FALCONE, Giovanni
Nacque a Palermo il 18 maggio 1939, terzo figlio (dopo Anna, nata nel 1934, e Maria, nata nel 1936) di Arturo, medico e direttore del laboratorio provinciale di igiene e profilassi, e di Luisa Bentivegna, casalinga.
Entrambi i genitori avevano perso un fratello nella prima guerra mondiale, nella quale il padre stesso di Falcone era stato gravemente ferito.
Il fratello della nonna paterna, Anna, Pietro Bonanno, aveva svolto a Palermo un ruolo politico di primissimo piano quale deputato democratico e sindaco nel 1901-04, caratterizzandosi per una politica di apertura ai socialisti e per il buongoverno della città. Pietro aveva sposato un’aristocratica, ma suo padre, Stefano, era un artigiano, e nel 1860 organizzò una 'squadra' popolare che, armi alla mano, partecipò all’insurrezione garibaldina.
Questa storia famigliare può spiegare qualcosa della cultura patriottica nella quale crebbe Falcone, come l’aspetto rigorista, fondato sul senso del dovere.
Alla conclusione degli studi superiori entrò all’Accademia navale di Livorno, contando di conseguire una laurea in ingegneria, ma di lì a poco cambiò i suoi progetti, tornò a casa e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza. Laureatosi, vinse il concorso in magistratura nel 1964 e prese servizio come pretore a Lentini, in provincia di Siracusa, l'anno successivo. Sempre nel 1964 sposò Rita Bonnici.
Tutta la prima fase della sua carriera si svolse lontano da Palermo: a Lentini appunto, poi per molti anni a Trapani, dove lavorò sia al penale sia al civile.
Dalla moglie si separò nel 1978 e l'anno successivo conobbe la collega Francesca Morvillo, che sposò nel 1986. Nel 1974 aveva aderito al comitato per il divorzio in occasione del referendum e nel 1979 sostenne il collega Giovanni Rizzo, presentatosi alle elezioni come indipendente nelle liste del Partito comunista italiano (PCI). L’associazione di cui faceva parte, Terza posizione, era rappresentativa di una corrente centrista della magistratura. Tornato a Palermo nel 1978, abbandonò il civile e si dedicò al penale, all’Ufficio istruzione.
A Palermo la magistratura era intanto sottoposta a una sequenza micidiale di colpi di maglio. Il 25 settembre 1979 fu assassinato Cesare Terranova, magistrato passato per l’esperienza di parlamentare del PCI e della Commissione antimafia. Seguì, il 6 agosto 1980, l’agguato mortale al procuratore capo Gaetano Costa. Il 29 luglio 1983 un clamoroso attentato dinamitardo provocò la morte del consigliere istruttore Rocco Chinnici insieme a quella di due uomini di scorta e del portiere di uno stabile.
La leadership di 'Cosa nostra' (Salvatore Riina e i suoi 'corleonesi', i loro alleati insediati a Palermo e altrove) portò la morte tra questi magistrati, oltre che tra poliziotti, carabinieri, politici non abbastanza amici e politici avversi, perpetrando una vera strage per assumere il controllo del pluralistico aggregato di fazioni, bande politiche criminali e d’affari che formava la mafia siciliana. Voleva in particolare gestire da una posizione di forza le relazioni con la corrispondente mafia americana, nonché con i gruppi che si muovevano tra l’una e l’altra sponda dell’Oceano nella gestione del traffico d'eroina, in quel momento un affare straordinariamente fruttuoso. A tal fine decretò, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio 1981, l’assassinio di due grandi boss come Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, nonché l’annientamento della loro fazione.
La micidiale escalation mise fine alla tradizionale convivenza tra mafia, politica, opinione pubblica e apparati statali, ma venne a sua volta alimentata dai timori provocati nel gruppo dirigente di 'Cosa nostra' dall’affinarsi delle metodologie investigative, dal riarmo tecnico e morale della controparte. In particolare Chinnici si era impegnato nella creazione di un pool specializzato di inquirenti nel quale fossero applicate alle indagini sulla mafia i mezzi che nella lotta al terrorismo stavano dando frutti importanti. Fu Chinnici ad affidare a Falcone, nel maggio 1980, l’inchiesta sui contatti siciliani del banchiere Michele Sindona e sul narcotraffico siculo-americano.
