei dieci non procede contro il D., mentre, anche per bloccare sul nascere lo scatenarsi delle vendette e delle controvendette, uno stesso fratello del morto, l'autorevole Lorenzo Dolfin (1591-1658: vedi su di lui S. Savini Branca, Il collezionismo venez. ..., Padova 1965, pp. 213-214) - sarà, nel 1646-47, podestà di Padova, quindi, nel 1647-48, provveditore delle Tre Isole e, infine, nel 1652-53, provveditore generale in Dalmazia (A. Valori, Condottieri ... del Seicento, Roma 1943, p. 127) -, appresa la dinamica dell'accaduto, s'affretta a scagionare moralmente il D., ad offrirgli, anzi la "pace", dichiarando non lesa dal funesto episodio la cordialità dei rapporti intercorrenti tra le rispettive famiglie.
Nessun danno pertanto per il D.; ormai prossimo all'ingresso nella vita pubblica che inizia, nel 1642, come savio agli Ordini, essendo poi savio sopra gli Atti, savio alla Scrittura, senatore, savio di Terraferma, savio del Collegio. Motivazioni d'ordine familiare - suo fratello Giuseppe sta battendosi da anni in Levante contro i Turchi, un altro suo fratello Marcantonio (sulla cui sventurata vicenda restano delle Memorie del D.) è di questo prigioniero, suo padre Nicolò è oberato di spese - l'inducono, nel 1651, a schivare la nomina ad ambasciatore presso il re Cristianissimo.
"L'ambasciata di Francia", calcola il D. sulla base di dettagliate notizie di chi l'ha già ricoperta e anche di Michele Morosini che "hora la sostiene", comporta - se svolta con "decoro" - "l'impiego" di 30.000 ducati "prima che si veda il re" e di 10.000 ducati annui in più dei "pubblici assegnamenti". È, perciò, troppo dispendiosa; né c'è da sperare, ora che Venezia è finanziariamente prosciugata dalla guerra di Candia, in congrui risarcimenti da parte della Serenissima. Ma il diniego, cui forse non è stata estranea la notoria "avarizia"paterna, del D. non viene accettato e gli si minacciano sanzioni severe, cui si sottrae coll'offerta - gradita al Senato - del versamento annuo di 3.000 ducati per tutto il corso del conflitto.
Il D. è savio di Terraferma nonché "tutto" dedito ai "maneggi publici ne' quali - come rileva il nunzio pontificio a Venezia Carlo Carafa -, è reputato hoggi per uno de' senatori più qualificati et intelligenti", quando il neopatriarca d'Aquileia Girolamo Gradenigo, appena subentrato al fratello Marco morto il 16 febbr. 1656, indica il D. come proprio coadiutore con diritto di successione.
Un'indicazione dettata da ragioni di parentela (un fratello del D., Daniele [II], detto Andrea, ha sposato, ancora nel 1650, una nipote dei due Gradenigo, Elisabetta Gradenigo, figlia del loro fratello Daniele) e, a veder del nunzio, felicissima, ché l'"accidente" del fatto di sangue, anche se può essere d'"ostacolo" (non per niente, per rimuoverlo, il padre del D. s'appella alla "clemenza papale"), si riduce, nella sua lettera a Roma del 19, ad episodio trascurabile se si tiene conto che il D. è sempre, poi, "vissuto castigatissimo". Dato che - argomenta il nunzio, che tanto preme in favore di D. perché questi s'è esposto tra i fautori della riammissione dei gesuiti in terra veneta - è "amico della virtù e della modestia" e gode di buona reputazione come uomo politico, se entra "nell'ordine ecclesiastico", si può prevedere una "dignissima riuscita". D'accordo con Carafa il papa Alessandro VII che, dispensato il D. sia dalle ferite mortali inflitte per difendersi sia dall'essere stato giudice in cause criminali, gli conferisce, il 23 giugno, la richiesta coadiutoria e lo decora col titolo di vescovo dell'africana Tagaste "in partibus infidelium".
Consacrato, il 30 novembre, dal nunzio nella chiesa muranese di S. Maria degli Angeli, il D., ad evitare i pericoli d'epidemia presenti nello Stato pontificio, solo a metà novembre dell'anno dopo parte alla volta di Roma per sostenervi l'esame in conformità alle disposizioni vigenti. Un deciso repentino abbandono della vita pubblica, questo del D., voluto dal padre, imposto dalla ragion di famiglia, reso allettante da prospettive di remunerazione impensabili colla carriera politica, ove, invece, ogni avanzamento rischia d'incentivare ulteriormente le spese.
Concorrono, par di capire nel suo caso, ad agevolare la scelta una certa stanchezza delle discussioni senatorie, un bisogno di quiete ordinata, un desiderio di studio e meditazione. Lo stimolano alla vita ecclesiastica le spinte - apparentemente contraddittorie e, in realtà, complementari - della dilettazione letteraria e della preghiera, blandamente edonistica quella, blandamente ascetica questa, che, proprio perché non estremizzate, proprio perché morbide, convivono in lui contigue, intercambiabili, suscettibili entrambe d'essere - nella cornice della veste religiosa assai più che in quella politica - gradevolmente praticate.
Benigna, altresì, la sorte colla sua ambizione: il 19 dicembre muore Girolamo Gradenigo e scatta, allora, a vantaggio del D. - mentre, a sventare inframmettenze e intralci arciducali, viene rapidamente perfezionata la formalità dell'esame - il diritto di successione, confermato da un breve papale, del 29, "de capienda possessione" del patriarcato. Titolare, dunque, di questo, il D. si trattiene a Roma, laddove la "funtione" della presa di possesso si svolge a Udine, il 12 genn. 1658, senza "sconcerto" tra canonici udinesi ed aquileiesi (come si premura di precisare al senato il luogotenente in Friuli Antonio Grimani), per procura rappresentando il D. il canonico, nonché vicario generale già di Gradenigo e da lui riconfermato, Bernardino Valvason.
