Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il pensiero di Giovanni Duns Scoto prende le mosse dal dibattito filosofico e teologico, vivace e talvolta carico di tensioni – come ad esempio nella contrapposizione tra neoplatonismo francescano e tomismo domenicano – che si sviluppa nell’ultima frazione del XIII secolo. Duns Scoto non aderisce appieno né all’una né all’altra corrente, ma accoglie, sviluppa e rielabora le istanze più significative delle due posizioni, giungendo in tal modo a risultati del tutto originali, sia nel campo della teologia e del rapporto che questa intrattiene con la scienza, sia nel campo della metafisica e della gnoseologia.
Giovanni Duns Scoto
Affermo che Dio viene appreso non soltanto in un concetto analogo al concetto di creatura, il quale cioè sia un concetto del tutto diverso da quello che ci formiamo della creatura, ma in un concetto univoco a lui e alla creatura. E perché non si questioni sul nome di univocità, io chiamo concetto univoco quello che in tal misura è uno che la sua unità basti per la contraddizione, quando lo si affermi e lo si neghi circa la medesima cosa, e sia sufficiente a fungere da mezzo termine del sillogismo, sicché gli estremi uniti da tale termine medio consentano che si concluda che siano uniti tra loro in modo da evitare la fallacia dell’equivocazione.
E provo […] l’univocazione così intesa. In primo luogo così: ogni intelletto che è certo di un concetto e incerto di altri ha di ciò di cui è certo un concetto diverso dai concetti di ciò intorno a cui è incerto; il soggetto include il predicato. Ora, l’intelletto dell’uomo viatore può essere certo intorno a Dio che sia ente, e insieme dubitare se sia ente finito o ente infinito, creato o increato; dunque il concetto intorno a Dio è diverso da questo o da quel concetto, e così il concetto di ente non è per sé né questo né quello, ma è incluso in entrambi; dunque è univoco.
In secondo luogo argomento principalmente così: nessun concetto reale è causato naturalmente nell’intelletto dell’uomo viatore se non da quelle cose che lo possono muovere naturalmente; ora, tali cose sono l’oggetto che risplende nel fantasma e l’intelletto agente; dunque, nessun concetto semplice ha luogo naturalmente nel nostro intelletto attuale se non quello che può essere causato per virtù di costoro. Ora, un concetto che non fosse univoco all’oggetto che risplende nel fantasma ma che fosse del tutto diverso e antecedente, col quale questo avesse solo analogia, non potrebbe accadere per virtù dell’intelletto agente e del fantasma […].
Il che viene confermato nel modo seguente: ogni ricerca metafisica intorno a Dio procede così, cioè considerando la ragione formale di qualcosa, eliminando da quella ragione formale l’imperfezione che comporta nella creatura, conservando quella ragione formale, dandole un’assoluta perfezione, e attribuendola così elaborata a Dio. Si prenda ad esempio la ragione formale di sapienza o di intelletto o di volontà: si consideri primariamente la ragione formale in sé e per sé e, poiché la ragione di questa non include formalmente un’imperfezione o limitazione, da essa si rimuoveranno le imperfezioni che l’accompagnano nelle creature e, conservata la medesima ragione della sapienza e della volontà, queste poi si attribuiscono a Dio in modo perfettissimo. Quindi, ogni ricerca di Dio presuppone che l’intelletto abbia un identico, univoco concetto desunto dalle creature.
in O. Todisco, Giovanni Duns Scoto. Filosofo della libertà, Padova, Messaggero, 1996
Giovanni Duns Scoto nasce tra il 1265 e il 1266 nel piccolo villaggio di Duns, sul confine scozzese con l’Inghilterra. In giovane età, probabilmente verso i quattordici o quindici anni, viene portato nel convento francescano di Oxford, dove entra a far parte dell’ordine e comincia la sua formazione filosofica con gli studi di metafisica, filosofia naturale e logica. Nel 1291, viene ordinato sacerdote nella chiesa cluniacense di Sant’Andrea a Northampton (Scozia), dal vescovo di Lincoln, Oliver Sutton. Dopo ulteriori periodi di studio in teologia, comincia a insegnare come baccelliere: tra il 1298 e il 1299, a Oxford, commenta le Sentenze; nel 1302 lo troviamo a Parigi presso lo studio francescano di Sainte Geneviève, fino al 1303, quando, per ordine di Filippo IV, si vede costretto a interrompere bruscamente le sue lezioni e a lasciare la Francia, accusato insieme ad altri ottantasette francescani di non aver voluto appoggiare il sovrano francese nel suo tentativo di deporre Bonifacio VIII. Duns Scoto trova rifugio a Oxford, ma nel 1304, quando alla morte di Bonifacio le vicende politiche in Francia si fanno più tranquille, egli torna nell’ateneo parigino per completarvi il corso sulle Sentenze con la lettura del quarto libro, che aveva dovuto interrompere al momento della sua partenza forzata.
Sempre a Parigi, nel 1305, riceve la licentia e svolge la prestigiosa funzione di magister regens in teologia, fino a quando, nel 1307, viene inviato dai propri superiori a insegnare nello studio generale francescano di Colonia. Qui, nel mese di novembre del 1308, muore improvvisamente all’età di 43 anni.
Le sue opere sono per la maggior parte il frutto della sua attività di insegnamento, e nascono spesso dalla trascrizione di lezioni o disputazioni tenute dal maestro in sede accademica.
Si tratta soprattutto di commenti filosofici e teologici, oppure di raccolte di disputazioni pubbliche, mentre sono più rari – appena due – gli scritti di carattere sistematico dedicati alla trattazione di un unico tema. La maggior parte di queste opere sono state sottoposte ad aggiunte, correzioni e rimaneggiamenti reiterati, non solo da parte dello stesso autore, ma in alcuni casi anche da parte degli allievi e dei collaboratori che si preoccupavano dell’edizione e della pubblicazione dei suoi testi. Proprio per questo, risulta molto difficile sia stabilire con certezza la datazione della composizione delle opere, sia, in alcuni casi, distinguere i contributi originali di Scoto da quelli eventualmente apportati da altri.
