EMANUEL, Giovanni
Nacque a Morano sul Po, nei pressi di Casale Monferrato (od. prov. Alessandria), l'11 febbr. 1848 da un piccolo proprietario terriero, Guglielmo, e da Rosa Pugno. Divenuto sindaco di Morano sul Po e quindi chiamato da Carlo Alberto ad amministrare i suoi fondi rustici, il padre si trasferì nel 1851 con la famiglia a Torino e qui visse con una certa agiatezza. L'E. venne avviato agli studi classici, ma, finito il liceo fu costretto, in seguito a difficoltà economiche della famiglia, ad impiegarsi come "volontario" presso il ministero dell'Agricoltura. L'insofferenza al lavoro di impiegato, la "disperazione dell'avvenire oscurissimo" lo spinsero a cercare la fortuna sulle scene.
La passione per il teatro risaliva del resto già agli anni della scuola e il Cervi narra che l'E., incontrato per strada E. Rossi a Torino, sollecitasse un'audizione e, ottenutala, strappasse al celebre attore un giudizio incoraggiante: "Studi, lavori e lei diventerà un artista distinto" (Cervi, 1902, p. 14).
La sua carriera teatrale iniziò nel 1866 in modo fortunoso: dopo aver studiato per pochi mesi recitazione con Caterina Malfatti, venne scritturato nella compagnia primaria di L. Bellotti Bon, che accolse l'E. non tanto perché convinto delle sue doti di interprete, quanto perché costretto a rimpiazzare in gran fretta i vuoti lasciati dai giovani attori che lo avevano abbandonato improvvisamente per recarsi al fronte. L'E. debuttò all'arena Alfieri di Livorno come secondo brillante e fu quindi impiegato come generico, ma, giudicando i ruoli che, gli venivano affidati troppo al di sotto delle sue reali capacità, lasciò il Bellotti Bon e si cimentò come primo attore in una compagnia di infimo ordine. Insofferente, convinto delle sue qualità, animato da una passione istintiva per il teatro antiromantico, che si andava lentamente diffondendo anche in Italia, egli iniziò così una tormentata vita teatrale che lo porterà a cambiare ditta anche due volte all'anno e a conoscere aule di tribunali e celle, facendosi notare, prima che come interprete, come personaggio scomodo e a volte irritante.
Nel 1867 passò come primo amoroso nella compagnia Coltellini, accanto a Malvina Simoni; nel 1868 fu, ancora per i ruoli di attor giovane, nella compagnia Venier e qui si impose all'attenzione del pubblico, interpretando il ruolo di Sirchi ne Il duello di P. Ferrari. Formata quindi una compagnia insieme con Teresina Boetti, con Laura Bon e con il livornese Gustavo Bianchi, l'E. rappresentò due opere schilleriane, Don Carlos e I masnadieri, al teatro Rossini di Firenze, ottenendo un grande successo personale e giungendo a "toccar sotto le spoglie del tristo Moor altezze mai immaginate" (Rasi, p. 832). Malgrado il consenso della critica e del pubblico la ditta si sciolse e nel 1869 L'E. passò come primo attor giovane nella compagnia Salvini-Boldrini.
Insoddisfatto dei ruoli che gli venivano assegnati, intentò causa ai capocomici per ottenere parti migliori, ma le sue ragioni furono respinte in giudizio e, amareggiato, l'E. si rivolse al pubblico romano, durante una rappresentazione di Elisabetta, regina d'Inghilterra di P. Giacometti: "Signori - disse, secondo la testimonianza del Mazzocca (p. 47) - se recito svogliato, si è perché mi tolgono le parti di cui avrei diritto. Sono giovane, amo appassionatamente l'arte e non mi si fa recitare. Il Salvini si appropria persino delle parti che spetterebbero a me, quelle che sono adatte alle mie facoltà artistiche". Avendo coinvolto nella critica, oltre ai capocomici, anche la giustizia romana, il governo pontificio e il clero, venne imprigionato per nove giorni a Castel Sant'Angelo.