Segue, il 12 aprile, con gran "contento" dei "sudditi" informati delle sue "rare qualità" e delle sue "prerogative singolari", l'"ingresso" del D. "in forma privata, dando così segno della moderatione del suo ben composto animo". Così al Senato il successore di Grimani Giacomo Gabriel, dalla cui versione si discosta lo storico locale contemporaneo Giovanfrancesco Palladio degli Olivi, a detta del quale "il solenne ... ingresso" del neopatriarca avviene, invece, in una Udine tutta festosa, addobbata con "maravigliosa pompa", col duomo sciorinante tutti i suoi "più nobili arredi", con gran calca di folla in giubilo, con canti, suoni, rumorosi spari a salve. Comunque sia, ha inizio l'ultraquarantennale episcopato del D., col quale comincia pure l'insediamento dei Dolfin nel patriarcato destinato a durare, per quasi un secolo, sino alla sua soppressione. Strumento ne è la coadiutoria con diritto di successione che il D. subito si preoccupa venga affidata al fratello Daniele (I); il che avviene tramite il breve papale del 22 febbr. 1659. E pure Daniele (1622-1698) viene fregiato di titolo vescovile, venendo, appunto, nominato, contemporaneamente, vescovo di Filadelfia "in partibus infidelium", mentre il Senato lo dota d'una pensione annua di 1.000 ducati.
Preoccupazione precipua del D. - che è pure oggetto d'episodi di disturbo spicciolo quale la pretesa (peraltro ridimensionata a Roma) del cardinale C. Pio di Savoia, commendatario dell'abbazia di Sesto al Reghena, questa sia nullius dioecesis - èla costante ostilità di Graz, a Vienna fomentata, nei suoi confronti, ché, come riferisce a Roma il 27 ott. 1660, sin dal suo "ingresso" constata "che non si riconosceva in quelle parti", nei territori, cioè, arciducali, in lui "il patriarca". E, in effetti, per Graz il patriarca veneziano è "putativo", è "supposto". Egli riesce, tuttavia, a schivare urti frontali colla corte arciducale senza per questo offuscare il suo profilo di presule veneziano anzitutto attento a sintonizzarsi colle direttive di fondo della Serenissima e ad accordarsi colle esigenze di controllo localizzato dei rettori, i quali unanimi, lungo gli anni, l'elogiano come "ottimo prelato" coniugante l'"ottimo essemplare governo della sua chiesa" col "filiale rispetto" per la Repubblica, contemperante le "incombenze" del ministero coi debiti riferimenti al "publico interesse". Sensibile agli equilibri politici, dunque, il D., ma non a discapito d'un dispiegato impegno pastorale che s'articola in due - peraltro strettamente interconnesse, dal momento che, ispezionando, verifica l'attuazione dei suoi dettami e ne saggia l'efficacia - direzioni, una ispettiva, l'altra prescrittiva.
Quest'ultima risalta nel sinodo - pel quale, ancora nel 1658, nomina i deputati "ad videndas scripturas", appunto, "synodi" - indetto il 20 marzo 1660 e svolto dall'8 al 10 giugno nel duomo di Udine, con numerosa partecipazione di clero anche austriaco (a scorno di espressi divieti arciducali, peraltro più proclamati che fatti rispettare con rigore). Ne sortisce una normativa che impone: la denuncia al S. Offizio di eventuali eretici; l'estirpazione delle diffuse pratiche magiche e delle superstizioni; una predicazione chiara, piana, a tutti comprensibile e, quindi, in "lingua materna et vernacula"; l'istruzione catechistica da impartire, sulla base delle formulazioni bellarminiane, ai fanciulli la domenica e da inculcare anche negli adulti, specie nei molti ancora scandalosamente ignari dei "prima fidei elementa"; l'uso esclusivo, senza alcuna indulgenza per nostalgiche persistenze del soppresso rito patriarchino, del rituale romano; la drastica eliminazione del sorso di vino (una consuetudine ancora tenace, antica e nel contempo inquinata dall'eresia della doppia specie) "post sumptionem" della particola; la specchiata condotta del clero; i livelli di preparazione indispensabili per gli aspiranti alla tonsura, agli ordini minori, al diaconato; il rispetto della residenza da parte dei parroci e dei curati; un abbigliamento al clero confacente, uniformemente connotante, non estemporaneo, non individualizzato; l'orario delle messe. Previsti, altresì, perché il sinodo sia rispettato, dei testimoni, appunto, sinodali per informare, direttamente e segretamente, il patriarca anzitutto di "quidquid", in ogni località "in clericali militia vitiosum est". Obbligatorio, ad ogni buon conto, per ogni ecclesiastico, il possesso d'una copia a stampa delle Constitutiones... all'uopo pubblicate ad Udine lo stesso anno.Alle "ordinationi" emanate in sede sinodale "a comune servitio pel governo ... spirituale" e amministrativo della "diocesi" s'affianca la visita pastorale iniziata a Udine nel settembre del 1658 e conclusa a Corbolone nell'agosto del 1664. Da Cividale ad Aviano, da Gemona a Monfalcone il D. conduce personalmente (eccezion fatta per la Carnia più impervia e pel Cadore, ove funge da visitatore delegato il vescovo di Parenzo, il tolmezzino Giovanbattista Del Giudice) una sistematica ricognizione su tutto il settore veneto della sua vasta diocesi, "con fatiche ... estraordinarie", mentre per quello "a parte imperii" deve ricorrere ad arcidiaconi.