Le prime opere di Scoto, quelle più strettamente filosofiche, sono databili negli anni intorno al 1295, e sono da collegare al periodo di insegnamento di Scoto presso la Facoltà delle Arti dello studium francescano di Oxford. Riunite sotto il titolo di parva logicalia, sono commenti all’Isagoge di Porfirio e ad alcune opere di Aristotele, quali le Categorie, gli Elenchi sofistici e il De interpretatione. Risalgono allo stesso periodo un breve commento al De anima e il commento ai libri I-IX della Metafisica di Aristotele – le Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis – iniziato anch’esso a Oxford, ma in seguito ripreso, ampliato e corretto più volte.
Una parte consistente – per estensione e per rilevanza teorica – dell’opera di Duns Scoto è costituita dai suoi commenti alle Sentenze di Pier Lombardo, il testo base per l’insegnamento della teologia nelle università medievali. Scoto commenta il testo per la prima volta a Oxford come giovane baccelliere; questo commento, che porta il titolo di Lectura, è la sua prima opera teologica. In seguito, torna a lavorare sulla Lectura, con l’intenzione di correggerla e completarla per renderla adatta alla pubblicazione: è questa l’origine dell’Ordinatio, opera incompleta cui Scoto lavora a più riprese tra il 1300 e il 1307. Infine, una terza versione dello stesso commento è costituita dai Reportata Parisiensia, che raccolgono gli appunti presi dagli allievi durante le lezioni parigine.
Tra i lavori più tardi, vanno infine segnalate due opere a carattere sistematico − il Tractatus de primo principio sull’esistenza di Dio, e i Theoremata anch’essi dedicati a questioni di fede − e le Quaestiones Quodlibetales, disputate nel 1306 o 1307.
Duns Scoto insegna, come molti pensatori medievali, che l’uomo è un composto di anima e corpo, e che l’anima razionale, con le sue facoltà di intelletto e volontà, costituisce la forma specifica dell’essere umano, vale a dire ciò che lo contraddistingue e lo rende tale, differenziandolo da tutte le altre creature.
Scoto specifica che le facoltà dell’anima non sono realmente distinte, né tra loro né dall’anima stessa: non si tratta di sostanze diverse, ognuna dotata di una propria esistenza autonoma, ma di potenze che ineriscono a un’unica sostanza e la costituiscono. L’anima e le sue facoltà sono distinte solo formalmente, nel senso che sono irriducibili l’una all’altra e tuttavia si danno sempre insieme ed è impossibile che esistano separatamente: l’anima non si identifica con la volontà o con l’intelletto, né la volontà e l’intelletto si identificano tra loro, e tuttavia intelletto e volontà non esistono se non in quanto sono potenze dell’anima, così come l’anima umana non esiste se non in quanto è dotata di intelletto e volontà. Perciò, è l’anima tutta intera che pensa e desidera (e non una sua parte), ma lo fa in virtù di facoltà e operazioni formalmente distinte.
“Tra le facoltà dell’anima umana, l’intelletto e la volontà sono quelle dotate di maggiore perfezione” (Ordinatio III, d. 17, q. un., n.2). La volontà è il principio del desiderio razionale (appetitus rationalis o intellectivus), mentre l’intelletto è la facoltà per la quale l’anima conosce e pensa.
La caratteristica fondamentale della volontà, secondo Scoto, è la libertà. L’intelletto agisce in modo naturale o determinato: quando un certo oggetto cade nel raggio della sua attenzione, l’intelletto non può astenersi dal conoscerlo, né, quando si trova di fronte a una verità evidente, può non giudicarla e non riconoscerla come vera; in questo senso, la facoltà intellettiva è sempre condizionata dal proprio oggetto. La volontà al contrario è assolutamente libera e capace di autodeterminarsi perché può decidere se desiderare o meno il proprio oggetto e, anche una volta effettuata la scelta, resta libera di revocarla e di optare per quella contraria. L’atto della scelta diventa in tal modo l’unica causa della decisione (nihil aliud a voluntate est causa totalis volitionis in voluntate, Ordinatio II, d. 25, q. un., n. 2), e la volontà, proprio in virtù della sua capacità di autodeterminazione, acquista una chiara superiorità non solo rispetto all’oggetto esterno, ma anche rispetto all’intelletto che lo conosce.
Secondo autori quali Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, l’intelletto, poiché esprime sulle cose un giudizio di valore che le qualifica come bene o male, determina la volontà a volere oppure a rifiutare gli oggetti esterni: una volta riconosciuto un certo oggetto come un bene, non possiamo non desiderarlo. Duns Scoto invece abbraccia la tesi opposta, secondo la quale la volontà è superiore all’intelletto. La superiorità della volontà sull’intelletto risulta evidente sotto due aspetti: in primo luogo, è la volontà che determina l’intelletto al proprio atto e non viceversa, perché, se è vero che la volontà ha bisogno dell’intelletto per conoscere il proprio oggetto, è altrettanto vero che essa può volgere o distogliere la nostra attenzione dagli oggetti, determinandone così la conoscenza; in secondo luogo, la volontà può decidere di ignorare o contraddire i giudizi dell’intelletto, come quando desideriamo ciò che è male, pur riconoscendolo come tale. Duns Scoto lo illustra con un esempio agostiniano: due uomini, trovandosi di fronte alla stessa tentazione, ad esempio la bellezza femminile, possono reagire in modo diverso; un uomo può decidere di cedervi, l’altro può decidere di resistervi. In un primo momento, l’oggetto esterno agisce sull’anima generando un appetito sensibile, senza che gli uomini vi si possano sottrarre; ma la volontà può poi decidere a suo piacimento se mantenere l’attenzione dell’intelletto su quell’oggetto oppure se distoglierla; se aderire al desiderio sensibile oppure no. Così, se anche il primo movimento è causato dall’oggetto sull’anima, quest’ultima rimane poi padrona dell’oggetto e del proprio atto.
Duns Scoto sostiene che esistono due modalità con cui l’uomo può conoscere il mondo: l’intuizione e l’astrazione. La cognitio intuitiva è la conoscenza diretta di un oggetto reale, esistente e presente di fronte a noi. La cognitio abstractiva, invece, è la conoscenza di un oggetto intenzionale, cioè esistente all’interno dell’anima umana. Ciò che differenzia le due modalità cognitive è perciò il modo di esistere dell’oggetto. Nel caso dell’intuizione, la res ha un’esistenza reale, vale a dire che è una sostanza concreta, dotata di un’esistenza autonoma; nel linguaggio della scolastica si dice che l’oggetto è presente subiective cioè come un soggetto, o un individuo che esiste di per sé, indipendentemente dalla causa che l’ha generato e dall’anima che lo pensa. Nella conoscenza astrattiva, invece, la res non ha un’esistenza autonoma, ma viene ad essere solo grazie all’atto dell’anima che la pensa, dunque esiste obiective, come un oggetto mentale o intenzionale, prodotto dell’attività conoscitiva di un soggetto.
