FABRIZI, Giovanni
Nacque a Bastia, in Corsica, nel 1815 da Filippo e Maddalena Padovani (Archivio di Stato di Livorno, Atti di morte, reg. 1488, atto 2742). Non sappiamo con sicurezza quando si fosse trasferito a Livorno, dove lo zio materno, Andrea Padovani, aveva raggiunto una ragguardevole posizione, ma doveva essere ancora molto giovane. Studiò giurisprudenza a Pisa, dove si laureò. Fece pratica sotto la guida di V. Salvagnoli, ma non esercitò la professione. Vicino, tra il '40 e il '48, a G. Montanelli, ne condivise l'aspirazione alle riforme. Nel 1846 pubblicò Del sentimento nazionale in Italia. Ragionamenti di un siciliano, uscito con l'indicazione di Lione come luogo di stampa, dove sosteneva il principio dell'unità federativa, e, in una appendice, esortava gli Italiani a non chiedere al pontefice ciò che non poteva dare e, cioè, favorire seriamente la causa liberale.
Nel 1847 collaborò a L'Italia del Montanelli. Prese parte alla campagna del '48, al comando di una compagnia di civici livornesi. Durante il breve periodo del commissariato straordinario di Leonetto Cipriani a Livorno, insieme con lo zio, si incontrò più volte con lui, per metterlo in guardia sui pericoli di una sollevazione popolare armata. Nel novembre '48, ormai conosciuto sia a Livorno sia a Pisa per la sua dottrina giuridica, ebbe l'incarico di tenere i corsi di diritto patrio e commerciale e di storia dei diritto e delle istituzioni criminali all'università di Pisa, in sostituzione del Montanelli che, dopo il ritorno dalla prigionia, era sempre più assorbito da impegni politici. Ma l'incarico fu di breve durata: dopo la restaurazione granducale, nel maggio '49 la sua supplenza venne infatti annullata.
Continuò però a coltivare gli studi giuridici e ad interessarsi ai problemi della politica italiana. Nel volume Sulle eventualità politiche italiane. Considerazioni, che, proibito dalla censura toscana, dovette pubblicare a Bastia nel 1856, il F. analizzò la situazione dei vari Stati, sottol ineando come sia il Lombardo-Veneto sia i ducati di Parma e di Modena fossero legati all'Austria, cosi come lo era la Toscana dopo la Restaurazione; e perciò non potevano divenire indipendenti e nazionali, se non con l'esclusione del predominio austriaco. Il Regno di Napoli avrebbe potuto rendersi indipendente e avvicinarsi allo Stato sardo, escludendo l'influenza austriaca, e ristabilire la costituzione.
Le concessioni liberali date tardi sotto la spinta di agitazioni sarebbero state però espedienti di breve durata, se il governo che le concedeva intendeva, appena possibile, ritornare al potere assoluto. Una base salda e sicura sarebbe stata la fiducia reciproca tra principe e popolo. Più difficile era il problema dello Stato pontificio, sia che se ne riducesse il territorio, sia che si tentasse di riformarne gli ordinamenti, ipotesi quest'ultima del tutto impossibile perché la Chiesa non poteva accettare le dottrine liberali, inconciliabili con le istituzioni ecclesiastiche. Quanto al suo territorio, invece, si poteva ridurlo a quello strettamente necessario all'indipendenza dei potere papale, trasformando il resto in un vicariato laico e del tutto secolarizzato.
Il F. riteneva che la soluzione migliore fosse quella unitaria, perché solo così l'Italia avrebbe potuto svolgere "l'alto ufficio cui divinamente sembra preordinata nel mondo delle nazioni" (p. 174). Ma per questo era necessario che il partito repubblicano si riducesse a favore dei costituzionalisti; che la questione dello Stato pontificio si risolvesse nel senso della riduzione territoriale; e che, infine, nel Regno di Napoli, crollasse ogni illusione di possibile concordia con la monarchia borbonica. Essendo difficile, senza queste premesse, attuare un programma unitario, sarebbe stato più opportuno accettare l'idea di una Italia tripartita, con i regni dell'alta Italia, dell'Italia media e dell'Italia meridionale, con capitali a Torino, Firenze e Napoli, lasciando Roma al papa. Ma il principe veramente italiano era il re di Sardegna, di cui il F. approvava la politica interna e quella estera, rivolta alle alleanze con le grandi potenze occidentali, Francia e Inghilterra.