"Questa terra - rimarca il D. nel resoconto alla Santa Sede del 27 ott. 1660 - non è stata visitata" da venticinque "anni in qua e molti luoghi" addirittura da cinquanta. Urge cresimare e il D. calcola d'aver cresimato, a quella data, almeno 50.000 persone. E tante cresime l'attendono ancora se, il 6 genn. 1662, scrive all'amico Ciro di Pers del suo ripartire per la "visita di varie chiese", il che significa "gran cresima". Ma se questo è il momento più vistoso e galvanizzante, quello in cui più la figura del vescovo spicca e s'impone, esso è ben lungi dall'esaurire la visita pastorale, la quale comporta la descrizione dettagliata di luoghi e di edifici pii, l'indagine sulla posizione, più o meno regolare, e sul comportamento, più o meno encomiabile, d'ogni singolo membro del clero, la ponderata valutazione della fede e dei costumi della popolazione, la schedatura di concubinari inconfessi usurai superstiziosi bestemmiatori eretici, il quadro aggiornato della situazione mobiliare (debiti e crediti) e immobiliare d'ogni chiesa.
Celebrando il sinodo, intraprendendo con determinazione e metodica energia la visita nella "grande provincia del Friuli", il D. debella "molti abusi pernitiosissimi", costringe ad un minimo di qualificazione e di zelo un personale religioso spesso opaco e indolente con punte di vergognosa ignoranza e clamorosa infingardaggine, solleva ed imbriglia il tono complessivo della vita spirituale. Sicché il suo ritratto non stona in una pinacoteca dedicabile alla prelatura italiana più scrupolosa del secondo Seicento. D'altro canto, però, il suo effettivo sembiante non è univoco, non si risolve soltanto nelle fattezze prelatizie. Il D. è pure noto, già attorno al 1660, come letterato, quanto meno, in questo torno di tempo, passa per tale, gode d'estimazione in questo senso, anche se egli - con modestia più ostentata con civetteria che sincera - fa mostra di considerare la sua produzione una sorta di passatempo per - così a Ciro di Pers il 15 dic. 1660 - sconfiggere l'oziosa neghittosità di lunghe ore solitarie altrimenti tediose e vuote.
"Certo non mi eccita" - confida all'amico, che è il suo mentore, il suo interlocutore, quello al cui giudizio si sottopone costantemente, quello col quale trascorre "settimane intiere" in "conferenze letterarie" - a scrivere "stimolo alcuno di ambizione né di pretensione immaginabile".
Il D., in effetti, si sta allora cimentando nel tentativo di calare su di una diocesi resa sfuggente e riottosa dalla coriacea resistenza dei suoi substrati più profondi, la cappa omologante dell'uniforme ortodossia tridentina. Egli, che non arde di misticismo, che concepisce la religione come regolamentazione anche sociale nel rispetto del quadro politico-istituzionale, non propone al clero locale orizzonti d'eroica santità: pretende un'attività disciplinata, esige il rispetto delle norme sinodali. Più che l'intimo delle coscienze lo interessano i comportamenti esterni. È su questi che il D. - mirando a realizzare l'ordinato fluire della vita religiosa nella diocesi, appunto, bene ordinata - interviene. Ma, anche se la sua dichiarata "ambizione" si situa nella riuscita di siffatto intervento sì da sentirsi legittimato alla "pretensione" d'un adeguato riconoscimento da parte della Sede apostolica, la svalutazione e la minimizzazione, di cui il D. si compiace, nei confronti della sua "penna" - non sospinta da "brama di gloria", da "desio di lode", certo non vince coi versi l'oblio, il tempo, la morte; più modestamente è strumento per combattere l'"ozio" e "debellar" la "forza rea" della sensualità in quello latente - sono sino ad un certo punto sincere. Fungono da captatio benevolentiae riguardo ad un'attività alla quale, in realtà, tiene moltissimo. Sottesi, infatti, e d'ambizioni e di pretese pure i suoi esercizi di scrittura; solo che si collocano su di un altro piano rispetto a quelle, da lui ammesse con se stesso e con gli altri, di uomo di Chiesa, nel senso che sono affatto interne ad un percorso di maturazione, contenutistica e stilistica insieme, che, iniziato nel 1640-45 con versi intermittenti e per lo più amorosi e la favola pastorale Medoro e poi interrotto dagli assorbenti incarichi pubblici, riprende ad urgere nel 1659 per esplicitarsi sino al 1667 con ritmo sin incalzante, in singolare coincidenza col massimo degli impegni ecclesiastici. Si può, anzi, dire che proprio il periodo di più scrupoloso adempimento dei doveri di presule è anche quello di più intensa produzione letteraria.
Donde, le quattro tragedie - Medoro (ove il D. riprende la favola giovanile, della quale serba il lieto fine, mentre espelle ogni esplicito titillamento erotico e, preoccupato del "decoro" anche nell'accezione sociale, fa che Angelica ammetta il suo innamoramento solo quando le risulta che pure Medoro è di sangue reale); Lucrezia; Cleopatra (che sarà letta ed annotata con severità di giudizio da Alfieri durante il suo noviziato letterario); Creso (sulla cui composizione forse un minimo d'influenza ha giocato il Cresus liberatus, del 1621, del gesuita francese Pierre Mousson. È questa la tragedia che il D. giudica la sua migliore. Di certo, ingombrata dalla doppia agnizione, è la più complicata) - dal rallentatissimo andamento addirittura pignorato dalla sentenziosità didascalica dei dialoghi e dei monologhi.
La tensione drammatica delle situazioni si stempera, infatti, nella prolissità di meditabonde ruminazioni, di dettagliatissime descrizioni, di paludate rievocazioni, di scientifiche dissertazioni. L'azione quasi s'affloscia sfilacciata, ché il D., non bastandogli il sermoneggiante commento dei cori, appesantisce il dialogo con attardanti digressioni riflessive ulteriormente amplificate da interrompenti soliloqui. Tale d'altronde il criterio compositivo insito nella sua concezione del genere tragico.
Stando al Dialogo sopra le tragedie - nel quale il D. convoca a discuterne Ciro di Pers, il siciliano Bartolomeo Varisano Grimaldi, il patrizio lagunare Niccolò Sagredo - queste debbono "dimostrare l'infelicità e la pena della sceleraggine", proponendo, perciò, più che personaggi fortemente individualizzati, protagonisti stilizzati, genericizzabili, sì che, ad esempio, il "tiranno dia l'"idea della tirannide", il "superbo quella della "superbia".