Falcone si recò negli Stati Uniti aprendo un proficuo canale di collaborazione con il Federal bureau of investigation (FBI) e i colleghi americani. Mise insieme le informazioni ricavate dalla scoperta di qualche raffineria nel Palermitano e nel Trapanese, dagli spostamenti di chimici marsigliesi e vecchi contrabbandieri, dai sequestri di grandi quantità di eroina in Sicilia, a Milano, a New York. Mostrando grande capacità tecnica, si orientò tra i movimenti del denaro che serviva a pagare la merce, riuscendo a svelare i tortuosi espedienti intesi a 'ripulirlo'. Partendo dalla figura dell’imprenditore Rosario Spatola si inoltrò nel fitto intrico, collegò transazione a transazione, individuò le persone coinvolte. Meno poté appurare, rinviando a giudizio Spatola e altri 119 nel gennaio 1982, del rapporto di quel reticolo affaristico con la gerarchia mafiosa nel suo complesso. Comprese però bene la centralità della figura di Salvatore Inzerillo – interlocutore della 'famiglia' mafiosa newyorkese più importante, quella dei Gambino, fulcro del reticolo narcotrafficante intercontinentale, boss di una delle organizzazioni mafiose palermitane – e la forza esplosiva delle contraddizioni rivelate dal suo assassinio, avvenuto mentre l’inchiesta si avviava alla fine.
Seguì nel luglio 1982 il rapporto sugli organigrammi della mafia palermitana e sui processi di centralizzazione in atto, chiamato 'dei 114' e stilato da Antonino (Ninni) Cassarà – funzionario della squadra mobile palermitana destinato anche lui a cadere in un agguato, nel 1985 – sulla base delle informazioni fornite da una fonte interna detta 'prima luce', che corrispondeva a Salvatore Contorno, elemento di rango di un gruppo anticorleonese. Il quadro fu completato nel luglio 1984 non più da un confidente, ma da un supertestimone disposto a presentarsi in tribunale: il boss mafioso e narcotrafficante di scala internazionale Tommaso Buscetta, alla cui famiglia i corleonesi stavano facendo una guerra spietata e che era stato appena estradato dal Brasile.
Le testimonianze di Buscetta e Contorno furono suffragate da un formidabile lavoro investigativo. La sentenza di rinvio a giudizio contro 707 imputati richiese un enorme impegno del pool antimafia, che godeva del pieno sostegno del consigliere istruttore Antonino Caponnetto, e nell'ambito del quale Falcone lavorava in stretta collaborazione con Paolo Borsellino. Il lavoro fu completato nel supercarcere dell’Asinara, dove i due magistrati furono spostati fulmineamente insieme alle loro famiglie quando i servizi di sicurezza informarono le autorità che dal carcere era partito l’ordine di ucciderli.
Il cosiddetto maxiprocesso si svolse a Palermo tra il febbraio 1986 e il dicembre 1987, portando in giudizio 400 dei 700 mafiosi incriminati in sede istruttoria.
La legge Rognoni-La Torre, promulgata appena un paio di anni prima, aveva sancito la configurazione del reato di associazione mafiosa. Veniva a denominarla con più precisione il termine 'Cosa nostra', introdotto nel dibattito pubblico degli Stati Uniti dal 1963 con le rivelazioni di Joe Valachi e mai usato in precedenza in quello italiano prima delle testimonianze di Buscetta e Contorno. Nell’organizzazione – spiegarono costoro – si entrava mediante un giuramento col quale gli individui facevano propri principi, tradizioni, strategie, finalità collettive. Gli inquirenti acquisirono così il canone generale, e moltissime informazioni specifiche, sulle alterne vicende delle alleanze e dei conflitti fazionari in cui collocare i reati commessi dai singoli. Lo schema venne riscontrato e avallato, il dibattimento e infine la sentenza del maxiprocesso confermarono l’ipotesi accusatoria, la gran parte degli imputati fu condannata a pesanti pene detentive, e i capi all’ergastolo.