Scoto chiarisce il rapporto tra le due modalità cognitive con un’analogia tra il senso e l’intelletto. Quando la res esterna è presente di fronte a noi, i cinque sensi la colgono in modo diretto e immediato; quando invece l’oggetto esterno non è presente, o addirittura non esiste, possiamo comunque ricorrere alla nostra fantasia, e recuperare l’immagine di un oggetto che abbiamo conosciuto nel passato, oppure costruire la chimera di un oggetto che nella realtà non esiste, come quella di un unicorno. Così, nella percezione, il senso instaura con l’oggetto un rapporto diretto, proprio come fa l’intelletto nella cognitio intuiva, mentre, nell’atto di immaginazione, il rapporto è indiretto, come nel caso della cognitio abstractiva.
In base all’esistenza reale o intenzionale dell’oggetto, cambia il modo della conoscenza: la notitia intuitiva, poiché instaura un contatto diretto con l’oggetto reale, ci fa conoscere non solo la sua natura (il genere, la differenza specifica, le proprietà essenziali e accidentali), ma anche la sua esistenza, ovvero il fatto che si tratta di un singolare concreto, esistente e presente qui e ora. Quando invece procediamo per via astrattiva, conosciamo la natura dell’oggetto, ma a prescindere dalla sua esistenza, vale a dire che sapremmo dare una definizione dell’oggetto, elencarne le caratteristiche, e tuttavia non sappiamo se quell’oggetto ha un’esistenza anche fuori dal nostro pensiero e se è realmente presente nel momento in cui lo pensiamo. Una breve precisazione storiografica: gli studiosi del pensiero scotista sono in disaccordo circa la definizione della conoscenza intuitiva. Secondo alcuni – come ad esempio Etienne Gilson (XXXX) – la cognitio intuitiva genera una rappresentazione dell’oggetto nella mente di chi lo conosce: si tratta di una rappresentazione confusa, in cui l’intelletto non è in grado di cogliere la natura dell’oggetto, ma che si limita a certificare la sua esistenza. Secondo altri, invece – come ad esempio Camille Bérubé o Allan Wolter – la notitia intuitiva non richiede alcuna rappresentazione, ma trattandosi di una conoscenza immediata, coglie direttamente il suo oggetto senza far ricorso a nessun intermediario intenzionale.
Scoto specifica che il nostro intelletto, per sua natura (ex natura potentiae), è perfettamente in grado di esercitare entrambe le modalità cognitive, e che tuttavia il viator – cioè l’uomo terreno, che, vivendo in questo mondo, è già in cammino verso la sua patria celeste – si trova in una condizione tale che non riesce a esercitare la conoscenza intuitiva in forma piena e completa, ma deve accontentarsi di conoscere il mondo per astrazione. L’intelletto del viator, infatti, non riesce nello stato presente a dirigersi direttamente sull’oggetto concreto ed esistente, e a conoscerlo in tutte le sue caratteristiche, come richiederebbe la notitia intuitiva. Per conoscere gli oggetti ricorriamo sempre alla cognitio abstractiva: i cinque sensi (vista, udito, olfatto, gusto e tatto) percepiscono il mondo esterno, raccogliendo i dati sensibili che vengono poi elaborati dall’anima sensitiva ed espressi in un phantasma, cioè un’immagine mentale o intenzionale che raffigura l’oggetto in tutte le sue caratteristiche sensibili (Socrate, per esempio, sarà raffigurato come un uomo alto, riccio, balbuziente e così via); è precisamente questa immagine – e non l’oggetto reale e concreto – a fare da referente per gli atti dell’intelletto, che quindi sono sempre astrattivi. Ciò implica anche che, nello stato presente, la conoscenza non può non cominciare dalla percezione, e che rientra nelle possibilità cognitive dell’intelletto solo ciò che viene colto dalle facoltà inferiori.
Quando si tratta di definire la natura dell’intelletto dell’uomo viator e la ragione per la quale il suo esercizio è limitato, nella condizione attuale (pro statu isto), alla sola notitia abstractiva, Scoto avanza due possibilità, che peraltro sono conciliabili. La prima ipotesi è che si tratti di una punizione divina, inflitta in seguito al peccato originale: non è il corpo in quanto tale a ostacolare l’atto intellettivo, infatti Adamo ed Eva godevano pienamente delle capacità del proprio intelletto, che potevano inclinare liberamente tanto a una conoscenza astrattiva quanto a un’intuizione; è piuttosto il peccato che ha alterato il rapporto tra l’anima e il corpo, facendo sì che la prima perdesse il completo dominio sul secondo e la possibilità di percepire i sensibili esterni oppure di pensare direttamente il concetto senza passare per il tramite dei sensi. La seconda ipotesi si appella invece alla natura del viator: Dio ha disposto l’intelletto umano in maniera tale che, pro statu isto, esso operi sempre in consonanza con le facoltà sensoriali, così che non si dà pensiero senza immaginazione; non solo non possiamo conoscere nulla che non sia stato prima avvertito dai sensi, ma ogni volta che formuliamo un concetto, immaginiamo contemporaneamente il phantasma corrispondente. Le due ipotesi sono conciliabili, perché si può ipotizzare che la concordia tra le facoltà dell’anima sia una caratteristica propria dell’essere umano; il peccato originale interviene però a limitare le capacità dell’intelletto, privandolo pro statu isto della conoscenza intuitiva. Ciò non toglie che, al momento della resurrezione, quando riacquisterà la natura che gli è propria, l’uomo potrà liberamente esercitare a suo piacimento tanto l’astrazione quanto l’intuizione.