Non figure, allora, dalla prorompente individualità ma tipi idealizzabili. Voluta, allora, nel D. la scarsa teatralità e subordinata ad occasione d'eloquenza predicatoria, spesso stucchevole, ma, talvolta, solenne. Così il tema fondamentale delle sue tragedie - il contrasto tra ragion di Stato e amore - anziché concentrarsi in dramma passionale si diluisce nelle volute loquaci della riflessione declamata e della perplessità ondivaga e tentennante. Ciò non toglie che il rodio del regno, la smania del dominio che il D. non riesce (anche perché teoricamente non vuole) a far esplodere nei suoi personaggi non possano, per taluni versi, essere anche percepiti come slavati preannunci delle furie dei tiranni alfieriani.
Al D. tragico s'aggiunge il D. autore di sei dialoghi - Della creazione, Dell'anima, Della chimica (nel senso d'alchimia, sulla quale il D. ironizza), Degli atomi, Dell'astronomia, Delle meteore - in versi sciolti, il metro preferito dal D., che anche nelle tragedie adotta gli endecasillabi misti di settenari. Altri dieci dialoghi (Delle sette dei filosofi, Del mondo in universale, Dei principii, Della generazione, Dell'anima, Dei sensi, Della terra, Delle meteore, Dell'astronomia, Di Dio e della provvidenza), assemblati, a mo' di "giornate" d'un garrulo Decamerone filosofico-scientifico, dalla incorniciante ambientazione nella villa Dolfin sul Brenta (la stessa, dunque, della coeva Arcadia in Brenta di Giovanni Sagredo), il D. compone, attorno al 1665-67, coll'intento, al solito volutamente dimesso di fornire ai nipoti un sommario d'argomenti attinenti alla filosofia e alla scienza.
In questo caso il D. si vale, un po' per esorcizzare l'irruzione dell'insidia latente del dialetto, un po' perché meglio si presta ai vezzi e agli artifici a lui cari (allitterazioni, assonanze, antitesi), d'una prosa spruzzata d'affettazione toscaneggiante che, proprio per questo, piacerà ad Orazio Rucellai e a Carlo Roberto Dati. Circola, comunque, nei dialoghi in versi e in prosa del D., vivacizzando il suo chiacchiericcio buonsensaio, ma nel contempo controllato sì da non scadere nella banalità, una piluccante curiosità scientifica lambita da un moderato galileismo (e l'eliocentrismo è "sistema" che il D. enuncia tramite un interlocutore, mentre, sempre tramite interlocutore, riconosce che il geocentrismo poggia solo sulle "sacre carte", ma è privo di "dimostrazione" probatoria), non sorda al rimbalzare, magari dalla Toscana o dalla vicina Venezia, di echi cartesiani e gassendiani, attizzata da qualche aggiornata lettura. Ci sono, insomma, nel D. dei dialoghi, un sentore d'apertura mentale, una complementare ricettività nei confronti d'una gamma disparata di autori, da Francesco Patrizi a Fortunio Liceti, da Bacone ad Atanasio Kircher, da s. Agostino a s. Giovanni Crisostomo e a Macrobio. Sovrabbondante il richiamo ai classici antichi, epperò selettivo ché scarta - così turbando l'aristotelico vescovo di Ceneda Albertino Barisoni - la fisica d'Aristotele (l'autore, peraltro, forse più citato), inneggia (forse non ignaro del rilancio gassendiano) ad Epicuro e (forse raggiunto dal rumore dell'insurrezione atomistica scoppiata in Francia anche contro Cartesio) mostra simpatia per Democrito, cita con riverenza Lucrezio. Riconducibile, altresì, al filone Epicuro-Lucrezio la pessimistica saviezza di qualche sua formulazione. Si ha, talvolta, l'impressione che il D., impermeabilmente tridentino in veste di patriarca, si riserbi privati spazi di scettico disincanto, si coltivi un personale orticello di ragionevole eclettismo non pressato da preoccupazioni d'ortodossia cattolica. Le riflessioni, poi, suggeritegli dalla lettura del tacitiano Agricola e di Sallustio inducono al sospetto utilizzi - sul solco d'una collaudata e ormai secolare prassi - i due storici latini per contrabbandare scampoli machiavelliani.
C'è, infine, il D. lirico, il D. autore di sonetti e canzoni (e, in queste, è evidente l'influenza di Fulvio Testi), che non è possibile valutare integralmente perché i versi - presumibilmente galanti e, magari, scollacciati - della sua giovinezza o sono stati deliberatamente distrutti o ne è stata omessa la trascrizione. Restano, pertanto, solo le rime di riflessione etica di funebre cordoglio, di religiosa ispirazione, di encomio, di celebrazione. E c'è un nesso tra il lirico e il tragico, laddove la tragedia sviluppa in dissertazioni su sfondo grandioso spunti meditabondi delle liriche.
Argomenti o stimolo per il verseggiare del D. la lotta contro il Turco (che impegna suo padre e i suoi fratelli e sulla quale incita a comporre anche l'amico Busenello), la "declinazione" dell'impero romano, la canonizzazione di Francesco di Sales, la "malignità" dei tempi, i "tormenti" e le "pene" dei cosiddetti onori, la brama di ricchezza, la "tranquillità della villa" contrapposta al "tumulto" urbano, l'inanità e fallacia delle ambizioni mondane, le disavventure cortigiane del Testi, la vanità del tutto, la miseria della condizione umana, il dolore che pervade l'esistenza, il mondo come "carcere tetro", il bizzoso cangiare della fortuna, la fralezza e precarietà delle revocabili glorie terrene, il cupo fantasma della morte, la polvere, la cenere, la storia costellata di "cadaveri di regni", la maestà del cosmo, i fremiti devoti.
