BERTINI, Giovanni e Pacio
(Pace o Baccio)
Scultori di origine fiorentina attivi a Napoli alla metà del sec. 14°, designati come marmorarii fratres in un documento dei registri angioini nell'Arch. di Stato di Napoli (Catalani, 1853; Maresca, 1888).La loro attività finora ricostruita è circoscritta al capoluogo partenopeo, dove furono presenti a partire dal 1343, anno di morte del re Roberto d'Angiò, per il quale i B. furono incaricati dalla nipote Giovanna I di erigere il grandioso monumento sepolcrale che domina la navata della chiesa di S. Chiara, sacrario dei reali angioini. L'opera, commissionata nel 1340, ma iniziata un mese dopo la morte del sovrano, non era ancora ultimata nel 1345 (Minieri Riccio, 1877; Maresca, 1888, p. 309).La produzione artistica di Pacio e Giovanni è stata a lungo interpretata in chiave di una stretta collaborazione fra i due fratelli e questo ha di fatto impedito una distinzione dei rispettivi contributi. Soltanto Causa (Bologna, Causa, 1950, pp. 71-73) ha tentato di separare l'attività dei due fratelli, di caratterizzarli come personalità artistiche autonome e superare le incertezze attributive sul monumento di Roberto d'Angiò. Quest'opera - costruita sullo schema della tomba a baldacchino di matrice francese mediato in Napoli dagli Angioini - se nella figura del giacente dimostra chiari tributi alla plastica di Arnolfo di Cambio, nelle figure delle cariatidi risente invece nettamente di Giovanni Pisano. Veicolo ultimo di tali influenze a Napoli fu l'immediato predecessore di Pacio e Giovanni, Tino di Camaino (v.; m. nel 1337), autore di mausolei reali nelle chiese di S. Lorenzo Maggiore, S. Maria Donnaregina e nella stessa S. Chiara.L'influenza di Tino è particolarmente avvertibile nell'opera di Pacio, che Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 71), sulla scorta di Spinazzola (1902, p. 98) e di Valentiner (1935, p. 85), non esclude possa trattarsi di quel Pacio da Firenze citato in alcuni documenti del 1325 come scultore delle colonne della certosa di S. Martino, complesso del quale fu architetto Tino. Tale identificazione garantirebbe allo scultore quel lungo tirocinio che le sue opere confermano, informate come sono alla stessa vigoria plastica e sintesi volumetrica risolta in superficie dal maestro senese.Giovanni, invece, ha uno stile più moderno, caratterizzato dalla continua ricerca di giochi di drappi e di caratterizzazioni espressive, elementi questi che lo avvicinano particolarmente alla cultura gotica transalpina della corte angioina e insieme all'opera di Andrea Pisano, per es. nelle formelle bronzee del battistero di Firenze.Il monumento di Roberto, pesantemente danneggiato dai bombardamenti del 1943 (Dell'Aja, 1980, pp. 194-208, 229-232), può essere ricostruito grazie ai numerosi studi anteriori all'evento bellico. Nel primo livello le figure delle Virtù addossate come cariatidi ai pilastri di sostegno dell'urna alludono alle qualità politiche e religiose del re e sono state attribuite da Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 71) a Giovanni per la raffinatezza dei volti e dei gesti, già del resto da altri sottolineata in precedenza (Bertaux, 1895, p. 135; Fraschetti, 1898b, p. 422; De Rinaldis, 1920, pp. 149-150). Sulla fronte del sepolcro, la fredda sequenza dei familiari di Roberto, appena abbozzati, è invece opera certa di Pacio, anche se Bertaux (1895, p. 135) propende per lo stesso artefice delle cariatidi e De Rinaldis (1920, p. 154) vi legge una collaborazione tra i due fratelli. Più in alto, nella camera funebre, con la statua giacente del re, compianto sullo sfondo dalle Arti liberali del Trivio e del Quadrivio, è rappresentata la cerimonia funebre: il volto del giacente, modellato sulla maschera funebre e forzato in alcuni tratti per evidenziare l'austerità morale del re, nel contrasto con il realismo del corpo si ricollega a quello spirito simbolico esaltato nella composizione della statua di Roberto in faldistorio, con le insegne del potere, posta al quarto livello della struttura. A Pacio sono state concordemente attribuite le figure del re giacente, degli angeli reggicortina del padiglione funebre e quelle del padiglione trionfale; più incerta è l'attribuzione del pannello con le Arti liberali: Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 71), come peraltro già Bertaux (1895, p. 135), lo assegna a Giovanni; De Rinaldis (1920, p. 149) considera invece le due figure estreme di profilo della Grammatica e dell'Aritmetica opera di Pacio; Fraschetti (1898b, p. 422) sembra indicare in quest'ultimo l'artefice dell'intero rilievo. Nel quinto livello, il gruppo della Madonna con il Bambino affiancata