Sciolto il contratto con T. Salvini, passò con G. Peracchi, accanto a Celestina De Martini, e si misurò senza alcuna passione nelle opere di autori contemporanei italiani particolarmente care al capocomico, quindi con A. Morelli e, di nuovo, con il Bellotti Bon sempre per i ruoli di attor giovane. Dopo le buone prove di Firenze, dove era riuscito a trovare la sua misura espressiva nella interpretazione di due figure lineari, anche se tutt'altro che elementari, razionali e dalla psicologia priva di ombre, come Franz Moor e il marchese di Posa, l'E. non era più riuscito a conquistare il favore del pubblico, né a dar vita a grandi personaggi. Alla morte improvvisa del Maione (30 nov. 1872), il primo attore della compagnia, assunse i ruoli primari, ma, anche come protagonista, "non riusciva a strappare l'applauso. Questo attore lasciava incerti platea e articolo: lasciava anzi freddi entrambi" (Boutet, p. 733).
Contribuivano probabilmente a rafforzare questo giudizio alcune caratteristiche fisiche messe in luce dal Rasi ("E se non ci appare artista completo, ciò si dee forse a una recitazione affaticata, direi quasi ansimata e a un'andatura curiosa in certi inceppamenti che lo rendono monotono talvolta", p. 831), dovute probabilmente ad una lieve forma di tubercolosi, che gli era stata diagnosticata negli anni Sessanta; esse dovevano apparire particolarmente sgradevoli a un pubblico ancora abituato alla declamazione enfatica degli interpreti romantici, alle atletiche andature e alle pose plastiche che avevano conquistato le platee alla metà del secolo.
L'insoddisfazione degli spettatori e un diverbio, nato su questioni economiche, indussero il Bellotti Bon a non rinnovare il contratto con l'E., che, dopo una breve permanenza a Napoli nella compagnia del principe di Santobuono (1873), decise di formare una ditta propria.
Capocomico rimase fino alla fine, nella convinzione che solo attraverso una scelta attenta del repertorio e dello stile degli allestimenti fosse possibile realizzare quel rinnovamento del teatro che, nella suggestione di G. Modena, si proponeva. In trent'anni di capocomicato raccolse attorno a sé artisti di grande valore: Giacinta Pezzana, Virginia Reiter, Adelina Marchi, Virginia Marini, E. Zacconi, F. Garavaglia, formandoli a una recitazione sobria e naturale e ad assoluta professionalità, impegnandoli in un repertorio complesso, che comprendeva accanto ad opere tratte dai capolavori del verismo quali Mercadet di Balzac, L'assommoir di Zola, i drammi italiani di V. Alfieri (Oreste), F. Cavallotti (Alcibiade), S. Morelli (Arduino d'Ivrea), alcune commedie francesi (da Il matrimonio di Figaro di P. A. Beaumarchais a Il misantropo di Molière alle farse di V. Sardou) e, soprattutto, la produzione tragica di Shakespeare. Sempre estremamente diffidente fu invece l'E. nei confronti del dramma ad intreccio e della commedia contemporanea, che gli sembrava sollecitare gli istinti più bassi del pubblico e tradire così quella che per lui era la missione pedagogica del teatro.
L'utopia positivista di una utilizzazione del teatro come scuola di verità e di nobili sentimenti per le masse fu del resto uno degli obiettivi principali dell'E. che, anticipando E. Zacconi, studiò con fervore le condizioni umane rappresentate dai suoi personaggi, trascorrendo lunghe ore negli ospedali, osservando con cura minuziosa i comportamenù e, soprattutto, interpretando le opere in chiave intimista, per consentire l'identificazione del pubblico con i personaggi. In questo quadro vanno interpretati gli "interventi" sul testo dell'Otello, per renderlo più realistico, l'interpretazione di Amleto sulla falsariga di una costante e mirata simulazione e la pacata umanità dei suoi eroi come Arduino o Alcibiade o dei suoi "borghesi" come Mercadet o Coupeau.