La teoria della conoscenza si complica però, quando, nel suo commento alla Metafisica, Giovanni Duns Scoto sostiene che una certa forma di intuizione ci è possibile anche in questa vita, ma solo in maniera incompleta: non possiamo conoscere intuitivamente la natura degli oggetti, tuttavia possiamo almeno intuirne l’esistenza. Così, durante l’atto percettivo, poiché la nostra anima entra in contatto con l’oggetto esterno, possiamo intuire che si tratta di un oggetto reale, esistente e presente, ma possiamo ottenere una conoscenza della natura dell’oggetto solo tramite il processo di astrazione, che ha come referente l’immagine mentale e non la res.
La distinzione tra le capacità naturali dell’intelletto e le capacità dell’intelletto allo stato presente di unione con il corpo (che è poi la distinzione tra il piano assoluto della metafisica e il piano relativo della condizione attuale dell’uomo) è un espediente teorico di grande rilievo e ricco di implicazioni filosofiche e teologiche.
Innanzitutto, Duns Scoto riesce, proprio grazie a questa distinzione, a mantenere l’equilibrio tra due teorie opposte che si erano fronteggiate durante la seconda metà del XIII secolo: egli accetta sia la dottrina – cara ai francescani – della conoscenza intuitiva, diretta, immediata e completa del mondo, sia la tesi – sviluppata da chi, come Tommaso, aveva mantenuto una più stretta aderenza alla psicologia aristotelica – secondo la quale la conoscenza che abbiamo di qualsiasi oggetto è ottenuta sempre mediante un’operazione di astrazione dell’intelletto e a partire dalla percezione sensibile.
In secondo luogo, questa distinzione permette a Scoto di riconoscere all’uomo delle possibilità conoscitive molto più ampie di quelle ammesse dai suoi predecessori, e di affermare che la ristrettezza del nostro orizzonte conoscitivo è legato solo alla condizione presente. È un fatto che nello stato attuale conosciamo solo ciò che ci è testimoniato dai sensi, dato che la nostra facoltà intellettiva è legata a quella percettiva; tuttavia le capacità del nostro intelletto, al suo stato originario, sono enormemente più vaste: l’intelletto umano è in grado secondo Scoto di conoscere tutto l’essere, senza esclusione alcuna. Con il linguaggio tecnico che gli scolastici improntano ad Aristotele, si dice che l’essere è l’oggetto primo e adeguato dell’intelletto, che vuol dire che esso è l’oggetto il cui concetto è incluso in quello di ogni altro oggetto conosciuto e condiziona la conoscenza di qualsiasi altro oggetto. Ad esempio, il colore è definito l’oggetto proprio e adeguato della vista, perché ogni cosa che vediamo è colorata e la vediamo proprio in quanto è colorata; allo stesso modo, ogni oggetto conosciuto dall’intelletto è un ente, e lo conosciamo proprio per il fatto che si tratta di un ente.
Conseguenza diretta della tesi secondo l’ens è l’oggetto dell’intelletto (unita alla tesi dell’univocità dell’ente, di cui si parlerà in seguito), è che ogni essere, in quanto tale, ricade nelle possibilità conoscitive dell’uomo; non solo gli enti sensibili, ma anche gli esseri non sensibili, e le creature superiori, fino ad arrivare allo stesso Dio.
Secondo la felice espressione di Etienne Gilson (XXXX), l’opera teologico-filosofica di Scoto segna la fine della luna di miele tra teologia e filosofia: Scoto sostiene con molta chiarezza che fede e ragione si collocano su due piani distinti e che non sono sovrapponibili, impossibile est de eodem esse scientiam et fidem (Lectura, Prologus).
Il pensiero di autori quali Tommaso d’Aquino o Enrico di Gand è teso allo sforzo di integrare teologia e filosofia: dal momento che la verità è una sola (omne vero cum vero consonat), il discorso teologico e il discorso filosofico non possono contraddirsi, e se un argomento razionale è contrastante con il dato rivelato da Dio, ciò è prova evidente del fatto che si tratta di un paralogismo, un errore che va smascherato e corretto. In questa concezione, la teologia è intesa come una scienza speculativa, che trova i suoi principi nella rivelazione divina e da essi procede per mezzo della logica aristotelica, fino a pervenire a conclusioni certe, conclusioni che sono perciò il risultato congiunto della rivelazione divina e dell’argomentazione umana.
Con Scoto, invece, viene messa in dubbio la possibilità di applicare la logica naturalis alle cose divine: la filosofia ha un suo metodo e un suo ambito di indagine specifico, distinti da quelli del discorso teologico; le contraddizioni tra ragione e fede non sono certo sintomo dell’esistenza di due verità distinte e persino contrastanti (si tratta dell’errore della doppia verità, che era stato imputato a Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia), ma non vanno neanche necessariamente spiegate come un errore del discorso filosofico: esse discendono piuttosto dal fatto che teologia e filosofia si pongono su due piani autonomi e discontinui, e pervengono a risultati differenti ognuna con il proprio linguaggio e con il proprio metodo. Ripensando la continuità tra filosofia e teologia, Scoto lancia ai pensatori del XIV secolo la sfida di definire per la teologia una nuova logica e un nuovo modello di razionalità (Bianchi, Randi 1990).
Duns Scoto accetta la tradizionale definizione della teologia come la disciplina che parla di Dio (theologia est ratio vel sermo de Deo), ma specifica che il discorso teologico si articola su una varietà di livelli, ognuno dotato di un suo grado di perfezione e di verità: la teologia è in ogni caso sermo de Deo, ma in rapporto al grado di perfezione dell’intelletto che concepisce Dio e alla pienezza della sua conoscenza, si potranno distinguere tre forme di teologia.
La teologia divina o theologia Dei è la conoscenza che Dio ha di se stesso ed è la ratio de Deo in senso proprio; Dio si conosce in modo intuitivo e coglie perfettamente la sua infinita essenza. Inoltre, conoscendo se stesso, conosce anche tutte le essenze, che sono nel suo intelletto in qualità di idee eterne, perciò la teologia divina si identifica con l’onniscienza.
La teologia dei beati è chiaramente meno perfetta, e sorge dalla contemplazione diretta di Dio: non si tratta di una conoscenza capace di cogliere pienamente il suo oggetto; infatti l’intelletto delle creature è pur sempre finito, perciò, anche quando gode di una visione soprannaturale, non può contenere il concetto infinito di Dio con tutte le idee eterne della sua mente, ma arriva a comprendere solo un numero finito di conoscibili, quelli che la divinità sceglie di infondere nella contemplazione.
