Duns Scoto, Giovanni (lat. Iohannes Duns Scotus) Filosofo (n. in Scozia, prob. presso Duns, Berwick, 1265-66 ca
m. Colonia 1308). Verso il 1278 entrò nell’ordine dei frati minori; nel 1303 leggeva le Sentenze a Parigi dove divenne poi maestro di teologia; incerta la sua carriera di insegnante che si svolse probabilmente tra Cambridge, Oxford e Parigi e infine a Colonia. Delle opere che vanno sotto il suo nome sono ormai da ritenere sicuramente originali: il trattato De primo principio, le Quaestiones in Metaphysicam, l’Opus Oxoniense e l’Opus Parisiense (commenti alle Sentenze: il primo opera diretta di D. S., il secondo reportatio dei discepoli), Quaestiones su opere logiche (Porfirio, Aristotele), De anima e Theoremata (redatte da discepoli, non sappiamo se approvate dal maestro).
D. S., che è forse il più acuto pensatore del Medioevo (ebbe difatti il nome di Doctor subtilis), dedicò gran parte delle sue trattazioni a problemi gnoseologici e metafisici, che traggono il loro spunto polemico dal razionalismo e dall’aristotelismo della filosofia domenicana. Dell’aristotelismo egli si serve per penetrare più addentro all’intima costituzione del tomismo e scorgerne tutte le debolezze; così egli partecipa a quel processo di svolgimento critico e di dissoluzione della scolastica cui, soprattutto, contribuirà un altro francescano, Guglielmo di Occam. D. S. sviluppa alcuni motivi caratteristici della tradizione francescana del 13° sec., approfondendo criticamente l’aristotelismo, spesso in polemica con interpretazioni correnti, e soprattutto con Tommaso d’Aquino; tra le sue dottrine essenziali, la concezione della struttura del concetto, l’univocità dell’essere, l’identità di essenza e esistenza, il primato della volontà. Concepita la materia non come pura potenzialità ma come entità positiva, essa potrebbe esistere (per volere di Dio) anche senza forma. Gli individui sono costituiti da entità o formalità (entitates, formalitates) corrispondenti agli elementi generici e specifici: pur concorrendo in un’unica forma, le formalitates sono formalmente distinte (distinctio formalis a parte rei). Ogni individuo risulta così da una sorta di stratificazione di forme sempre più determinate, fino all’ultima forma individuante che fa la cosa esser tale: questo principio di individuazione per cui ‘questo uomo’ non è ‘quello’, fu chiamata haecceitas (termine tipico dello scotismo, che però si ritrova molto raramente in D. S.). Tale haecceitas, realizzando l’essere nella sua individualità, è anche il fondamentale principio di intelligibilità e oggetto di conoscenza intuitiva: ma l’uomo, dopo il peccato originale, non giunge a conoscere questa radice dell’individualità, dal momento che il suo conoscere si arresta all’individuum vagum. A causa della caduta successiva al peccato di Adamo, l’intelletto ha infatti perso la capacità di cogliere direttamente l’essenza intelligibile che gli è propria, essendo l’intelletto, per sua natura, intuitivo. Le strutture generico-specifiche che si trovano realizzate nella realtà, sono per D. S. realtà univoche: anche l’essere è univoco, pur predicandosi di Dio e delle creature. Sebbene l’intelletto impieghi il medesimo concetto (essere) parlando dell’essere increato e dell’essere creato, tale univocità non comporta che fra l’essere di Dio e quello delle creture vi sia una comunanza reale, bensì soltanto concettuale. D. S. rifiuta anche la distinzione tomista fra ente ed essenza: soltanto l’esistente è vero e, in quanto tale, non può essere distinto dall’essenza.
In psicologia D. S. respinge la distinzione reale tra l’anima e le facoltà, e pur concependo l’anima umana quale forma sostanziale del corpo, ritiene che questo sia informato da una forma sua propria, la forma corporeitatis (l’immortalità dell’anima è oggetto di prove «morali» e «probabili» non di dimostrazione necessaria). In polemica con il tomismo e con l’aristotelismo, ritiene che l’intelletto conosca gli individui direttamente (sebbene nella conoscenza sensibile la haecceitas sia conosciuta soltanto in modo confuso) e che esso elabori i concetti universali, comunque fondati sulla struttura ontologica degli individui. Tra le facoltà, il primato è riconosciuto alla volontà: ogni atto volontario è libero per essentiam, sicché nessun bene è per essa determinante: tesi che D. S. fa valere contro l’intellettualismo tomista. Il volontarismo di D. S. si riflette anche nella teologia, che, eliminata la possibilità di cogliere le verità della fede mediante la ragione naturale, è concepita come scienza eminentemente pratica trattando di Dio non come oggetto di pura contemplazione intellettuale, ma come fondamento e fine della nostra attività (propter operari); opera di amore sono la creazione come l’incarnazione e infine la grazia. Nell’opera della redenzione, grande importanza è data a Maria Vergine, di cui D. S. sostenne l’immacolata concezione contro Tommaso d’Aquino e i grandi maestri del sec. 13°. Dalla rigorosa delimitazione del campo della metafisica nei confronti della verità rivelata derivano le sue critiche alle prospettive tomiste di una teologia come scienza. Tale impostazione si riflette nel rifuto delle prove tomiste dell’esistenza di Dio (inteso come primo motore e dunque col- to all’interno della fisica) e nella rielaborazione (la «coloritura») dell’argomento di Anselmo, ferma restando la constatazione che esse non permettono di cogliere Dio come creatore onnipotente, libero, provvidente, giusto, buono, misericordioso, ecc., ma soltanto come essere infinito realmente esistente, in quanto possibile. «Si può colorare, scrive, anche l’argomento di Anselmo relativo al sommo pensabile […]: ‘Dio è ciò di cui’, pensato senza contraddizione, ‘non si può pensare qualcosa di più grande’, senza contraddizione» (Tractatus de primo principio, trad. it. Trattato sul primo principio, § 79).