Per ottenere questi risultati l'E. impose a se stesso e a tutti i membri della compagnia uno studio attento delle opere da rappresentare, tanto da impedire in scena l'uso del suggeritore, e richiese una lenta immedesimazione nei ruoli: "La ricetta per interpretare magnificamente una parte è semplicissima. - scrive in una lettera del 1887 al direttore del Fieramosca (cit. in Rasi, p. 834) - Eccovela: studiate prima a memoria le parole, poi pensate a quale classe sociale appartiene il personaggio: mettete dentro a quel personaggio tutto il vostro cuore e la vostra mente: sentite la sua passione come la sentireste voi stessi se vi trovaste nel suo caso". Con lo studio lungo e appassionato l'E. riuscì a vincere la sua profonda insicurezza, la sua voce raggiunse una imprevedibile potenza e con "mobilità facciale non comune, produce degli effetti scenici, con colori varianti, subitanei, multiformi, simili a quelli che si riscontrano in un caleidoscopio" (Salvini, p. 394). Eccezionale anche il lavoro d'insieme della sua compagnia - esempio di "ammirabile affiatamento" (Barzilai, p. 248) e di "cura di ogni particolare" (ibid., p. 247) - al quale l'E. dedicava gran parte del suo tempo, fino a sognare negli ultimi anni la direzione di una compagnia stabile che gli permettesse di realizzare il suo progetto di rinnovamento, senza doversi adeguare, con messe in scena troppo frettolose, alle richieste del pubblico.
Dal 1873 l'E. si impose come uno degli attori più interessanti - anche se mai dei più amati - del teatro italiano; le sue interpretazioni degli anni Settanta, in particolare Otello, Amleto e Re Lear, vennero seguite soprattutto nel confronto con le interpretazioni salviniane, considerate per altro insuperabili.
L'Otello dell'E., nota un critico teatrale nel 1882, "non è solo natura selvaggia come quello di Salvini, ma questa è contratta sotto il manto di civiltà, ubbidendo all'influenza di leggi e costumi umani e civili…" (Unus Nullus); non si trasformava invece l'immagine privata dell'E. che continuava a venire "segnalato come un eccentrico, uno stravagante, un autoritario, un violento, un presuntuoso" (Cauda, p. 85), malgrado il suo comportamento ribelle dimostrasse a volte coraggio e umorismo. Famoso l'episodio che lo vide protagonista a Trieste, quando in occasione del compleanno del re d'Italia Vittorio Emanuele II nel 1875, decise all'ultimo momento di fare una beneficiata in onore del fratello, Vittorio Emanuel, rappresentando Celeste di Marenco. La polizia chiuse il teatro e l'E. sfuggì alla prigione grazie all'intercessione del console italiano.