Autore per "passatempo" s'intestardisce a definirsi il D., che scrive solo per assaporare "diletti sinceri" di gran beneficio all'"alma", incurante d'"applauso mondan", ben deciso a rimanere "occulto e ignoto". Perciò si fa un punto d'onore di sbandierare come incancellabile la "risoluzione" - "non avrei certo mai cuore di alterarla", asserisce - di non pubblicare alcunché; e lega le mani in tal senso sia al fratello Daniele sia, dopo la morte, del 26 genn. 1698, di questo, al nipote Dionisio suo coadiutore e successore. Autore inedito, allora, il D., per tutta la vita, com'è capitato al coevo e contiguo Ermes di Colloredo (che, forse, il D. ha conosciuto di persona, se non altro perché amico dei suoi amici letterati), il quale, comunque, non s'è mai vantato della mancata stampa e, forse, l'ha più subita che voluta. D'altronde ciò non significa, di per sé, ignorata solitudine: il Colloredo ha, appunto, goduto d'una certa fama in loco ed ha anche avuto l'imperatore Leopoldo tra i suoi lettori. Quanto al D., dedicatario della Pallas armata... (Genova 1663) di Basilio Zancaruolo e del Bellum pannonicum... (Utini 1665) di Giovanbattista Nigronio che indica nel D. l'ispiratore del poema, già negli anni Sessanta del sec. XVII, riscuote un'autentica messe d'attestati di stima e si parla di lui in circoli socialmente e culturalmente qualificati di varie città italiane. E qualcosa si sa di lui anche Oltralpe.
Un medaglione a tutto tondo gli dedica, nella sua panoramica di "letterati" italiani e stranieri, Lorenzo Crasso, il quale si mostra bene informato dei suoi titoli anche se sottratti al "torchio". C'è un sincero interesse per la sua produzione, soprattutto per le tragedie. Ma non manca chi è attratto più ancora dai dialoghi come il domenicano Giacinto Libelli, maestro dei Sacri Palazzi romani e futuro arcivescovo d'Avignone, reputandoli elargitori d'un compiuto sistema filosofico. I suoi versi sono letti a Torino da letterati bazzicanti a corte. Molto o poco del D. leggono Raimondo Montecuccoli (la cui vittoria di San Gottardo nella Raab il D. celebra con un'ode che si premura di recapitargli), Daniello Bartoli, lo stesso imperatore Leopoldo. Persino Corneille si sente in dovere d'accostarsi alla sua opera tragica. Suoi estimatori a Ferrara l'abate don Angelo Maria Arcioni e Flavio Torri. Suo incondizionato ammiratore più tardi presso Portogruaro il conte Enrico Altan di Salvarolo, l'autore della Romilda (Venezia 1699). Non pochi i suoi lettori a Venezia e a Padova, dove, ancora dal 3 apr. 1645, è membro dell'Accademia dei Ricovrati (presso i quali, il 17 giugno 1679, ascolterà, assieme al vescovo Barbarigo e ai rettori, dissertare il facondo Firmano Pochini).
Un credito ed una fama di letterato impensabili senza un'autorizzata diffusione dei suoi scritti. Lungi, in effetti, dal chiudere nel cassetto i suoi autografi, il D. sovrintende all'allestimento d'eleganti apografi da immettere in una ben orchestrata circolazione, nell'ambito della quale il D. - se richiestone da persona di riguardo e, anche, di propria spontanea volontà - è sempre disponibile all'invio d'esemplari manoscritti accuratamente confezionati.
"Intendo - così il D., il 7 apr. 1666, all'arciconsolo della Crusca (ove si plaude alla dialogata presentazione in italiano d'argomenti oggetto, in genere, di ponderose dissertazioni in latino) Orazio Rucellai - ... che cotesti eruditissimi accademici" non solo "non disapprovano i miei dialoghi", ma pure "bramano la tragedia ... Creso, la quale ... mandai, dopo la Cleopatra, al principe Leopoldo" de' Medici, il futuro cardinale. Ora, prosegue il D., venendo incontro al desiderio dei soci della Crusca, "servirò un'altra copia che ho già ordinata".
Ma mentre il D. incoraggia così, per poi compiacersene, il lusinghiero successo dei suoi testi circolanti in più copie in Italia e fuori d'Italia, il 7 marzo 1667 egli viene (non senza sorpresa ché i pronostici davano per certa l'assegnazione della porpora al vescovo di Brescia Marino Giovanni Zorzi non a caso detto, per l'evidenza delle sue ambizioni e per le buone probabilità di realizzarle, "il cardinalino") promosso cardinale da Alessandro VII, in premio, si dice, delle benemerenze acquisite a suo tempo coll'appoggio, diretto e indiretto, al rientro (concesso dal Senato il 19 genn. 1657) in laguna della Compagnia di Gesù.
All'arrivo del "corriere espresso" con l'"aviso", Udine è tutta un tripudio d'"universale contentezza" e "pienezza d'affetto" scrive, il 13 marzo, il luogotenente Alvise Foscari al Senato, il quale, nel congratularsi col D., gli dona 6.000 ducati. A questi si sommano i 6.000 del Consiglio cittadino udinese e i 500 dei canonici della cattedrale sicché pure il capitolo d'Aquileia, vedendo che "tutti a gara" ossequiano "Sua Eminenza" con tanta "generosità", non può esimersi dall'aggiungerne altri 300. Sollecita la partenza del D. per Roma, dove giunge il 6 maggio, subito assicurando all'ambasciatore veneto Giacomo Querini che tutte le "operationi sue" saranno "dirette all'honor del signor Dio, che vuol dire in vantaggio della nostra Repubblica" e, quindi, non celando, nei giorni successivi, la sua disapprovazione per l'accentuato filospagnolismo del morente Alessandro VII. Presente al conclave - ed ha un voto, forse il suo, nello "scrutinio" del 17 giugno - che elegge Clemente IX, da questo riceve, in luglio, il "cappello cardinalitio", fregiato dapprima, il 18 luglio 1667, dal titolo di S. Salvatore in Lauro, quindi, il 19 maggio 1670, da quello dei Ss. Vito e Modesto.