Esiste, infine, la theologia nostra, che descrive la conoscenza che i cristiani hanno di Dio grazie alle Scritture. Come abbiamo notato, nello stato di natura decaduta (in statu naturae lapsae), l’intuizione piena e completa delle essenze non rientra nelle capacità cognitive umane; per questo, fino a quando non riacquisiremo il nostro stato primitivo, possiamo ottenere una qualche conoscenza di Dio soltanto grazie alla rivelazione. Nelle Sacre Scritture, Dio rivela la propria natura, i propri atti, il fine al quale è ordinata l’esistenza umana e i mezzi per raggiungerlo. Si tratta ancora, secondo Scoto, di una conoscenza naturale, perchè, sebbene sia ottenuta attraverso l’intervento soprannaturale della divinità, è comunque proporzionata all’intelletto umano: la teologia naturale è la conoscenza che il nostro intelletto è idoneo a ricevere relativamente a Dio (Ordinatio, Prologus, pars 3, q. 3, n.141).
L’oggetto delle tre forme di teologia è perciò sempre il medesimo – lo stesso Dio – e tuttavia solo nel caso dell’intelletto divino la conoscenza raggiunge il grado della perfezione assoluta, mentre negli altri casi, dal momento che si tratta di intelletti creati e limitati, si raggiunge solo una conoscenza finita, che non coglie l’essenza divina in tutti i suoi infiniti aspetti, ma si arresta al punto in cui Dio decide di farsi conoscere.
La rivelazione si dimostra in definitiva un intervento divino indispensabile non tanto per la salvezza dell’essere umano – dal momento che Dio può scegliere di salvare anche i non credenti – ma per la costruzione della theologia nostra. Il metafisico, avendo come suo unico strumento la ragione naturale, è in grado di dimostrare con certezza l’esistenza di un essere infinito, perfetto e assolutamente semplice, causa e fine di ogni cosa naturale. È un risultato certamente importante, ma non ci dice nulla sul Dio cristiano, sulla sua essenza (la Trinità, l’onnipotenza, l’onniscienza…) e sui suoi atti (la creazione, il rapporto con il mondo, la volontà…), né tanto meno ci fornisce un’indicazione sul fine della nostra vita (l’immortalità dell’anima, la resurrezione del corpo, la visione beatifica…) o sulla giusta condotta da tenere. Tutto questo fa parte dell’ambito delle verità rivelate, che non possono essere dimostrate filosoficamente, né quindi pienamente comprese, ma che, una volta svelate da Dio, possono essere accolte e credute dall’uomo; perciò è proprio l’indimostrabilità ultima della persona divina che lascia spazio all’atto di fede.
In definitiva, la theologia nostra non può essere qualificata come una scienza speculativa, se si intende quest’ultima in senso rigoroso, secondo la definizione dettata da Aristotele negli Analitici Secondi, che fa della certezza, della necessità, dell’evidenza e della sillogisticità i caratteri fondamentali dell’episteme. La teologia è però qualificabile come scienza se specifichiamo che si tratta di una scienza pratica, così definita perché è direttiva e regolativa dell’azione e contribuisce al conseguimento della salvezza dell’anima. Theologia est habitus simpliciter practicus, scrive Scoto: le Sacre Scritture ci svelano la persona divina non per farne semplicemente l’oggetto della nostra contemplazione, ma perché possiamo amare Dio, dedurre dalle sue parole le norme di condotta e gli abiti morali e, così facendo, conformare la nostra volontà a quella infinita del nostro creatore, con un atto di amore che non discende dalla comprensione intellettiva di Dio, ma è semplicemente un atto di fede, e la fede non è abito speculativo, né il credere è un atto speculativo, né la visione che segue il credere è speculativa ma pratica (Ordinatio, Prologus, q. 4, n. 3).
Seguendo la celebre definizione aristotelica (Metafisica IV, 1, 1003a21-26), Scoto spiega che la metafisica è la scienza dell’essere in quanto essere: mentre le scienze particolari si limitano all’indagine di un settore o di un genere particolare dell’essere (ad esempio, la fisica studia l’essere in quanto è in movimento, la biologia invece lo indaga in quanto è vivente, la psicologia è lo studio dell’anima, e così via), la metafisica studia l’essere in quanto tale (ens inquantum ens), senza alcuna determinazione ulteriore, e quindi sotto l’aspetto più comune di tutti. L’ens commune, o ens inquantum ens, è l’essere preso nella sua totale indeterminatezza; esso non è di per sé né finito né infinito, né perfetto né imperfetto, né singolare né universale (Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, q.1).
Scoto sostiene che il concetto di ens è univoco, ovvero si predica di tutti gli enti mantenendo sempre lo stesso significato. Si tratta di una tesi estremamente innovativa.
La posizione tradizionale a riguardo vuole infatti che il concetto di ens sia equivoco, vale a dire che possiede diversi significati, e può essere applicato a realtà differenti, assumendo però una definizione diversa per ciascuna delle realtà significate. Nel formulare questa teoria, i pensatori medievali appaiono soprattutto preoccupati del fatto che il termine essere viene usato indifferentemente per indicare sia Dio che le creature: data l’evidente distanza che separa le due realtà, lo stesso termine non può mantenere sempre la stessa significazione, ma si dovrà ammettere che esso può assumere rationes diverse in base alla natura dell’oggetto cui si riferisce.
Tommaso d’Aquino sostiene, ad esempio, che la nozione di essere di predica in maniera analogica di realtà diverse: perciò lo stesso termine assume una definizione diversa per ognuna delle realtà significate, e tuttavia le diverse definizioni di essere, pur essendo distinte, hanno tra loro un certo rapporto, perché esprimono tutte un riferimento alla stessa realtà, che è la sostanza; la relazione esistente tra le varie rationes del termine rispecchia, per Tommaso, il rapporto reale esistente tra gli oggetti significati. Applicando questa concezione generale alla relazione tra Dio e le creature, Tommaso afferma che esiste una proporzione tra il Summum Ens e l’essere creaturale: Dio possiede l’essere, mentre le creature partecipano dell’essere grazie a Dio; ma ciò non toglie che si tratti sempre dello stesso essere. È proprio per questo che ci è possibile risalire dalla conoscenza degli esseri finiti a quella dell’essere infinito: l’uomo dapprima conosce l’essere delle creature, poi, rimuovendo da esso ogni imperfezione, riesce a ottenere, per analogia, una qualche conoscenza dell’essere di Dio.
