FANTONI, Giovanni
Nacque a Fivizzano (Massa Carrara) il 28 genn. 1755 da Lodovico Antonio e Anna De Silva.
Originari di Firenze, i Fantoni si erano trasferiti nella cittadina lunigianese nel 1534 per volontà dell'allora capostipite Giovanni, divenendo in breve una delle famiglie più rappresentative. Anche i De Silva, spagnoli, vantavano nobili origini e Odoardo, padre di Anna, marchese della Banditella, era "commissario ordinatore degli eserciti e piazze di Sua Maestà Cattolica, regio ministro della stessa e del re delle Due Sicilie in Toscana".
Terzo di quattro figli maschi, all'età di sei anni il F. si trasferì a Pisa dalla zia paterna Caterina Fantoni, attratta dalla vivacità e dalla esuberanza del nipote. Appresi i primi elementi di grammatica, a nove anni egli andò a proseguire gli studi a Roma, insieme con i fratelli Luigi e Odoardo. Dapprima fu mandato presso il monastero di S. Scolastica a Subiaco, dove nei piani del padre avrebbe dovuto essere avviato alla carriera ecclesiastica, ma il carattere ribelle del F. scoraggiò quel tentativo e costrinse lo stesso genitore a trasferirlo tre anni dopo presso il collegio "Nazareno" di Roma, dove già si trovavano il fratello Odoardo e il marchese Emanuele Malaspina, al quale il F. si sarebbe legato con un vincolo di profonda amicizia, celebrata anche in alcuni suoi carmi.
Anche nel nuovo istituto il suo comportamento dette luogo a non poche rimostranze; ad accoglierlo con benevolenza fu soltanto il precettore di retorica padre L. Godard che, intuita la sua sensibilità verso la poesia, lo indirizzò allo studio dei classici latini. In particolare il F. fu attratto dai carmi oraziani, che sarebbero divenuti in seguito la fonte prima della sua ispirazione.
Trascorsi cinque anni al "Nazareno", ottenne un posto di apprendista presso la segreteria di Stato di Firenze ma, poco interessato all'impiego, continuò soprattutto ad occuparsi con qualche successo di poesia tanto da essere iscritto presso l'Accademia degli Apatisti. Fu così che il padre intervenne presso il granduca, pregandolo di commutare l'impiego del figlio nel servizio militare. Recatosi a Livorno nel luglio 1774 in qualità di cadetto, il F. incontrò non poche difficoltà ad inserirsi nella vita militare e, in seguito ad una malattia, chiese ed ottenne il congedo.
Nel settembre 1775, su sollecitazione dello zio Andrea De Silva, aiutante generale del re di Sardegna, entrava presso la prestigiosa Reale Accademia di Torino. Nel frattempo, su proposta del Godard, fu ammesso nell'Arcadia di Roma il 14 genn. 1776 con il titolo di Labindo Arsinoetico. Questo avvenimento rinvigorì il suo estro poetico e lo portò a comporre numerosi carmi d'imitazione anacreontica. Sono di questo periodo i cosiddetti Scherzi che, opportunamente corretti e rifusi, sarebbero stati pubblicati a Massa nel 1784.
Queste sue prime prove poetiche appaiono orientate secondo due linee abbastanza definite: "quella di un certo idillismo arcadico, aperto alle ascendenze più varie (L. V. Savioli, I. Frugoni, S. Gessner, Orazio e altri lirici latini) e quella "notturna" che sulle orme del gusto nordico divulgato in Italia in quegli anni poteva consentire al Fantoni un accostamento non del tutto ovvio alla propria inquieta sensiblerie e soprattutto la sperimentazione di modi grandi, di un'eloquenza mossa e tendenzialmente sublime" (Cerruti, 1969, p. 121).
Il 22 genn. 1776 usciva dall'Accademia di Torino per assumere la carica di sottotenente in un reggimento di fanteria straniera, ma anche questa esperienza si rivelò fallimentare. Inviso ai più e fortemente indebitato, venne costretto a dare le dimissioni, in seguito alle quali, per istanza dei suoi non pochi creditori, venne messo per breve tempo agli arresti domiciliari. Partito da Torino nel febbraio 1779 per raggiungere Fivizzano, si fermò invece a Genova, allettato, come ricorda il nipote Agostino, "dalle relazioni e conoscenze che si era procurato in Piemonte".