L’esito del maxiprocesso fu tale da valorizzare al massimo la figura di Falcone, l’elemento di maggior spicco del pool. Nondimeno, il magistrato divenne anche bersaglio di crescenti polemiche. Molte di esse erano riconducibili alle trame della mafia e dei molti suoi complici o fiancheggiatori. Non tutte e non in tutto, però.
Alcuni furono forse episodi minori, ma giudicati già allora molto significativi. Quando fu trovata una bomba nel villino al mare di Falcone (attentato dell'Addaura, 21 giugno 1989), si sussurrò che se l’era piazzata da solo, per smania di protagonismo; altri (anche scrivendo lettere ai giornali) protestavano per il modo in cui, girando con la scorta per le vie della città, metteva in pericolo i cittadini 'innocenti'; si moltiplicavano le lettere anonime contro di lui, come quelle firmate 'Il Corvo', che ci si convinse derivassero da ambienti giudiziari. Da considerare inoltre il gioco della contrapposizione politica, per cui il protagonismo dei giudici veniva da molti considerato come lo strumento di un qualche complotto comunista. Così la pensavano i collaboratori de il Giornale, quotidiano fondato da Indro Montanelli per dare voce a una nuova e più combattiva destra. Tra i tanti interventi, quello della giurista ed esponente democristiana Ombretta Fumagalli Carulli contro il «maccartismo... dei giudici capitanati da Falcone» (il Giornale, 19 novembre 1988). Il giornalista socialista-radicale Lino Jannuzzi tuonò contro il 'teorema Buscetta', ovvero contro i metodi di Falcone e dei suoi colleghi.
La formulazione più efficace degli argomenti garantisti fu quella proposta da Leonardo Sciascia, prestigioso intellettuale di sinistra passato a collaborare con il Partito radicale: il pentitismo, con il suo sistema premiale, faceva somigliare la giustizia a un mercato senza garanzie; l’ipervalutazione del reato associativo nella repressione del terrorismo e della mafia, e i maxi-processi che ne derivavano, non consentivano l’accertamento della responsabilità individuale; gli apparati di sicurezza e giudiziari speciali rappresentavano un pericolo per lo Stato di diritto. Sciascia aggiunse che i «professionisti dell’antimafia» (Corriere della sera, 10 gennaio 1987), fossero uomini politici o magistrati, avrebbero alimentato più che altro lo spirito di fazione. Su questa base attaccò sia il sindaco di Palermo Leoluca Orlando sia Borsellino, che di Falcone era il più stretto sodale
A tutti i livelli, inoltre, pezzi della magistratura si rivelavano restii ad abbandonare le logiche tradizionali di organizzazione degli uffici giudiziari, ivi compreso il principio dell’anzianità, per accettare quelle nuove della specializzazione privilegiando il principio della competenza. Il nodo venne in evidenza nel 1988, quando per la successione a Caponnetto alla guida dell’Ufficio istruzione si candidarono Falcone e Giovanni Meli, di lui molto più anziano ma molto meno qualificato per le inchieste sulla mafia. Con una votazione sul filo di lana (15 luglio 1988), il Consiglio superiore della magistratura (CSM) optò per Meli, dopo aspre polemiche destinate a rinnovarsi, con l’attiva partecipazione prima di Borsellino e poi dello stesso Falcone, quando Meli sembrò puntare su un sostanziale smantellamento del pool, con l’abbandono dei suoi metodi di azione integrata in favore di una metodologia antica, formalista e burocratica. Su un analogo terreno si svilupparono, nel 1990-91, i conflitti tra Falcone e il procuratore generale Piero Giammanco.