Un’interpretazione più radicale della teoria dell’equivocità dell’ente era stata data da Enrico di Gand. Egli sottolinea che l’essere divino e l’essere creato sono due realtà sono completamente distinte e non hanno nulla in comune, pertanto devono essere designate da due concetti distinti, il concetto dell’essere divino, assolutamente puro e semplice, e predicabile solo di Dio, e il concetto dell’essere creato, che definisce soltanto le cose finite. Tuttavia, dal momento che si tratta di concetti molto simili, il nostro intelletto li confonde; perciò è solo per un errore che instauriamo un’analogia tra i due concetti e che li indichiamo con lo stesso termine.
Entrambe le teorie conducono alla conclusione secondo la quale l’intelletto umano non può mai conoscere Dio in se stesso, e che lo conosciamo solo in maniera indiretta.
Scoto discute e confuta la teoria dell’analogia dell’ente nel commento alle Sentenze (Ordinatio I, d.3, p.3, qq.1-2); egli critica apertamente la tesi di Enrico, ma si confronta anche, almeno indirettamente, con quella di Tommaso. Dal momento che l’essere comune è assolutamente indeterminato, esso può ricevere sia un modo di esistenza infinito sia un modo di esistenza finito. Si tratta però, nota Scoto, di due determinazioni ulteriori dell’essere, vale a dire che l’essere comune esiste ed è pensabile di per se stesso, e che il modo di essere infinito o finito vi sopraggiunge solo in un secondo momento; perciò tanto l’essere infinito quanto l’essere finito rientrano nel concetto di ens communissimum. Di conseguenza, quando, a partire dalla conoscenza degli enti sensibili, formuliamo un concetto universale e astratto di essere, otteniamo una nozione che – proprio per la sua indeterminatezza e la sua semplicità – è predicabile di tutto ciò che è, sia di Dio che delle creature, ed è predicabile univocamente, cioè mantenendo la stessa definizione e lo stesso significato in tutti i casi. Perciò l’intelletto umano può raggiungere una conoscenza della realtà divina, anche se – come abbiamo già visto – si tratta di una conoscenza che va necessariamente completata con lo studio della theologia nostra fondata sulla rivelazione.
L’essere si divide in essere reale ed essere pensato, vale a dire in essere esterno all’anima e essere nell’anima. Nel primo caso, l’essere è allo stato fisico e si trova negli oggetti reali e singolari; nel secondo, l’essere è allo stato logico ed è nell’anima in quanto lo pensiamo. Ogni essere reale può anche trovarsi all’interno dell’anima in qualità di essere pensato, dal momento che, come abbiamo avuto modo di notare, l’intelletto è per sua natura ordinato a conoscere tutto l’essere; non è però valido il processo contrario, perché non ogni oggetto che siamo in grado di pensare esiste necessariamente anche allo stato fisico. Ad esempio, Paolo esiste sia nella realtà, come un individuo concreto, sia nell’anima, come pensiero; un unicorno, invece, esiste nel mio pensiero come un ens rationis, ma al di fuori dell’anima non ha un essere reale.
L’essere reale è oggetto dello studio della metafisica e delle scienze particolari che indagano gli aspetti determinati dell’essere, mentre l’essere pensato o di ragione è oggetto della logica. La logica studia l’essere pensato in quanto è pensato, vale a dire indipendentemente dai suoi rapporti con la realtà. I concetti indagati dal logico sono universali, vale a dire che si predicano di molti, e sono di cinque tipi: il genere (ad esempio il concetto di animale), la specie (uomo), la differenza specifica (razionale), il proprio (capace di ridere) e l’accidente (sta seduto).
Ma esiste un essere reale che corrisponda ai concetti universali, oppure si tratta di esseri di ragione che non trovano alcun corrispondente nella realtà esterna al pensiero?
Scoto nota che tutte le cose che conosciamo tramite l’esperienza sono dei singolari, e tuttavia i concetti che ne ricaviamo per astrazione sono universali: ad esempio, non esperiamo mai l’uomo in generale, ma solo uomini particolari, e tuttavia il concetto che abbiamo di uomo è universale e si predica di tutti i membri della specie umana. Si pone allora il problema di capire quale sia l’origine del concetto universale, se si tratti di una proprietà delle cose stesse e quindi di un essere reale che si trova in tutti i singoli individui, oppure se sia il frutto di un’operazione intellettiva; è questo l’interrogativo che sta alla base della disputa sugli universali. Scoto mantiene una posizione moderata che evita questi due estremi opposti: se esistessero solo i singolari, e gli universali non avessero alcun fondamento nella realtà, allora si dovrebbe riconoscere che i nostri concetti sono il mero frutto di un’operazione dell’intelletto, privandoli così del legame con la realtà e quindi della loro capacità di farci conoscere il mondo; d’altro canto, l’affermazione secondo la quale gli universali esistono come realtà, presenti in maniera identica in tutti gli individui dello stesso genere o della stessa specie, non riesce a render conto dell’unicità degli individui e quindi della loro reale diversità. Scoto sostiene allora che l’essenza degli oggetti (la natura dell’uomo, del cavallo, e così via) di per sé non è né individuale né universale, ma indifferente o neutra. Proprio perché è indifferente tanto alla singolarità quanto all’universalità, l’essenza è passibile di ricevere entrambi i modi di esistenza: essa acquista l’universalità quando è conosciuta dall’anima come concetto astratto, mentre è determinata ad essere singolare quando esiste negli esseri reali, che sono sempre singolari. Ad esempio, l’essenza dell’uomo – l’umanità – è sempre la stessa, sia che esista un solo uomo sia che ne esistano molti. Questa essenza si riveste di singolarità quando esiste nel mondo al di fuori dell’anima, dal momento che – come ci testimonia l’esperienza – non esiste un uomo in generale, ma soltanto gli uomini particolari; all’interno dell’anima, invece, l’essenza acquisisce un’esistenza intenzionale e diviene un concetto universale, che raffigura l’uomo in astratto, ed è predicabile non soltanto di un uomo singolare, ma di tutti gli individui che condividono la sua stessa essenza, o natura communis. La natura communis non è una sostanza capace di esistere di per sé, ma esiste sempre e solo realizzata in un individuo reale oppure in concetto universale, e tuttavia non si identifica né con l’individuo né con il concetto, ma li precede entrambi. La dottrina della natura comune è uno snodo fondamentale del sistema filosofico scotista, e con esso Scoto riesce a dare una risposta originale a due fra gli interrogativi più tormentosi della filosofia medievale.