Il suo liberalismo e il desiderio di riforme lo avvicinarono al comitato della "Biblioteca civile dell'Italiano", che mirava a favorire il movimento liberale, trattando di quelle materie che potevano più richiamare l'interesse generale. Fra le varie proposte, il comitato formulò quella di pubblicare uno scritto del F. sulla storia della legislazione italiana fino alle riforme operate nei vari Stati nel '700. Ma se anche questo progetto, come altri, non fu realizzato, il F. da allora rimase sempre vicino ad uno dei suoi più influenti membri, Bettino Ricasoli.
Dopo la partenza di Leopoldo II da Firenze il 27 apr. 1859 e la formazione del ministero Bon Compagni-Ricasoli i rapporti epistolari del F. col Ricasoli si fecero molto frequenti ed egli fu attivo ed attento consigliere per la scelta dei nuovi rappresentanti del governo e dei funzionari amministrativi da inviarsi sia a Livorno, sia a Pisa. Nominato consigliere aggiunto del nuovo governatore di Livorno, Teodoro Annibaldi Biscossi, le sue condizioni di salute lo obbligarono a chiedere di essere esonerato (9 maggio '59). Sempre per motivi di salute e per la sua inesperienza nelle cose amministrative, non poté e non volle accettare cariche pubbliche, nonostante che l'amico Ricasoli si rammaricasse vivamente di non potere almeno dare a Pisa come prefetto "un uomo della sua forza". Accettò solo la nomina a membro della Consulta di Stato, istituita l'11 maggio, e continuò a fornire al Ricasoli consigli ponderati e prudenti.
Quando il V corpo d'annata francese, comandato dal principe Napoleone Bonaparte, sbarcò a Livorno e il Cavour cercò di indurre il governo toscano a chiedere l'immediata annessione al Piemonte, egli condivise subito il parere dei Ricasoli che una troppo esplicita manifestazione unitaria della Toscana fosse intempestiva e inopportuna: bisognava attendere i risultati della guerra. Per ora la Toscana poteva solo crearsi una base rappresentativa municipale che, a tempo debito, assumesse le iniziative più idonee per far trionfare i progetti unitari. Poco dopo, le vittorie di Palestro e di Magenta rafforzavano l'idea dell'annessione, nonostante che il governo sardo, sia per timore di reazioni internazionali, sia per non urtare l'alleato francese, fosse adesso più cauto e ritenesse pericoloso che la Toscana si pronunciasse in favore dell'unione al Regno di Vittorio Emanuele. L'unica cosa che il popolo toscano poteva fare era manifestare la sua volontà con altri mezzi. Così, il 14 giugno, il F. insisté col Ricasoli sull'opportunità di pubblicare al più presto la legge municipale, in modo da costituire Consigli comunali liberamente eletti che fossero la vera rappresentanza del paese, sicuro che "il voto dei Municipi sulla sorte della Toscana non potrebbe esser mai ricusato dalla Diplomazia Europea".