Così, nel complesso, l’impressione sia di Falcone sia di tanti altri impegnati sul fronte dell’antimafia era di una mancanza di compattezza delle istituzioni, delle forze politiche e dell’opinione pubblica nella lotta: paradossalmente, era come se il grande successo del maxiprocesso nascondesse dentro di sé il rischio o la realtà di una sconfitta. Sembrava che il vecchio fosse in grado di soffocare il nuovo con la semplice forza d’inerzia. Sembrava che il nuovo potesse salvaguardare se stesso solo alzando permanentemente la temperatura del dibattito, perché il paese trovasse il minimo di determinazione necessario per combattere la difficile battaglia contro 'il nemico'. Falcone dovette peraltro prendere atto che il gioco poteva anche ritorcersi contro di lui. Leoluca Orlando – suo ex sostenitore, leader storico del movimento antimafia palermitano – lo accusò di tenere «nel cassetto» presunti risultati scottanti di indagini sulla mafia politica (democristiana e particolarmente andreottiana). Nella sua biografia di Falcone, il giornalista Francesco La Licata riporta il commento fatto allora dal magistrato: «Orlando ormai ha bisogno della ‘temperatura’ sempre più alta. Sarà costretto a spararla ogni giorno più grossa. Per ottenere questo risultato, lui e i suoi amici, sono pronti a tutto, anche a passare sui cadaveri dei loro genitori» (1993, p. 166).
Falcone presidiò il terreno della comunicazione pubblica non solo con queste polemiche. In saggi e interventi a convegni, in interviste e nel libro-intervista scritto insieme a Marcelle Padovani(Cose di Cosa nostra, Milano 1991), persino nelle pieghe di certi atti giudiziari fornì alla conoscenza del fenomeno mafioso un contributo molto rilevante, del quale peraltro non vanno dimenticate le finalità eminentemente pratiche.
Argomento centrale fu il tema della nuova mafia, imprenditrice e dinamica, insomma moderna, che stando ad alcuni interpreti dei primi anni Ottanta, come il sociologo Pino Arlacchi (La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Bologna 1983), avrebbe preso il posto della vecchia mafia, irrimediabilmente superata. Falcone accettò per alcuni versi quest’interpretazione, ma colse anche gli elementi che la contraddicevano. Già nel rinvio a giudizio nel procedimento contro Spatola e altri 119, rilevò come logica d’impresa e logica familista andassero a braccetto nel gruppo Inzerillo composto da «parenti e amici di provata fedeltà». Ipotizzò che qui l’endogamia fosse scientemente perseguita nell’intento di «rendere più stretti i vincoli tra gli associati», rilevando «l’intrico incredibile delle parentele […], tale che si fa fatica a raccapezzarsi […], ad ogni ulteriore generazione, i collegamenti si fanno sempre più fitti a seguito di matrimoni tra cugini». Definì «strumentale», soltanto «apparente», il «recupero di valori tradizionali» e preferì un paragone modernissimo: ci si trovava davanti all’«equivalente di quello che, per il terrorismo politico, è l’ideologia» (Sentenza di rinvio a giudizio del giudice Falcone contro R. Spatola + 119, 25 gennaio 1982, p. 365). A rilevare lo strettissimo legame tra nuova e vecchia mafia citò un testo sequestrato in carcere a Spatola dove si riproponeva l’antica apologetica degli uomini d’onore intenti a proteggere i deboli, e perseguitati «dall’ingiustizia […] dei giudici e dei governatori» (ibid., p. 485).