In primo luogo, egli riesce a garantire un fondamento ontologico ai concetti e salvaguardare la loro capacità di farci conoscere la realtà esterna. Il concetto universale prende forma soltanto nell’intelletto, non ha un’esistenza reale al di fuori dell’anima, ma si tratta pur sempre di un concetto che trova il suo fondamento nella realtà esterna, perché viene elaborato a partire dalla natura comune, che è una somiglianza reale tra le cose: quando conosce gli oggetti del mondo esterno, l’intelletto coglie la loro essenza e ne formula un concetto astratto (come quando, vedendo Socrate, colgo la sua essenza e formulo il concetto di uomo).
In secondo luogo, riesce a spiegare il passaggio dalla specie all’individuo. Per chiarire questo punto, bisogna innanzitutto definire l’individuo e il suo rapporto con il genere e la specie. Il genere e la specie sono universali perché sono predicabili di molti, e quindi al loro interno possiamo rintracciare delle divisioni: il genere può essere suddiviso in più specie (ad esempio, nel genere animale troviamo la specie umana, la specie equina e così via); a sua volta, la specie è suddivisibile in molteplici individui (nella specie umana troviamo Socrate, Platone, Callia, e così via); l’individuo invece è così definito proprio perché non è ulteriormente divisibile.
Come si ottiene il passaggio dalla natura comune alla singolarità? Cos’è che fa sì che l’essenza esista come individuo singolare? Se tutti gli uomini condividono la stessa essenza, ad esempio, cos’è che fa sì che ognuno di essi sia unico e diverso da tutti gli altri?
Il passaggio dal genere alla specie è definito dalla differenza specifica: la specie umana si distingue dal genere animale, perché aggiunge alla natura generica propria di ogni animale la razionalità, che è la caratteristica propria dell’uomo e lo distingue da tutti gli altri membri dello stesso genere. Allo stesso modo, il passaggio dalla specie all’individuo è un arricchimento della specie, definito dalla differenza individuale: Socrate possiede la natura umana, come tutti gli altri membri della stessa specie, ma ad essa aggiunge la socrateità, o l’esser Socrate, una caratteristica che appartiene a lui soltanto e che è diversa dall’esser Platone, dall’esser Callia, e così via.
Scoto ritiene che l’individuo sia più perfetto dell’universale (individuum exprimit plus quam entitatem), perché riassume in sé le caratteristiche del genere e della specie e ad esse aggiunge un principio individuante che fa di quell’ente una sostanza unica e distinta da ogni altra. Socrate non è soltanto un uomo – un animale (genere) razionale (differenza specifica) – ma è anche questo particolare uomo qui. “La sostanza materiale diventa particolare in virtù di un’entità positiva che determina la natura rendendola indivisibile, per cui l’individuo in quanto tale non ammette ulteriori suddivisioni. (...) Ma tale entità non può essere l’essenza universale perché ammette la divisibilità in più enti; dunque dovrà trattarsi di un’altra entità, la quale determini l’essenza in modo che non ammetta la divisibilità” (Ordinatio II, d. 3, q. 4, traduzione di G.C. Garfagnini, Aristotelismo e scolastica, Torino: Loescher Editore, 1979). Perciò, il passaggio dalla natura communis indeterminata all’individuo concreto deve essere un aumento di perfezione dell’essenza: quest’ultima si “contrae” in un individuo e acquista un modo di esistenza singolare. Per indicare la differenza individuale, che sopraggiunge alla natura specifica e la rende individuale, è stato coniato il neologismo haecceitas, dal pronome latino haec, che vuol dire questa (si tratta, in realtà, di una parola usata molto di rado da Duns Scoto, e che entra in uso soprattutto con i suoi discepoli). L’haecceitas è il principio individuante che fa di un uomo questo uomo, ad esempio Socrate o Platone, di un cavallo questo cavallo particolare, e così via. Con l’haecceitas l’essere accoglie la sua ultima determinazione, proprio perché non è possibile specificare ulteriormente l’individuo, dividendolo in altre sostanze; per questo Scoto la definisce anche come la differenza ultima dell’essere.
Infine, è importante tenere a mente che dell’haecceitas non è una “cosa”, un elemento formale o materiale che si aggiunge all’essenza specifica, ma si deve dire piuttosto che la singolarità (come l’universalità) è un modo di esistere dell’essenza: precisamente è un modo di essere più intenso dell’essenza, che si contrae in una sostanza unica e singolare, non ulteriormente divisibile e quindi dotato del massimo grado di unità e attualità. L’haecceitas è quindi l’essere singolare dell’individuo, ciò che mi permette di dire di una cosa che è proprio questa cosa, presente qui e ora.
Prima della creazione, tutte le cose erano già presenti nella mente di Dio. L’intelletto divino produce in sè le idee di tutte le cose possibili; l’atto della creazione segna il passaggio per alcune di queste idee da un’esistenza puramente intelligibile a un’esistenza reale, vale a dire un’esistenza autonoma, esterna alla mente di Dio.
Scoto sottolinea però che, dal momento che Dio è onnipotente, le creature che Egli chiama all’esistenza creando questo mondo finito con il suo ordinamento attuale rappresentano solo una parte della serie infinita delle possibilità logiche inizialmente aperte a Dio.
Non solo la potenza di Dio è infinita, ma la sua volontà è assolutamente indeterminata e libera da ogni costrizione esterna; è perciò con un atto assolutamente libero e incondizionato che Dio sceglie di creare questo mondo tra tutti gli infiniti possibili. Nel momento in cui vuole e crea questo ordine, Dio potrebbe volerne uno diverso; ciò vuol dire che il mondo è contingente, perché riceve l’esistenza grazie a un atto totalmente libero della volontà divina. “Si dice contingente ciò che, mentre accade, potrebbe non accadere o accadere diversamente” (De Primo Principio, cap. 4, concl. 4). Questo non vuol dire che, mentre Dio vuole questo mondo, nello stesso momento può non volerlo, perché ciò è logicamente contraddittorio, e la contraddizione logica è impossibile persino a Dio; vuol dire piuttosto che il decreto divino non è necessario ma libero, e che è sempre logicamente possibile una scelta alternativa a quella che Dio ha effettivamente preso: Dio ha scelto di creare il mondo, ma poteva non crearlo; ha optato per l’ordinamento attuale tra tutti quelli possibili, ma poteva senza contraddizione alcuna sceglierne uno diverso.