Plaudenti, intanto, i letterati col neocardinale, appunto, letterato. "Taccia la fama" - ingiunge un sonetto d'Alessandro Maria Vianoli -ché i "fiati" della sua possente "tromba" non sono adeguatamente "sonori" all'importanza del "grand'evento", che la Crusca, per parte sua, celebra proclamando "con estremo giubilo", il 27 settembre, il D. socio ed offrendogli - quando il D., nell'ottobre, rientrando in sede, passa per Firenze dando al granduca Ferdinando II l'impressione d'essere "cardinale di tutto garbo" - "due accademie ... l'una privata ... l'altra pubblica". Così, con questo prestigioso riconoscimento proveniente dall'accademia più illustre della penisola, la nomea letteraria del D. viene accreditata ufficialmente.
Ma nel contempo il D., una volta porporato, smette di scrivere. Forse ha meno tempo, forse la vena s'è prosciugata, forse, soprattutto, ritiene disdicevole passare per cardinale-scrittore. Meglio, semmai, lo si riconosca "padre delle lettere", loro protettore e, più ancora, uomo di profonda "dottrina"; ed è, a tal fine, conveniente si diffonda la fama della sua "celebrata" biblioteca nel palazzo di famiglia a Venezia "specialmente ... copiosa", precisa l'aggiornamento della guida sansoviniana decantante i pregi della città, in fatto di patristica. Continua, comunque, la circolazione dei suoi scritti, per cui, ad esempio, l'aspirante tragediografo E. Altan il Giovane lo ringrazia, il 15 febbr. 1683, da Salvarolo, delle quattro tragedie di cui "V. E. s'è compiaciuto inviarmi gli esemplari".
Soddisfatto dalla sua posizione anche economica (è commendatario delle abbazie di Moggio, Rosazzo, S. Pietro d'Ossero, sommando così i relativi "benefizii") che gli permette, ad esempio, d'acquistare, il 10 dic. 1686, "una casa con casin et horto" alla Giudecca, in buoni rapporti con gli esponenti di maggior conto del patriziato veneziano (e il fatto sia "amico" di "senator grande che tiene interesse nel teatro di S. Luca" a Venezia può far supporre un D. un minimo attento anche alle rappresentazioni teatrali, anche al melodramma), gratificato in più occasioni- ad esempio quando, nel 1672, la sua sententia sbroglia l'arruffata matassa del contenzioso, a Verona, tra il vescovo Sebastiano Pisani e il capitolo - dall'esercizio, sollecitato e richiesto, della sua avvertita autorevolezza (che non funziona, però, quando s'adopera per ricondurre alla Chiesa Gregorio Leti), il D. resta fedele, nel patriarcato, alla collaudata prassi simultaneamente disponente e verificante. Donde il proseguimento della seconda visita pastorale che, già intrapresa prima della promozione a cardinale, porta avanti sino al 1670, mentre ad ulteriori ispezioni provvede, tra il 1673 e il 1692, il fratello Daniele aiutato dal vescovo di Cittanova Niccolò Gabrielli.
Immediatamente evidente, appena rientrato nella diocesi, che il clero, specie i parroci, disattende l'"esecutione pontuale" di quanto, nel sinodo, "è stato prescritto". Il D., che deve fronteggiare le assordanti beghe dei capitoli di Udine, Aquileia e Cividale, indice, allora, per ribadire vigorosamente i decreti del primo e per troncare i "vitia", addebitabili all'inosservanza di quello, "novis legibus", e per opporre a tanti inconvenienti "nova remedia", un secondo sinodo che viene celebrato nella chiesa udinese di S. Antonio il 16-17 maggio 1669. In aggiunta alle norme del primo questo dispone: l'istituzione in ogni parrocchia d'una compagnia o scuola della dottrina cristiana; la sospensione "a divinis" pei trasgressori dell'obbligo della residenza; il dovere degli arcidiaconi e dei vicari foranei di riferire, entro tre mesi, "si qui reperiantur abusus, si quae scandala oriantur", se i sottoposti "vicariae" conducono "religiosam et honestam vitam", se in generale si rispetta la volontà del vescovo. "Super quibus omnibus - recitano le Constitutiones ... secundae edite, con le prime, a Udine nel 1697 - eorundem archidiaconorum et vicariorum foraneorum oneramus conscientiam". Insistenti, altresì, le lettere pastorali, prima e dopo la porpora, sulla necessità d'"esplicar l'evangelio" dal pulpito nelle feste comandate, d'"insegnar la dottrina christiana ai fanciulli" coll'ausilio dei "secolari" più idonei ad "ammaestrare". Purtroppo "sopra il grano gettato" dal concilio di Trento e rilanciato nella diocesi dalle norme sinodali "ha seminato il demonio la zizania di molti abusi". Purtroppo deturpa l'"ecclesiastico istituto" il "loglio de' disordini". E il D. è come un giardiniere - ed affiora in quest'immagine di sé, nella lettera pastorale del 10 febbr. 1674, il letterato in lui sempre latente - addetto alla "siepe dell'ecclesiastica disciplina", la quale dev'essere assiduamente "ritoccata" sicché gli "abusi" siano "recisi" e possa degnamente comparire in tutta la sua regolare "perfezione" al "cospetto del sommo agricoltore", Dio, "che la piantò". Una fatica di Sisifo quella d'esigere ordine nel disordine di tenaci abitudini, quella di richiamare alla "bontà della vita" un clero che gioca a carte in osteria, gozzoviglia, passa intere giornate a cacciare, a uccellare. Indignato soprattutto il D. dal suo "vestir" sconveniente: vesti corte, cappelli con nappe, calze dai colori sgargianti, maniche aperte, gran fiocchi, bottoni superflui, anelli, zazzere e, quando è carnevale, maschere. Intransigente su questo punto minaccia ai recidivi gravi sanzioni; e non esita a ricorrere all'"aiuto del brazzo secolare". Motivo di speranza per lui il seminario, "in quo clericalis militiae propagatur ordo"; ed egli veglia fiducioso gli adolescenti quivi educati siano - giusto il paragone delle sue costituzioni sinodali - "tamquam tenellae plantae uberrimos ... fructus allaturae" una volta piantate, simultaneamente alla contestuale intensificazione dell'edilizia sacra, nelle parrocchie e nelle filiali. Ché, nella concezione del D., la vita religiosa ha nello zelo dei parroci e dei cappellani il suo primo indispensabile fattore.