dai ss. Francesco e Chiara e dai principi angioini genuflessi, inspiegabilmente supposto da Bertaux (1895, p. 137) come opera di scultore d'Oltralpe, è stato attribuito invece, per l'insolita coloritura e rozzezza di modellato, a mediocri aiutanti di bottega, il cui apporto è testimoniato dal primo documento citato. La struttura architettonica è estremamente complessa: pilastri fittamente intagliati di statuine entro piccoli baldacchini gotici sostengono il baldacchino esaltando il ruolo essenziale della figura del re, autentico centro dinamico del mausoleo. Il rapporto che Tino aveva conservato tra lo sviluppo in larghezza e quello in altezza delle sue moli sepolcrali viene qui stravolto dallo slancio verticale del monumento, che si innalza per m. 15 su uno zoccolo modanato largo m. 6.Quasi in contrapposizione a tale fasto regale, sulla parete opposta del muro maestro a cui il monumento si appoggia, nella zona del coro delle Clarisse è stata ritrovata, sotto un semplice arcosolio, la statua giacente di Roberto vestita del saio francescano, come testimonianza della sua primitiva sepoltura. Le fattezze del volto e il trattamento del panneggio hanno indotto sia De Rinaldis (1924) sia Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 71) ad attribuire pure quest'opera ai fratelli Bertini.All'intervento congiunto dei due scultori si deve anche la serie di undici bassorilievi su fondo nero raffiguranti la leggenda di s. Caterina d'Alessandria, attualmente sulla balaustra barocca del coro dei frati in S. Chiara e in origine allineati al di sopra della porta di ingresso della chiesa stessa (Fraschetti, 1898a). Nelle varie scene, dove è ravvisabile l'influenza delle formelle di Andrea Pisano per il battistero fiorentino, Fraschetti (1898a) ha distinto l'intervento di una terza mano, autrice dei primi due bassorilievi, arcaici nella composizione e poveri nel numero delle figure. Le altre scene, che Venturi (1906, p. 285) ha attribuito a Tino, sono invece variamente assegnate a Giovanni e a Pacio B. da Bertaux (1895, p. 151), da Fraschetti (1898a, p. 246) e da Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 72).A Pacio in particolare è attribuito il bassorilievo della tomba di Ludovico di Durazzo (figlio di Carlo di Durazzo e di Maria, figlia postuma di Carlo di Calabria, m. nel 1344) posto sulla parete della cappella di S. Agnese, a sinistra del presbiterio della chiesa di S. Chiara, al di sotto del sarcofago della piccola Maria di Calabria, opera di Tino di Camaino. Il monumento, di cui si conservano frammenti scultorei ricomposti entro una moderna cornice in gesso dipinto, presentava su uno sfondo di gigli a rilievo la figura scolpita del piccolo Ludovico in fasce, a mani giunte, portato in volo da due angeli. L'iscrizione sottostante, in parte abrasa, che correva lungo i quattro lati del rilievo, è restituita integralmente da Summonte (1693). La mano di Pacio si riconosce nella testa del fanciullo, identica a quella del corrispondente ritratto sul lato destro del sarcofago di re Roberto, e negli angioletti, che, nelle ali e nel panneggio, richiamano gli angeli reggicortina del sepolcro angioino (Bertaux, 1895, pp. 147-148; Carcano, 1913, pp. 19-20; De Rinaldis, 1920, p. 160; Bologna, Causa, 1950, p. 96; Dell'Aja, 1980, pp. 181-183).Si attribuisce ancora a Pacio il paliotto della cappella Tufarelli nella chiesa di S. Agostino della Zecca, con le scene del Calvario, della Flagellazione e della Deposizione (Valentiner, 1935, p. 142; Bologna, Causa, 1950, p. 71; Galante, 1985, pp. 161, 174, n. 7). Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 90) riconosce inoltre la mano di Pacio nella statua in legno del Redentore benedicente della chiesa dell'Annunciata a Capua, le cui cadenze sono avvicinabili a quelle dei dignitari assisi sulla fronte del sarcofago di re Roberto e, ancor più chiaramente, a quelle della lastra tombale di Ludovico di Durazzo.Sempre a Pacio è stata assegnata (Bologna, Causa, 1950) la piccola ancona Lazzaroni (Parigi, Louvre), ritenuta invece da Venturi (1906, p. 289) opera di Tino. Alla collaborazione con il maestro senese è legato l'intervento di Pacio nelle figure delle Virtù nelle colonne anteriori della tomba di Carlo di Calabria in S. Chiara e in quelle dei principi assisi sulla fronte del sarcofago della tomba di Maria di Valois, presso la sagrestia della stessa chiesa, il cui modellato contrasta nettamente con le figure laterali tinesche dell'Annunciazione. Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 70) rileva infine nella gigantesca statua giacente di Matteo Caracciolo in duomo, posta nella seconda cappella a destra, i modi di Pacio, anche se Morisani (1945, p. 77) non esita ad attribuire l'opera a Tino.A Giovanni, invece, è riferita da Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 95) la statua in legno di S. Giovanni Evangelista ritrovata nel refettorio presso il chiostro di S. Chiara, che, nel materiale impiegato richiama il Redentore benedicente di Capua, ma nel linearismo dell'intaglio e nelle ricercate notazioni psicologiche orienta decisamente verso il più goticizzante dei due fratelli. Al nome di Giovanni (Valentiner, 1935; Bologna, Causa, 1950) è legata anche una Madonna con il Bambino (Roma, coll. privata), nonché le figure della Carità e della Speranza, inserite come cariatidi nel sepolcro tinesco di Maria di Valois in S. Chiara.Numerose sono poi le opere la cui attribuzione oscilla tra i B. e la loro bottega. Allo stile narrativo della leggenda di s. Caterina si è di certo ispirato l'ignoto autore, seguace dei B., dei tre pannelli su fondo scuro del pulpito addossato alla parete sinistra della navata di S. Chiara (Carcano, 1913, pp. 29-30). Il bombardamento del 1943 ha gravemente danneggiato l'opera (Dell'Aja, 1980, pp. 220-224; Galante, 1985, p. 75), della quale sono stati recentemente recuperati alcuni frammenti delle quattro colonne portanti e i relativi leoni stilofori, anch'essi attribuiti alla bottega dei Bertini. Galante (1985, p. 91, nrr. 79-80), inoltre, individua in due lastre marmoree reperite in S. Chiara, con le scene del Bacio di Giuda e del Martirio di s. Eufemia, alcuni resti dell'originario pulpito trecentesco.Sempre alla scuola dei B. è stato riferito l'altare trecentesco inglobato nel sec. 18° nel nuovo altare monumentale eretto da Ferdinando Sanfelice e ricostruito, dopo il 1943, nel suo originario isolamento davanti al monumento di Roberto d'Angiò (Dell'Aja, 1980, pp. 155-164). Esso era costituito di una semplice mensa poggiata su ventisei archetti a ogiva trilobati che ospitavano altrettante statuette di apostoli, santi e profeti. De Rinaldis (1920, pp. 198-200) ritiene la decorazione scultorea un'aggiunta successiva alla struttura architettonica, probabilmente caratterizzata in origine da un'archeggiatura vuota, come nella mensa della basilica di Assisi. Valentiner (1935, p. 155, n. 17), nel sostenere l'attribuzione dell'opera ai B., rileva nella decorazione dell'altare un forte richiamo allo stile ornamentale del cero pasquale del battistero di Firenze, firmato nel 1320 da un Giovanni da Firenze che, così nominato nel primo documento relativo alla tomba di Roberto d'Angiò, potrebbe corrispondere a uno dei Bertini. Fra le cinque statuette superstiti, particolarmente studiato è il gruppo di s. Bartolomeo con apostolo che De Rinaldis (1920, p. 199) attribuisce a seguaci del Maestro Durazzesco, Morisani (1945, p. 35) a Tino di Camaino e Causa (Bologna, Causa, 1950, p. 96), sulla scorta di Venturi (1906, p. 312), riconduce invece alla bottega bertiniana. Sempre a questo ambito è da riferire il bassorilievo murato nella prima cappella a destra della chiesa di S. Pietro Martire, raffigurante la Vergine coronata affiancata da angeli reggicortina, che sospende due corone sulle teste di devoti genuflessi. La forma di lunetta a sesto acuto ha suggerito per il rilievo un'originaria collocazione a incasso nell'architrave del portale della chiesa, al di sopra di un'iscrizione che indicava in Giacomo Capano il promotore dell'opera (Cautela, Maietta, 1983). Nella resa plastica delle figure, Salazar (1905, p. 51) individua un artista educato alla scuola di Andrea Pisano e vicino alle forme tinesche e paragona l'opera al gruppo statuario della Vergine con il Bambino, a sinistra dell'ingresso della chiesa di S. Antonio Abate, attribuito da Galante (1985, pp. 294, 301, nrr. 99, 100, 101) a un seguace dei Bertini.Valentiner (1935, p. 142) attribuisce ai due fratelli anche la tomba di Drugo Merloto in S. Chiara e quelle Brancaccio e d'Aquino in S. Domenico Maggiore, mentre Morisani (1945, p. 126), sulla scorta di Venturi (1906, p. 312), riferisce ai B. quattro delle otto statuette che circondavano la fontana del chiostro di S. Chiara, provenienti da tombe scomposte. Sulla porta che immette nel cortile di questa chiesa, Venturi (1906, p. 312) ricorda un rilievo raffigurante un cavaliere con un falco e una regina con un cagnolino, assegnandolo a Pacio e Giovanni. Valentiner (1935, p. 140, figg. 76-77) attribuisce infine ai B. quattro angeli reggicortina (New York, coll. privata; Cleveland, Mus. of Art) provenienti dalle tombe di Filippo di Taranto e di Giovanni di Durazzo in S. Domenico Maggiore, generalmente ritenute opere tarde di Tino di Camaino.
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