Fu assiduo frequentatore in particolare del salotto della marchesa Maria Doria Spinola alla quale, con il nome di Lesbia, dedicò il componimento Le quattro parti del piacere (Genova 1779). Preso di mira dagli inquisitori di Stato e naufragato in gravi ristrettezze economiche, dovette ancora una volta ricorrere all'aiuto paterno. Per quanto le notizie al riguardo siano piuttosto scarse, è probabile che il F. sia rimasto influenzato da quella vena di progressismo e sostanziale apertura al riformismo, della quale erano allora permeati i circoli intellettuali della città ligure.
Tornato nella natia Fivizzano e dedicatosi allo studio dei classici latini ed in particolare di Orazio, riannodò i rapporti con il marchese Carlo Emanuele Malaspina, suo compagno nel collegio "Nazareno" di Roma.
Questi, in sintonia con la politica del granduca Pietro Leopoldo, aveva avviato un'intensa attività di rinnovamento nei suoi possedimenti di Fosdinovo, volta a migliorare le abitudini e il tenore di vita dei propri sudditi. L'istituzione di un teatro (vi avrebbe recitato lo stesso F.), la fondazione di scuole pubbliche, l'ampliamento della biblioteca di famiglia, la costruzione di un'arena per il gioco del pallone erano alcuni degli interventi progettati.Fu in quest'ambiente tra il 1779 e il 1782 che il F. maturò la propria adesione al riformismo illuminato, come si desume dall'Elogio funebre per Maria Teresa d'Austria, pubblicato a Lucca nel 1781. Nello scritto si invitavano i regnanti d'Europa a seguire l'esempio dell'imperatrice, che aveva fatto "della clemenza, della pietà e della benificienza" le direttive della propria azione.
L'anno successivo, dopo che una sua poesia era apparsa in un opuscolo miscellaneo, pubblicò a Massa la prima edizione delle Odi, un libriccino di 40 pagine, dedicato a Caterina seconda imperatrice delle Russie ed autocrate.
Criticata dalle Novelle letterarie di Firenze, l'edizione venne riproposta un anno dopo con diverso frontespizio e diversa dedica, rivolta ora all'ammiraglio G. Rodney. "Millord - scriveva il F. - i vostri trionfi hanno meritato l'attenzione dell'universo ed io nel filosofico ritiro in cui vivo da quasi un lustro ho riscosso la cetra per celebrarli". Aperte ad istanze civili e politiche (emancipazione delle colonie americane, attriti fra le potenze europee), vi era in questo primo nucleo di odi la tendenza ad esaltare le "imprese belle e grandi", inclini ad ideali di pace e giustizia. Forma e stile, come ha avuto più volte modo di rimarcare uno dei suoi critici più accreditati, Giosue Carducci, erano "oraziani in tutto e per tutto, talvolta traducendo puramente l'antico, più volte l'antico derivando come in una insolcatura dì fatti e idee del giorno, ma pur d'Orazio imitando sempre l'andamento e il fraseggiamento, il colorito e i metri" (cfr. Un giacobino in formazione, in Ed. naz. delle opere, XVIII, p. 63).
In questo stesso periodo, tuttavia, la vita del F. fu sconvolta da un tragico evento: dalla sua relazione con una domestica di casa, Caterina Mancini, nacque un figlio ("frutto infelice di un funesto amore") che la madre appena venuto al mondo soppresse. La vicenda verrà amaramente ricordata dal poeta nell'ode In morte di un bastardo.
Nel gennaio 1784, come si deduce da una non entusiastica recensione apparsa sulle Novelle letterarie di Firenze, uscì l'edizione degli Scherzi, stampata a Massa presso la tipografia Frediani (anche se riportava la falsa indicazione di Berna) e dedicata al principe Giorgio Nassau Clawering Cowper.