Il primo grande successo giunse nel 1880 con Oreste di Alfieri, seguito da 'L bibi di M. Leoni e Odette di V. Sardou, anche grazie alle ottime prove date dall'attrice Adelina Marchi, allora prima donna della compagnia. Ma fu al fianco di Virginia Reiter che l'E. ottenne il consenso più sincero: questa, entrata nel 1882 in ditta come prima attrice giovane in sostituzione di Bianca Ferrari, contribuì al trionfo di Guerra in tempo di pace di F. von Schönthan e G. von Moser, con oltre trenta repliche a Torino, e di Un viaggiodi piacere di E. Gondinet. Nel 1886, come prima attrice assoluta, portò al successo La figlia di Jefte di F. Cavallotti. Ma, benché la compagnia attirasse dovunque un pubblico numeroso, l'E. non riuscì a mantenere in pari il bilancio della compagnia: i lunghi tempi di preparazione degli spettacoli, la ricchezza delle scene e dei costumi, la cura minuziosa per tutti quei particolari che contribuivano all'illusionismo della messa in scena lo spingevano a contrarre sempre nuovi debiti. Egli decise quindi di recarsi all'estero. Nella prima tournée in America meridionale la compagnia ebbe accoglienze trionfali e l'E. si impose con la recitazione del suo Otello, ma poi preferì, con un senso pratico del tutto nuovo, rimanere in disparte, lasciando alla Reiter i personaggi di maggior richiamo, come Fedora, Frou Frou, madame Sans-Gêne, la signora dalle camelie. Nel dicembre del 1889, tornato in Italia, venne salutato come "artista completo nel senso più ampio della parola" (Barzilai, p. 246) e ammirato senza riserve soprattutto nelle sue interpretazioni del Matrimonio di Figaro e di Mercadet. Nel 1891 fu di nuovo nell'America meridionale e, l'anno successivo, in Spagna. Al termine di questi viaggi fu in grado di onorare i debiti, per oltre 130.000 lire, contratti nei primi anni di direzione a causa "della troppo modesta preparazione commerciale e per il comportamento personale privo di pratica accortezza" (De Sanctis, p. 22).
Negli anni successivi l'E. alternò stagioni in Italia a lunghi viaggi all'estero; fu nel 1894 a Pietroburgo, Berlino, Vienna insieme a S. Montagna, che sostituiva la Reiter, scritturata dalla ditta Reinach-Talli; nel 1899 di nuovo nell'America meridionale. Tornato definitivamente in Italia con buone prospettive economiche, accarezzò senza successo il progetto di una compagnia stabile e, infine, decise di realizzare una società insieme con Italia Vitaliani. Ma una malattia polmonare, che lo colpì a Napoli nel 1901, lo costrinse a ritirarsi dalle scene.
Morì a Torino l'8 ag. 1902. Aveva sposato Vittorina Nebuloni; suo figlio Guglielmo fu giornalista.
Fonti e Bibl.: Necrol., in Piccolo Faust, agosto 1902, p. 18; Nuova Antologia, 16 ag. 1902, pp. 733-740; La Revue d'art dramatique, 1902, pp. 445 ss.; Corriere della sera, 13-14 ag. 1902. Roma, Bibl. teatr. del Burcardo, Fondo Rasi, ms. 3.42.8.33: A. Colomberti, Notizie stor. dei più distinti comici e comiche che illustrarono le scene ital. dal 1770 al 1880. p. 133; Unus Nullus, G. E., in Il teatro illustrato, febbraio 1882, pp. 31 ss.; T. Salvini, Ricordi, aneddoti, impressioni, Milano 1895, pp. 394 s.; L. Rasi, I comici ital., I, Firenze 1897, pp. 831-837; E. Zabel, Zur modernen Dramaturgie, Berlin 1899, pp. 412-415; A. Cervi, Tre artisti, Bologna 1900, pp. 13-42; G. Costetti, Il teatro ital. dell'800, Rocca San Casciano 1901, pp. 391-394; A. Cervi, G. E., Palermo 1902; G. Cosentino, L'arena del Sole, Bologna 1903, pp. 193 ss.; A. Lalia Paternostro, Studi drammatici, Napoli 1903, pp. 235-260; G. Mazzocca, Mem. di un attore, Milano 1904, pp. 46 ss.; G. Cauda, Chiaroscuri di palcoscenico, Savigliano 1910, pp. 81-108; S. Barzilai, Palcoscenico e platea, Milano 1940, pp. 246 ss.; Don Marzio [M. Corsi], Vite curiose di attori, in La Domenica del Corriere, 4 apr. 1943, pp. 7 s.; A. De Sanctis, Caleidoscopio glorioso, Firenze1946, pp. 20-28; Enc. Ital., XIII, p. 852; N. Leonelli, Attori tragici, attori comici, I, Milano 1940, pp. 345 s.; Enc. dello spett., IV, coll. 1437 ss.