L'armistizio di Villafranca e poi i preliminari di pace rimisero in gioco le sorti della Toscana, e il progetto sostenuto dalla Francia e dall'Austria di restituire la Toscana al granduca indusse anche gli autonomisti ad avvicinarsi alla scelta unitaria. Il 14 luglio la Consulta approvò la proposta del governo di convocare un'Assemblea dei rappresentanti e di iniziare un'intensa azione diplomatica presso le grandi potenze perché tenessero conto della volontà che avrebbe espresso. Ormai, anche il F. riteneva che fosse giunto il momento di votare l'unione al Regno subalpino ed esprimere un governo "nazionale, indipendente, libero". Il 7 agosto fu eletto deputato all'Assemblea che, il 16, decretò la decadenza della dinastia lorenese e il 20 votò l'annessione al Piemonte. Il Ricasoli, che nutriva la massima fiducia nelle capacità politiche del F., volle inviarlo, sia pure senza alcuna veste ufficiale, a Zurigo, dove si svolgevano le trattative di pace. Il 2 settembre partì con la deputazione che doveva recare a Vittorio Emanuele il voto dell'Assemblea.
Da Torino, dopo un colloquio con G. Dabormida, si affrettò a comunicare che il plenipotenziario sardo a Zurigo aveva avuto precise istruzioni di non sollevare la questione degli Stati centrali e che perciò era del tutto inutile la presenza di un toscano. Rimase quindi a Torino, come incaricato del governo toscano, in sostituzione di C. Matteucci, inviato a Parigi.
Ebbe così inizio una fitta corrispondenza tra il F., il Ricasoli e C. Ridolfi, ministro degli Esteri toscano. Il F. informava che il re aveva "accolto" il voto dell'Assemblea e che ciò andava inteso nel senso più ampio, consigliando che l'Assemblea procedesse ad altri atti sulla via dell'unione. Ma ciò incontrò, allora e più tardi, l'opposizione del Ricasoli, il quale voleva impedire qualsiasi atto che non muovesse dal re, dal momento che l'Assemblea si era già espressa nel senso di voler far parte di uno Stato costituzionale sotto Vittorio Emanuele, e qualsiasi altra iniziativa sarebbe stata un atto di autonomia. Cominciò così un'altalena di proposte tra il governo toscano e quello piemontese, l'uno che non voleva prendere iniziative proprie nel timore di compiere di fronte alla diplomazia europea un atto di separazione, l'altro che temeva di compiere un vero e proprio esercizio di sovranità, mostrandosi troppo pronto a "prendere", mentre era vincolato dal trattato di pace che stabiliva il ritorno degli antichi sovrani nei territori dell'Italia centrale.
Queste proposte e anche le varie voci correnti negli ambienti governativi e diplomatici il F. trasmise fedelmente, non mancando di far rilevare come la questione dell'Italia centrale fosse complicata e difficile. Mostrava pure tutte le sue perplessità di fronte ad una unione immediata e completa con gli altri Stati centrali, che avrebbe potuto favorire la formazione di uno Stato dell'Italia centrale indipendente: "sono pienamente con te - scriveva il 25 settembre al Ricasoli -: non dobbiamo far nulla che possa diventar preparazione al Regno Centrale: meglio la Toscanuccia che il Regno Centrale, perché la prima si può facilmente disfare, il secondo ci allontanerebbe sempre più dall'unificazione nazionale". Tra le proposte che trasmise a Firenze e che gli sembravano attuabili fu quella della reggenza del principe di Carignano, che la Toscana avrebbe potuto decidere ex se, per atto spontaneo, anche dopo l'accoglimento del voto del re. Ma anche l'attuazione di questa proposta ebbe un iter difficilissimo per i soliti timori ricasoliani, per l'intrinseca debolezza dell'azione del governo sardo e per l'opposizione del governo francese. Il Ricasoli si era proposto di confidare la gestione diplomatica della Toscana a Torino al F., ma nel caso della reggenza dovette intervenire personalmente, recandosi nella capitale subalpina. La questione si risolse con la nomina del Bon Compagni a governatore delle province collegate dell'Italia centrale: una soluzione del tutto formale, perché i vari governi centrali conservavano tutti i poteri a loro conferiti dalle rispettive Assemblee.