Recatosi in maggio a Firenze per la visita dei regnanti di Napoli al granduca Pietro Leopoldo, in onore dei quali pubblicò un opuscolo con quattro odi inedite, chiese ed ottenne dalla regina Maria Carolina di potersi recare nella città partenopea al suo seguito.
Qui entrò in rapporto con numerosi letterati ed uomini politici, tra i quali M. Pagano, D. Cirillo, A. Fortis, M. Delfico e soprattutto G. Filangieri, alla cui morte (1789) dedicò un'ode ai figli e al quale avrebbe voluto rivolgere un più ampio elogio storico. Certamente l'esperienza napoletana si rivelò decisiva nell'indirizzare il F. verso quelle istanze politiche e sociali che sarebbero poi esplose nell'accoglimento delle prospettive giacobine, sia infondendogli un'incrollabile fiducia nel valore pedagogico delle leggi, sia mettendolo per la prima volta a contatto con l'ambiente della massoneria, dove le grandi questioni del momento, la feudalità, la rappresentanza politica, l'uguaglianza, l'istruzione del popolo venivano affrontate con grande apertura e spregiudicatezza.
Sempre negli anni napoletani (1785-1788) strinse un profondo legame affettivo con Giuseppina Grappf, dama di compagnia della regina. Di questo rapporto, che conobbe momenti di grande intensità, rimane un gruppo di lettere dalle quali emerge la tormentata personalità del Fantoni. Nell'87 la Grappf, tubercolotica ma anche al centro di non graditi pettegolezzi, si decise a lasciare Napoli per tornare a Vienna, dove morirà quattro anni dopo.
Nel 1788, deluso dall'esperienza napoletana e alla ricerca di un impiego, si recò a Roma, dove accrebbe la sua fama di letterato recitando versi molto acclamati nell'Accademia dell'Arcadia. Sperando di entrare nelle grazie del pontefice, dedicò a Pio VI il poema georgico (mai ultimato) Le piante e la carestia, nel quale taluni riferimenti umanitari, volti alla realizzazione di una giustizia sociale più ampia e radicale, lasciano trapelare l'influenza che potrebbe aver avuto su di lui non solo l'illuminismo napoletano ma più in generale la cultura idéologue, accolta, comunque, più come orientamento di massima che come diretto legame.
Costretto ancora una volta a tornare a Fivizzano, pubblicò nel 1792 a Livorno una nuova edizione "corretta e accresciuta" delle Poesie (ne era uscita un'altra nel 1785 a Firenze) per i tipi di Carlo Giorgi. Tra queste risaltano l'Umanità, dedicata a Melchiorre Cesarotti, e il Fanatismo, dedicata a Vittorio Alfieri, che affettuosamente aveva definito il F. l'"Orazio etrusco". Tradusse nel frattempo I dolori del giovane Werther in onore della pittrice svizzera Angelica Kauffmann, che tuttavia non furono mai pubblicati.
Nel 1790 (ma la data presenta qualche margine d'incertezza) scrisse A quei monarchi dell'Europa che ne abbisognano (senza indicazioni tipografiche; edito in Sforza, 1907, pp. 55-57), firmandosi "un amico della pubblica felicità", ingenuo appello in cui riaffermava il principio, ormai dei tutto contraddetto, che la buona volontà dei principi, guidata da una cultura illuminata, fosse sufficiente a realizzare "la possibile felicità della presente generazione".
"Difendo - affermava - la vostra causa e quella delle Nazioni; non abbiate l'indiscretezza di condannarmi; correggetevi, se mancate; consolatevi, se adempiste i propri doveri". Analogo invito aveva lanciato poco prima al nuovo regnante in Toscana Ferdinando III, esortandolo a promuovere un "codice di educazione pubblica" volto "indistintamente" a tutte le classi sociali, in modo che "istruzione e sapere" non fossero più "ingiusta privativa di pochi".
È intorno al 1792 che maturò la sua adesione al giacobinismo. In quello stesso anno, infatti, scriveva a Leopoldo Vaccà che avrebbe voluto rispondere all'appello lanciato dalla nazione francese a tutti i filosofi perché contribuissero al perfezionamento della costituzione e che avrebbe voluto inviare un piano di educazione a Pasquale Paoli, che si batteva per la libertà della Corsica. Sue letture predilette divennero Rousseau e Condorcet, mentre grande attenzione rivolgeva alle teorie e all'operato di Robespierre.