Come cardinale il D., oltre a professarsi "vero cittadino" di Venezia oggetto dei suoi "zelanti humili sentimenti", dimostra - e così è riconducibile alla posizione già propria del prozio omonimo - un dichiarato "zèle pour les interésts et le service" del re di Francia sicché Luigi XIV si rivolge a lui come a "mon cousin", sicché, più concretamente, le istruzioni, del 29 sett. 1675, all'ambasciatore francese a Venezia Jean-François d'Estrades gli raccomandano non solo di "donner" al D. "asseurances" dell'"affection" e dell'"estime" regie, ma d'indurlo ad usare la sua influenza sul cardinal Flavio Chigi - si sa che a questo il D. è "extremement uni" - perché anche questi conservi le sue "dispositions favorables" alla Francia.
Presente a Roma in occasione dei conclavi, in quello, prolungatissimo, successivo alla morte di Clemente IX, il D. ha un voto e talvolta due negli scrutini tra il 23 dic. 1669 e il 18 febbr. 1670 e, pure negli scrutini, svoltisi tra il 5 e il 26 ag. 1676, del conclave posteriore, c'è un voto testardo (è supponibile sia il suo) a lui indirizzato che talvolta raddoppia e una volta, il 5 agosto, si triplica. Nessun voto, invece, a favore del D. risulta nel conclave che elegge il successore d'Innocenzo XI. Ma è ben in questo che il D., in sintonia col cardinale Marcantonio Colonna, riesce a persuadere il cardinale Paluzzo Altieri a spostare il pacchetto di voti da lui controllato sul cardinale veneziano Pietro Ottoboni. Tant'è che questi, divenuto Alessandro VIII, riconosce - nel breve al Senato del 27 ott. 1689 - di dovere l'elevazione al soglio ai porporati veneti compatti sulla sua candidatura, tra i quali il D. è, appunto, quello che più per lui s'è prodigato. Ed il nome del D. - che avrebbe declinato la segreteria di Stato (e dei versi, del novembre 1689, di Federico Nomi si rivolgono al D. come titolare di questa) offertagli da Alessandro VIII proprio per non pregiudicare, a detta di voci a lui ostili, le possibilità di riuscita, in futuro, d'una sua candidatura - rispunta nel conclave, laboriosissimo e travagliatissimo, che segue alla morte, del 1º febbr. 1691, del papa veneziano. Stando ad un'anonima narrazione dell'andamento di questo, il D. partecipa, forte d'una sorta d'accordo "segreto" sul suo nome, certo, quanto meno, della non ostilità delle "corone" nei suoi riguardi. D'accordo, formalmente, con gli "zelanti", per non averli contro, conta sull'appoggio del cardinale Flavio Chigi, punta alla spaccatura della "lega" tra il cardinale Paluzzo Altieri e il cardinale Pietro Ottoboni, nipote del defunto pontefice. Poco risulta di tutto questo sotterraneo manovrare dall'inconcludente susseguirsi degli scrutini nei quali, tra il 17 febbraio e il 5 maggio, il D. racimola per lo più un voto, talvolta due, una volta tre, mentre, il 7 maggio, ne ha due volte quattro in coincidenza coi cinque e nove andati al suo collega veneziano cardinale Gregorio Barbarigo. E il fatto che i cinque voti andati al D. il 10 giugno coincidano coi sei indirizzati al secondo è già preannuncio di inasprita contrapposizione, anche se la candidatura del D. sta prendendo corpo, profilandosi come credibile, come suscettibile d'allargata confluenza. Dopo il 20 giugno, a detta dell'ambasciatore veneto Domenico Contarini, "le pratiche per l'essaltatione del merito" del D. stanno per esitare, grazie alle sue "poderose adherenze" e al pieno "concorso delle corone", in una trionfale affermazione. Ma, il 23 giugno, quando questa pare certa, "con rammarico universale", cadono le "speranze" giunte "al colmo del loro vicino effetto". Indignati, spiega la narrazione anonima, gli "zelanti" all'ipotesi d'un papa sospetto di rifarsi alla condotta d'Alessandro VIII (di cui il D. è stato grande elettore), che col suo spudorato nepotismo aveva "posta a sacco la Chiesa di Dio", rifiutano, in un soprassalto d'"avversione" morale, il voto al D., votando, invece, compatti per Barbarigo. Sicché - incrudelisce la narrazione - i trentatré voti a questo sono altrettante "saette" che, colpendo il D., "lo seppellirono in maniera che mai più se ne parlò". I suffragi confluiranno, invece, abbondanti sul cardinale Antonio Pignatelli; così, scrive il D. il 12 luglio al Senato, "dall'empito sacro dello spirito di Dio ... è spiccato all'altare il più lucido candeliero". Cinque mesi, precisa il D. non senza un pizzico di perfidia, ci sono voluti per scorgere le qualità d'Innocenzo XII, forse perché nascoste dall'"abisso di luce della sua santa modestia".Ritornato alla diocesi, il D., anche se l'età non gli permette la mobilità d'un tempo, non rallenta il suo zelo pastorale che l'induce ad esortare ed ammonire sino al 30 maggio 1699, data del suo ultimo "editto". Cade quindi gravemente ammalato, riducendosi - informa il 14 giugno il luogotenente Antonio Giustinian - "agli estremi della vita". A da tre giorni immobile, incapace di parlare ed ha già ricevuto i sacramenti, aggiunge, il 20, il nunzio a Venezia Agostino Cusani. E la resistenza al male si protrae sino al 20 luglio, quando muore, venendo quindi - dopo le esequie solenni nel duomo di Udine dove lo ricordano i canonici Sebastiano Mottis e Niccolò Dragoni - tumulato il suo corpo nella chiesa lagunare di S. Michele in Isola.