Quando si cominciò a parlare della convocazione del congresso europeo che, a Parigi, avrebbe dovuto decidere la questione italiana, rimasta praticamente insoluta anche dopo la pace di Zurigo, a rappresentare la Toscana a fianco del Ridolfi si pensò di inviare il F., non solo per la sua capacità, ma perché era "Corso, e quindi amico di Benedetti, di Pietri, di Tropiong, e sta benissimo con Cavour, Hudson, La Tour d'Auvergne", che probabilmente sarebbero andati al congresso (L. Galeotti a Ricasoli, 14 dic. 1859). A fine dicembre il F. tornò in Toscana, ma vi rimase pochi giorni perché, nonostante fosse ormai chiaro che il congresso non si sarebbe tenuto, il Ricasoli aveva deciso ugualmente di inviarlo a Parigi, insieme con Giovan Battista Giorgini, per sostenere la causa dell'annessione toscana. Partito da Pisa il 16 gennaio 1860, il F. giunse a Torino, quando il Cavour stava formando il governo; perciò decise di fermarsi finché non fosse giunto un rappresentante ufficiale toscano. Mentre i governanti della Toscana procedevano alla promulgazione dello statuto e della legge elettorale sarda, decisi ad inviare deputati al Parlamento subalpino, fu ormai chiaro che la diplomazia inglese e quella francese chiedevano un nuovo voto da parte dei Toscani. Il Cavour proponeva al Ricasoli, tramite il F., che un secondo voto di annessione fosse emesso dai futuri deputati, il che avrebbe evitato sia una seconda votazione da parte dell'Assemblea toscana che già si era pronunciata, sia l'elezione di una nuova Assemblea, proposte che avevano incontrato sempre la più intransigente opposizione del Ricasoli.
Il F. intanto si recò a Parigi e qui trovò "le cose meno avanzate di quel che si credeva a Torino". Scriveva quindi (16 febbr. 1860) che, per evitare le obiezioni che la diplomazia francese avrebbe potuto sollevare verso il carattere fortemente censitario della legge elettorale sarda, l'unica via di uscita avrebbe potuto essere il ricorso al suffragio universale, di cui si era già più volte parlato. Difficilmente si sarebbe giunti all'annessione senza questa votazione nuova, unico mezzo, del resto, per tacitare tutte le mene del partito "granducale-clericale" e tutti gli altri "maneggi" contrari all'unione. Il plebiscito che si tenne il 10 e l'11 marzo 1860 confermò pienamente le aspettative unitarie.
Mentre svolgeva questi importanti incarichi politici, il F. era stato nominato (10 nov. 1859) dal governo toscano professore di diritto patrio e commerciale all'università di Pisa (Arch. di Stato di Firenze, Ministero Pubblica Istruzione, filza 383, prot. 30, af- 38); dal 2 dicembre si era provveduto a supplirlo. Dopo le annessioni, alle elezioni del 25 e 29 marzo '60 per la VII legislatura, fu eletto nel secondo collegio di Livorno, ma, per esercitare il mandato parlamentare, dové porsi in aspettativa come professore. Nel maggio era stato scelto come commissario delle province toscane nella commissione che doveva esporre le condizioni del pubblico insegnamento nelle province del Regno (Ibid., Ibid., filza 155, prot. 9, af. 6).
Nelle votazioni del 27 gennaio e 3 febbraio 1861 per l'VIII legislatura fu di nuovo eletto, con l'appoggio anche di alcuni gruppi di cattolici livornesi, che, per evitare il pericolo di una convergenza coi democratici, avevano deciso di appoggiare il candidato moderato. Nelle successive elezioni del 1865 per la IX legislatura, vinse invece il suo avversario F. D. Guerrazzi. Ripresentatosi alle elezioni per la X legislatura (10-17 marzo '67), fu eletto nel collegio di Lendinara.