Dalla contingenza della causa prima, deriva la contingenza di tutto l’universo; anche le cause seconde agiscono in modo contingente: esse sono infatti cause intermedie, che muovono solo in quanto sono mosse a loro volta; ma se sono mosse in modo contingente, alla stessa maniera produrranno il loro effetto contingentemente.
L’insistenza di Scoto sulla radicale contingenza del creato rivela la preoccupazione del nostro autore di evitare una visione deterministica del mondo, salvaguardando l’onnipotenza e la libertà di Dio.
La libertà dell’essere umano è per Scoto l’espressione più alta della contingenza del creato.
Come abbiamo già avuto modo di notare, la volontà umana – proprio come quella divina, e pur collocandosi su un diverso piano – è una facoltà libera e capace di autodeterminarsi. La volontà è libera per essentiam e pertanto il suo desiderio non è determinato né dall’oggetto esterno, né dal giudizio dell’intelletto, ma scaturisce in modo contingente dalla scelta volontaria. Si capisce bene, dunque, come Scoto, sottolineando l’assoluta indeterminatezza della volontà, sia portato a insistere fortemente, in campo etico, sulla libertà della persona umana e di conseguenza sulla responsabilità morale che l’uomo ha in ogni sua scelta.
È proprio dalla libertà che nasce la moralità delle azioni. Dal punto di vista metafisico, tutte le cose e tutti gli atti sono buoni, perché sono manifestazioni del creato e della perfezione dell’essere; e un atto è tanto più buono quanto più è perfetto il soggetto che lo compie. Dal punto di vista morale, però, un atto può essere buono, cattivo o indifferente, in base all’oggetto cui è diretto e al fine per cui lo si compie. Presupposto indispensabile della moralità dell’atto è in ogni caso che il soggetto che lo compie sia razionale e libero, cioè dotato di intelligenza e volontà: la moralità dell’azione nasce in virtù del fatto che essa è frutto di una scelta responsabile, fondata su una deliberazione razionale e su un atto volontario.
Perché un atto morale sia buono, occorre che l’oggetto perseguito sia un bene o un valore, e che l’individuo lo riconosca come tale e lo desideri proprio in quanto è un bene, dove con bene Scoto intende tutto ciò che ordinato a Dio, in quanto è il fine supremo dell’agire umano. Basta che venga meno una delle due condizioni perché l’atto cada fuori dalla sfera della bontà morale. Perciò, se un uomo persegue un male, ma è convinto di fare del bene, il suo atto non è moralmente buono, nonostante la bontà dell’intenzione, perché il giudizio sul quale si fonda è sbagliato; allo stesso modo, colui che agisce onestamente, ma non lo fa nell’amore di Dio, non compie un atto realmente virtuoso. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a delle azioni moralmente indifferenti: non sono azioni riprovevoli (è cattiva solo l’azione che mira deliberatamente al male, proprio in quanto è male), e tuttavia restano al di sotto della sfera della bontà morale.
Delineate le caratteristiche dell’atto moralmente buono, resta però da chiarire come l’uomo possa conoscere quali sono i beni da perseguire e come riconoscere le azioni ordinate a Dio.
L’azione umana è guidata in tal proposito della legge. Scoto distingue la legge naturale da quella positiva. La prima raccoglie regole morali che sono evidenti per se stesse e che pertanto si impongono a tutti gli individui, in tutti i luoghi e in tutti i tempi; questa legge universale include i primi tre comandamenti, che, imponendo l’obbligo di amare e rispettare Dio, rappresentano l’essenza stessa dell’atto moralmente buono. La forza della lex naturalis è tale che neanche lo stesso Dio può dispensarci dal rispettarla: Dio non può ordinarci di non amarlo o di non avere fede, perché si tratta di un comando che ripugna sia la volontà divina, sia la natura delle creature, che, in quanto tali, sono naturalmente tese al proprio creatore.
La legge positiva, invece, è quella sancita da un legislatore e la sua validità è circoscritta al momento e al luogo in cui viene emanata. La qualifica di legislatore spetta in primo luogo a Dio (ad esempio, i restanti sette comandamenti che non rientrano nella legge naturale possono essere considerati diritto divino positivo), che però conferisce questo potere anche alla Chiesa e, indirettamente, allo Stato. La legge positiva non discende necessariamente da quella di natura, quasi fosse un suo corollario o una sua esplicitazione; si tratta di due leges diverse, per l’origine, la portata e gli ambiti di competenza. Tuttavia, la legge positiva è in un certo senso vincolata al diritto naturale, perché, data la sua universalità, non può emanare precetti che contraddicono le leggi naturali.
Scoto lega l’origine del potere politico al peccato originale: nello stato di innocenza, la moderatezza degli appetiti umani permetteva la comunione dei beni, ma, dopo la corruzione e la caduta del genere umano si rende necessaria l’istituzione della proprietà privata. Così, viene revocato il precetto dello ius naturale che sanciva che ogni cosa fosse condivisa tra tutti gli uomini e viene istituito il diritto positivo che regola l’appropriazione e la separazione dei beni. L’origine della proprietà porta con sé quella della legge positiva, che vuole difendere la proprietà, e dell’autorità politica, che ha il compito di far rispettare la legge.
Il potere dello Stato sorge, secondo Scoto, a partire dal potere del pater familias: l’autorità paterna è sancita dalla legge naturale, ma quando i gruppi familiari diventano più numerosi e complessi e si fondono tra loro, si riconosce l’insufficienza del diritto familiare e gli stessi componenti del gruppo decidono il passaggio dell’autorità dal patriarca familiare a un nuovo capo politico, che può essere un singolo, come un monarca o un principe, oppure una communitas. L’insistenza di Scoto è in ogni caso sul fatto che, qualunque sia la forma di governo scelta, la sua fondazione si basa sul consenso. È la comunità che conferisce l’auctoritas al governatore, ed è solo in virtù di questa autorità che l’attività dl legislatore acquista validità (Ordinatio IV, d. 15, q. 2).