Al principio del '94 il vicario di Fivizzano lo dichiarava "appartenente al partito dell'Assemblea Nazionale" e ne scriveva allarmato a Pisa e a Livorno, città in cui, per un certo periodo, risiedette il Fantoni. Nel '95, morto il padre e avuti non pochi dissapori con i fratelli, pubblicò (novembre) una traduzione italiana dell'Inno all'Esser Supremo di Joseph-Marie Chénier, a riprova del suo avvenuto passaggio su posizioni rivoluzionarie. E infatti, a partire dalla primavera del '96, il F. divenne uno dei protagonisti della scena politica italiana, sempre presente nei punti nevralgici della penisola e partecipe delle più vive e aperte discussioni.
Tuttavia non è facile ricostruire le fasi della sua vita nel corso dei triennio rivoluzionario e questo essenzialmente per tre ragioni: in primo luogo perché la famiglia, come accadde anche per altri "patrioti", distrusse negli anni della Restaurazione parecchi documenti relativi al quel periodo; poi perché lo stesso F. ricorda come nel corso dei burrascosi trasferimenti di quegli anni ebbe modo di perdere non pochi dei suoi documenti e dei suoi manoscritti; infine perché, ricoprendo un ruolo di primo piano in organizzazioni settarie, non poteva certo rendere pubblici i propri intenti e le proprie direttive.
Nel maggio 1796 lo troviamo a Reggio Emilia, una delle prime città insorte contro gli antichi sovrani con un programma tutt'altro che velleitario come molti dei suoi antagonisti (di parte moderata) avrebbero voluto far credere. "Noi ci contenteremo per questa volta - scriveva - con sacrificio di molti denari, statue quadri e viveri, di comprare la dimunizione dei Principi nella nostra penisola, di acquistare il diritto di parlare e di scrivere e di odorare la libertà". Dopo un breve soggiorno in altre località dell'Emilia (Bologna, Sassuolo, Carpi) volto a riannodare contatti con altri amici e conoscenti, tornò a Reggio, ormai sotto il protettorato del Bonaparte, divenendo fra i protagonisti, tra la fine di settembre e i primi di ottobre, di un fatto d'armi rimasto famoso. Sparsasi la voce che un drappello di austriaci era nelle vicinanze della città, una colonna franco-reggiana sospinta dal F. si mise in marcia per raggiungerlo. Riparatisi nel castello di Montechiarugolo, dopo un breve combattimento, gli Austriaci stremati si arresero. Sebbene non esaltante, l'impresa ebbe comunque una grande risonanza in quanto considerata primo fatto d'armi che vedeva protagonisti italiani. Foscolo e Monti la cantarono, mentre Bonaparte regalava in segno di encomio cinquecento fucili ai Reggiani.
Poco dopo il F. si trasferì a Milano, centro nevralgico dell'Italia giacobina, dove il 14 novembre partecipò ad una solenne manifestazione in piazza del Duomo, nella quale si decise di inviare al Bonaparte un atto con il quale veniva ufficialmente dichiarata la libertà e l'indipendenza del popolo lombardo. Per tutta risposta il comandante generale della Lombardia L. Baragueys d'Hilliers fece chiudere la Società di pubblica istruzione e arrestare alcuni tra i patrioti più in vista, tra cui il Fantoni. La prigionia fu tuttavia breve e, ai primi di dicembre, egli era di nuovo a Reggio dove si doveva tenere il secondo Congresso della Confederazione cispadana. Impedito, nonostante fosse stato nominato "cittadino reggiano", di votare per l'elezione dei deputati, tornò nuovamente a Milano dove, il 21 genn. 1797, proponeva una sottoscrizione di 3.000 scudi per fare erigere un monumento in onore di C. Beccaria.