Durante i suoi mandati, non fu oratore molto attivo in aula, ma si impegnò seriamente e concretamente nei lavori delle varie corrunissioni di cui fece parte. La sua linea politica fu quella della Destra. Il 20-24 giugno '61 votò contro la proposta di Garibaldi per l'ordinamento della guardia nazionale. Il 29 giugno '62, a proposito della questione romana, votò contro la fiducia al governo Rattazzi. Nel marzo '67, all'inizio della X legislatura, fu tra gli estensori del progetto di risposta al discorso della Corona che conteneva anche alcune critiche al governo Ricasoli sulla questione della sicurezza nazionale. Il 2 giugno '70 votò a favore del ministro Q. Sella, a proposito dei provvedimenti finanziari per il pareggio del bilancio.
La sua malferma salute, "alteratasi nel mestiere di deputato", e la delusione dell'esito delle vicende italiane, soprattutto dopo la presa di Roma, gli dettavano una amara lettera al Ricasoli (15 nov. 1870) che si può considerare il suo testamento politico.
Deplorava la decadenza intellettuale e morale del Parlamento, la debolezza dei ministeri oscillanti "tra destra e sinistra", le "passioni di bassa ed invida, non di larga e onesta democrazia", le "deliberazioni sforzate e votate per compiacenza, anziché per vera convinzione"; e ne vedeva le cause sia nella "incivile fazione gesuitica prevalente nella inetta Curia romana", sia nella "consorteria piemontese, esageratrice e peggioratrice della scuola cavouriana", sia nel prevalere "dei rivoluzionari di cattiva scuola e d'idee torbe".
Decise così di non ripresentarsi alle elezioni del novembre 1870 per la XI legislatura. Un anno dopo questo amaro sfogo, morì a Pisa il 31 dic. 1871
Fonti e Bibl.: E. Poggi, Memorie stor. del governo della Toscana nel 1859-60, Roma 1867, I, pp. 278, 346, 350 ss., 354, 396, 400, 406 s., 409, 421, 423 s.; II, pp. 18, 127, 150; III, pp. 222 ss.; L. Cipriani, Avventure della mia vita, a cura di L. Mordini, Bologna 1934, I, pp. 179, 181; R. Ciampini, I Toscani del '59. Carteggi ined., Firenze 1958, ad Indicem; G. Massari, Diario dalle cento voci 1858-1860, a cura di E. Morelli, Bologna 1959, ad Indicem; G. Montanelli, Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Firenze 1963, pp. 225, 241; Carteggi di B. Ricasoli, IV-V, VIII-XVIII, XXVI-XXVII, Roma 1947 ss., ad Indicem; R. Della Torre, La evoluzione del sentimento nazionale in Italia, Milano-Roma-Napoli 1915, pp. 16, 110, 122, 348 s., 351, 372, 381 s., 416 s., 420 s., 428, 434, 439, 445 s., 466, 488, 493; G. Calamari, L. Galeotti e il moderatismo toscano, Modena 1935, ad Indicem; P. C. Cannarozzi, La rivoluzione toscana e l'azione della Biblioteca civile dell'Italiano, Pistoia 1936, ad Indicem; E. Michel, Maestri e scolari dell'università di Pisa nel Risorgimento nazionale, Firenze 1949, ad Indicem; A. Salvestrini, I moderati toscani e la classe dirigente italiana (1859-1876), Firenze 1965, ad Indicem; N. Badaloni, Democratici e socialisti livornesi nell'Ottocento, Roma 1966, ad Indicem; N. Danelon Vasoli, Ilplebiscito in Toscana nel 1860, Firenze 1968, ad Indicem; G. Spadolini, Firenze capitale. Gli anni del Ricasoli, Firenze 1979, ad Indicem; G. Luseroni, G. F., G. Giorgini ... Lettere ... a B. Ricasoli, in Rass. stor. del Risorgim., LXXVII (1990), pp. 191-238. Cfr. inoltre: Storia del Parlamento italiano, IV-VI, Palermo 1966-69, ad Indices; T. Sarti, I rappresentanti del Piemonte e d'Italia, Roma 1880, ad Indicem; Diz. del Risorg. naz., III, ad vocem.