Tutto questo avveniva prima che la confessione di Buscetta gli rivelasse l’immagine di una società segreta cosciente della propria antica storia e del proprio consolidato ruolo sociale, che pretendeva di risalire ai Vespri siciliani e ai Beati Paoli, e che restava ancorata alle proprie regole. Buscetta lasciava intendere che tutto questo armamentario avrebbe ancora dato buoni frutti se i corleonesi, per avidità di potere e naturale ferocia, non lo avessero strumentalizzato e, in ultima analisi, tradito. Falcone non lo contraddisse, convinto che quella rappresentazione potesse essere utile. Nel libro-intervista spiegò che la mafia esprimeva un sia pur distorto «bisogno di ordine e di Stato» cui bisognava dare la risposta giusta. «Io credo nello Stato», aggiungeva polemizzando con Sciascia «che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia» (Cose di Cosa nostra, cit., p. 67). Non temette di portarsi sul terreno dei suoi avversari dando risposta alla loro maliziosa ancorché ineludibile domanda: come l’intenzione del giudice e quella del pentito si condizionano l’un l’altra? Spiegò il suo rapporto con Buscetta a partire dalla sicilianità, vista come comune codice simbolico e culturale che consentiva all’uomo delle istituzioni e a quello della mafia di comprendersi e di costruire una reciproca fiducia. Intervistato dalla storica Giovanna Fiume (La mafia tra criminalità e cultura, in Meridiana, 1989, 5, pp. 199-209), affermò orgogliosamente: «sono palermitano e figlio di palermitani»; e quando gli fu chiesto a quali dei codici tradizionali e popolari della società siciliana si sentisse legato, rispose: «quasi tutti» (p. 209). Voleva intendere che quello era il brodo di coltura della mafia, ma anche dell’antimafia.
L’inquirente non poteva non accettare il piano di dialogo propostogli dal pentito, prendeva atto della pretesa dei mafiosi – il nostro è un sistema di valori, non di disvalori – per volgerla a proprio vantaggio. La sua esigenza primaria era rassicurare Buscetta e stabilire con lui un codice comunicativo: ciò che, come era avvenuto per il terrorismo, avrebbe aperto la strada ad altri pentimenti, ben più vasti smottamenti, defezioni di massa. Se i terroristi avevano motivazioni ideologiche, spiegò, anche i mafiosi, contrariamente all’opinione comune, non ne erano privi. Su quell’elemento bisognava intervenire perché la battaglia per il consenso era fondamentale per vincere la guerra. Disse nel 1986, nel corso di un seminario ad Ottawa: «La cooperazione di alcuni esponenti mafiosi non è stato un dono inaspettato né un evento fortunato, ma il risultato di una paziente attività investigativa che ha gettato luce sui punti deboli dell’organizzazione. È stato anche il risultato di un’instancabile opera di persuasione che ha tenuto presenti le caratteristiche della mentalità mafiosa, e ha sfruttato le tensioni esistenti all’interno dell’organizzazione mafiosa stessa» (Interventi e proposte (1982-1992), Milano 1994, p. 278).
I pentiti consentivano alla giustizia penale di operare ben dentro l’organizzazione mafiosa ed era lì che l’attenzione doveva essere concentrata per non perdere il vantaggio ottenuto. Sin dal 1982, in un importante intervento scritto insieme a Giuliano Turone, Falcone aveva ribadito la priorità cronologica e logica «di una puntigliosa e faticosa ricostruzione degli aspetti più propriamente criminali delle organizzazioni mafiose» sulla «rete di complicità e connivenze», e dunque a maggior ragione sugli aspetti politici e contestuali (ibid., p. 228); anche di seguito stette ben attento a tenere fermo l’oggetto della repressione possibile, quella penale, evitando che essa, alla ricerca di responsabilità più vaste, finisse per annacquarsi e perdere di efficacia. In questa logica va collocato il suo contrasto con Orlando. La lotta a Cosa nostra non era per lui un mero passaggio intermedio per attaccare il sistema politico, così come Cosa nostra non era una mera dependance del sistema politico.
Su questo punto venne molto frainteso, nelle polemiche sul cosiddetto terzo livello, ma in realtà il suo pensiero fu sempre chiaro. «Al di sopra dei vertici organizzativi – spiegò nel saggio Il fenomeno mafioso – non esistono ‘terzi livelli’ di alcun genere, che influenzino o determinino gli indirizzi di Cosa nostra» (ibid., p. 321). Riteneva inoltre che l’idea del 'grande vecchio', del «burattinaio che dall’alto della sfera politica tira le fila della mafia», rappresentasse il frutto di una grande «rozzezza intellettuale» (Cose di Cosa nostra, cit., p. 169).