Probabilmente in seguito a contrasti con altri esuli si trasferì a Modena, dove nel dicembre 1796 si era formata una Società di pubblica istruzione, della quale il F. divenne grande animatore. Molti dei suoi discorsi, parzialmente riportati dal Giornale repubblicano, riscossero un'entusiastica accoglienza, come quello nel quale invitava tutti i fanciulli della città a costituire un battaglione (il "Battaglione della speranza"). "Ora siam piccoli ma cresceremo" era l'inno per l'occasione da lui composto e che sarebbe rimasto uno dei suoi versi più ricordati.
Nel frattempo aveva presentato una propria dissertazione al celebre concorso indetto il 27 sett. 1796 dall'amministrazione generale della Lombardia sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell'Italia".
Nella memoria, probabilmente scritta sul finire del 1796, riaffermava in modo assai realistico la momentanea impossibilità di costituire una Repubblica che comprendesse tutta l'Italia, sia perché la Francia non l'avrebbe mai permesso, sia perché troppo marcate gli apparivano ancora le differenze "dei dialetti, dei costumi e degli interessi" tra le popolazioni dell'Italia settentrionale e meridionale. Il F. puntava, in base a tali convinzioni, alla creazione di una Repubblica lombarda fondata sui principi "della Democrazia universale, cioè i diritti inalienabili dell'uomo e del cittadino", e su "un'educazione pubblica e gratuita, ministra di sussistenza e di verità ad ogni individuo, e di forza al corpo sociale". Estesa anche alle donne, questa avrebbe accompagnato i cittadini, secondo tappe e gradualità diverse, nell'arco di tutta la loro esistenza. Le idee del F. assumevano una chiara connotazione radicale allorché accennava al futuro assetto della società da lui vagheggiata. E così riguardo alla proprietà riaffermava che unica stabile e reale era quella delle "proprie mani", il cui lavoro avrebbe dovuto assicurare a tutti una proba e decorosa "povertà", egualmente distante dalla miseria e dalla ricchezza che "rendono gli uomini o vili, o prepotenti". Quanto alla religione prendeva in esame solo quella cosiddetta sociale che faceva coincidere con la morale, "cioè nei doveri d'amore verso la specie, verso la patria, verso noi stessi".Nel giugno 1797 era a Venezia, al seguito di una commissione modenese incaricata di chiedere al deposto sovrano Ercole III una cospicua sovvenzione così da concorrere al pagamento delle contribuzioni imposte dai Francesi. La missione non dette l'esito sperato, ma il F. ebbe modo di frequentare i diversi circoli democratici dell'appena liberata città e, in particolare, la Società di pubblica istruzione, dove la sua ode All'Italia, composta prima dell'arrivo dei Francesi fu "acclamata di stampa".
A settembre, ospite dell'amico Matteo Molfino, si recò a Genova, dove fu accolto con grande favore e strinse rapporti con diversi patrioti tra i quali L. D. Assereto, Giacomo Mazzini, padre di Giuseppe, e Tommaso Repetto. Il Difensore della libertà accolse (settembre 1797) un suo scritto dal titolo Massime elementari di pubblica educazione (parte di un annunciato volume sulla "felicità delle nazioni" che però non avrebbe mai visto la luce) e per i tipi di Frugoni pubblicò l'Inno di Dio, parafrasi di quello di Giuseppe M. Chénier, nel quale invocava "quel Dio che ci creò" a "darci quella sagacità e quella forza che conviene in questo momento ai difensori dei diritti dell'uomo" e invitava gli "uomini liberi dell'universo" a formare "una sola famiglia morale".
Nell'ottobre faceva ritorno a Milano, animando con Ugo Foscolo e Giovanni Pindemonte il risorto Circolo costituzionale della città, ma soprattutto si faceva portavoce delle preoccupazioni dei giacobini unitari di fronte all'intenzione dei rappresentanti francesi di limitare le libertà democratiche.
"Se delle riforme sono necessarie - scriveva nel luglio 1798 all'ambasciatore C.-J. Trouvé - si facciano, non rinnegando i poteri costituzionali, ma conservando l'integrità inviolabile di questa costituzione... allora il popolo si accorgerà che la sua sovranità non esiste solo in vani scritti e che la sua indipendenza non è né un'illusione né un sogno" (Zaghi, 1986, pp. 200 s.).