Nel patriarcato gli subentra il nipote Dionisio, mentre al fratello di questo Daniele detto Marco restano "tutte rassegnate" le "abbazie" di cui il D. "tenea i benefizii". Prosegue così il saldo attestamento della sua famiglia sul versante lucroso delle rendite ecclesiastiche. Dimenticato ben presto il D. cardinale (la cui scomparsa provoca, comunque, "grande turbamento" in Innocenzo XII, "non solo per la stima, ma" anche - precisa con involontaria ironia l'ambasciatore a Roma Niccolò Erizzo - "per la similitudine della sua età con quella del defonto") e - se non altro nelle speranze dell'ambasciatore Contarini - quasi papa, resiste l'attenzione per il D. autore, già intensificatasi e cresciuta in termini di consapevolezza critica durante l'ultima fase della sua esistenza quando tra i suoi lettori s'annovera Pier Iacopo Martello, quando Gravina, nel Regolamento degli studi della marchesa Isabella Vecchierelli Santacroce, menziona le sue tragedie come degna filiazione della tradizione classica. Già alla fine del Seicento, man mano si prendono le distanze dalle incontinenze di forma e contenuto, si privilegia il D. come preannuncio precorritore d'una salutare reazione al barocco, si elogiano la compostezza riflessiva e l'impettito decoro delle sue tragedie, prive, se non altro, d'orrorose truculenze. Particolarmente motivato l'apprezzamento di Gravina per il fecondo suggerimento di dignitosa e controllata sostenutezza da esse offerto e con lui concorderà, in fine dei conti, Benedetto Croce nella manifesta simpatia pel classicismo moraleggiante del D., cui riconoscerà indulgente "figurazioni piene di nobiltà" e "alti pensieri". È nella convinzione, comunque, siano improntate da siffatti pregi che, nel primo Settecento, come constata il letterato e viaggiatore friulano Niccolò Madrisio, "le tragedie" del D. risultano reperibili in gran "quantità d'esemplari" in "tutte le principali librerie della penisola", specie a Napoli, a Roma e, più ancora, a Firenze, dove - così garantisce a Madrisio Magliabechi - c'è persino chi campa "col solo impiego di copiarle". Sempre più pressante, di conseguenza, il desiderio nella "repubblica letteraria" esse vedano finalmente, come dice Crescimbeni, la "pubblica luce". Prima trasgressione, peraltro involontaria (dell'autore l'erudito veronese ignora pressoché tutto, tant'è che, il 27 sett. 1724, chiede a Pier Caterino Zeno di fargli "sapere" il "nome" del "card. Delfino", quello di suo padre, gli estremi della nascita e della morte e "qualche altra notizia" biografica), l'inserimento della Cleopatra nella silloge (costituita da dodici tragedie e non riducibile a mero recupero letterario ché la compagnia di Luigi Riccoboni le aveva, dietro suggerimento di S. Maffei, incorporate nel proprio repertorio recitandole in alcuni teatri) maffeiana Ilteatro italiano (III, Verona 1725, pp. 291-376). Segue il colpo di mano dell'edizione olandese (Utrecht 1730) di tutte e quattro le Tragedie. Ma la stampa è talmente scorretta che il nipote patriarca - visto che la volontà del D. non è stata rispettata e visto che, a questo punto, è meglio salvaguardare il dettato autentico delle sue composizioni - autorizza l'uscita, a Padova nel 1733, d'una elegante e corretta edizione accompagnata dal Dialogo sopra le tragedie, che figura pure nell'edizione romana, allestita per proprio conto dall'editore Giovan Maria Salvioni, dello stesso anno. Sollecitata poi dalla diffusa moda del verseggiare di filosofia e scienza l'edizione lagunare (in Miscellanea di varie operette, I, Venezia 1740, pp. 1-160) dei sei Dialoghi in versi, mentre i dieci in prosa, meno fortunati, restano inediti eccezion fatta per la riesumazione novecentesca di quello Della terra (a cura di F. Anselmo, Messina 1964).
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Correr, VI/317, 330; Ibid., Mss. P.D., c 756/53; 2500/X, 3; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura Venezia, 87, cc. 129r, 142r-143r; go, lettere del 24 novembre e 22 dic. 1657; 91, c. 39r; 104, cc. 148r, 150r, 172r, 221; 147, cc. 430, 495, 501; G. F. Palladio degli Olivi, Hist. ... del Friuli, II, Udine 1660, pp. 330, 332 ss.; L. Crasso, Elogi de ... letterati , I, Venetia 1666, pp. 206-211; G. Gualdo Priorato, Scenad'huom. ill., Venezia 1669, cc. non num.; C. Freschot, Li pregi della nobiltà ven...., Venezia 1682, pp. 53, 55; E. Altan, Delle ode ..., Venetia 1682, pp. 59-64; Id., Ricreazioni..., Venezia 1717, pp. 16, 39; Id., Scelta di lettere , Venezia 1730, pp. 3-5; Conclave ... nel quale fu assonto ... Innocentio XI , s.l. 1677, pp. 39 s.; Ambasceria della Grecia liberata al padre delle lettere ... G. D. ..., Udine s.d. (ma 1687 circa); C. di Pers, Poesie ..., Venezia 1689, nella Vita dell'autore (cc. non num.) che precede il testo; Conclave ... nel quale fu creato ... 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