Nel marzo 1991 Falcone accettò l’invito di assumere la carica di direttore dell’Ufficio affari penali presso il ministero di Grazia e giustizia, rivoltogli dal ministro Claudio Martelli. Martelli era uno dei leader di quel Partito socialista italiano che si era distinto nelle polemiche contro i 'teoremi' e gli 'eccessi' della magistratura inquirente e che era sospettato di volerle mettere il bavaglio sottoponendola al controllo dell’esecutivo per quanto atteneva ai casi politicamente più delicati, quelli riguardanti la mafia tra gli altri. In quest’ottica fu giudicato da molti il progetto di una Superprocura antimafia appoggiato da Falcone, che venne per questo criticato esplicitamente da alcuni dei suoi tradizionali amici e sostenitori. Il dualismo tra lui e Agostino Cordova per la carica di superprocuratore sembrò riprodurre, su scala più ampia, quello con Meli di tre anni prima.
D’altronde il progetto della Superprocura bene esprimeva quello che Falcone intendeva realizzare trasferendosi a Roma: tirandosi fuori dagli incancreniti conflitti del 'palazzo dei veleni' palermitano, voleva aggirare l’ostacolo, conquistare il centro, con questo trovando alleati potenti e individuando linee di intervento efficaci nella lotta alla mafia. Ottenne, tra l’altro, che i processi per mafia non finissero tutti alla sezione della Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale, che in passato aveva annullato molti verdetti.
In effetti la sentenza del maxiprocesso Abbate + 706 (in parte è pubblicata con il titolo Mafia. L’atto di accusa dei giudici di Palermo, a cura di C. Stajano, Roma 1986) non passò per Carnevale e la Corte la confermò, il 30 gennaio 1992. Il pendolo delle relazioni tra Stato e mafia, che in 130 anni aveva lungamente oscillato sul versante della collaborazione, ora si orientava decisamente verso il contrasto. Il risultato era di portata storica.
I boss di Cosa nostra decretarono così un’estrema rappresaglia. Nel marzo fecero assassinare Salvo Lima, il deputato andreottiano che era stato forse il massimo trait-d’union tra loro e la politica 'romana'. Dopo aver punito gli amici rivelatisi incapaci, pensarono ai nemici rivelatisi troppo capaci. Il 23 maggio 1992, sull’autostrada tra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo, in prossimità dello svincolo di Capaci, un'apocalittica esplosione pose fine alla vita di Falcone, della moglie e di tre uomini della scorta (Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani).
Il 19 luglio dello stesso anno un'altra esplosione (nella palermitana via Mariano D'Amelio) colpì il magistrato con cui Falcone aveva costruito il maxiprocesso, Paolo Borsellino, in un attentato nel quale con lui furono uccisi cinque componenti della sua scorta.
La gran parte dei testi di Falcone è raccolta in Interventi e proposte, cit. (con G. Turone, Tecniche di indagine in materia di mafia, pp. 221-55; Il fenomeno mafioso, pp. 318-27; la relazione di Ottawa, pp. 276-285);
Bella e ben informata la biografia di F. La Licata, Storia di G. F., Milano 1993, nella quale sono raccolti brani di interviste del giornalista a Falcone e le testimonianze delle sorelle. Vittorio Coco ha ricostruito l’albero genealogico dei Falcone-Bonanno; per Stefano e Pietro Bonanno vedi O. Cancila, Palermo, Roma-Bari 1988, pp. 251 ss. V. poi: L. Jannuzzi, Così parlò Buscetta, Milano 1986; L. Galluzzo - F. Nicastro - V. Vasile, Obiettivo Falcone. Magistrati e mafia nel palazzo dei veleni, Napoli 1989; L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano 1989, ad ind.; S. Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Roma 1993, ad ind.; Id., Che cos’è la mafia, ibid. 2007, ad ind.; G. Monti, F. e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia, Roma 2007 (alle pp. 125-127, O. Fumagalli Carulli, Maccartismo a Palermo); S. Lodato, Quarant’anni di mafia. Storia di una guerra infinita, Milano 2012, ad indicem.