Alla fine di agosto, in seguito al colpo di mano compiuto dal Trouvè, venne arrestato e poco dopo esiliato insieme con L. Porro, G.A. Ranza, M. Galdi ed altri esponenti dell'ala più radicale del giacobinismo. Rientrato nella città lombarda dopo l'allontanamento del Trouvé, il generale G.-M.-A. Brune, di cui vantava l'amicizia, lo nominò commissario straordinario a Modena, ma nel rivolgimento che investì ancora una volta la Cisalpina ai primi di dicembre fu aiutato dal generale B.-C. Joubert a raggiungere il Piemonte appena "democratizzato".
A Torino il suo compito era preciso: tentare di impedire l'ormai imminente annessione del Piemonte alla Francia per favorirne invece l'unificazione alla Cisalpina, quale primo nucleo della formazione di una Repubblica italiana.
Questa direttiva gli veniva dalla Società dei raggi, della quale era uno dei principali esponenti. Su tale associazione le notizie sono tuttora piuttosto scarse. Sorta probabilmente a Bologna nell'autunno 1798, contando tra i suoi affiliati oltre al F. G. Lahoz e L. Savioli, la Società si dissociò apertamente dagli orientamenti del Direttorio, legandosi, invece, con l'ala più intransigente del giacobinismo francese ed in particolare con M.-A. Jullien, J.-B.-A. Amar e P-A. d'Antonelle.
Alla Società dei raggi si deve dunque la cospirazione organizzata in Piemonte nel febbraio 1799 che, secondo il generale E. de Grouchy, responsabile delle truppe francesi, venuto in possesso di un "Plan d'organisation secrette", aveva come responsabili oltre al F., G. Mulazzani, G. Cerise, G.M. Pellisseri e A. Pico, ed era strutturata in modo tale che ogni capoluogo di provincia contava su un comitato di cinque patrioti; ciascuno di questi nominava un comitato di quattro che a sua volta nominava un comitato di otto; gli otto e i quattro nominavano in ogni comune un capo colonna, che non doveva conoscere lo scopo finale delle operazioni, ma doveva disporre di un numero quanto più possibile elevato di uomini pronti alla lotta. Si trattava di un'organizzazione che ricordava molto da vicino quella ideata da F.-N. Babeuf nella sua cospirazione. L'11 febbr. 1799 parecchi membri della congiura furono arrestati e il F. restò a lungo rinchiuso nella cittadella di Torino. Le sue amicizie e la sua capillare rete di rapporti riuscirono, tuttavia, a non estraniarlo del tutto dalla vita politica. Nel marzo pubblicò un piano di difesa delle coste italiane, "perché si prendano le più energiche misure in certi punti e certe spiagge mancanti di forti e di popolazioni".
Il 3 maggio, imminente ormai l'arrivo degli Austro-Russi, venne condotto, ancora agli arresti, a Grenoble, punto di raccolta degli esuli italiani. Qui il F. venne indicato come "capo e motore" del cosiddetto "partito italiano".
La sua abitazione divenne punto di raccolta dei vari esuli italiani e tra i suoi principali collaboratori vennero segnalati i veneti F. Zorzi e F. Giuliani, Mulazzani e un gruppo di patrioti romagnoli. Profondo era il legame con i generali francesi B.-C. Joubert e J.-E. Championnet ("veri amici della libertà italiana") e con diversi exbabuvisti, in particolare con Amar, che viveva in una località vicino Grenoble.
Nel luglio, con l'aiuto di G.B. Polfranceschi, redigeva Il Grido dell'Italia (Grenoble, 30 messidoro, anno VII), la più completa disamina dell'ultimo periodo della Cisalpina, nella quale si prendevano apertamente le distanze dall'operato degli agenti francesi in Italia e dei moderati cisalpini, accusati di opportunismo e in molti casi di malversazione. "L'Italia - si legge - altro più non somigliava che una preda, abbandonata agli avvoltoj, che non aspettavano che il romore dell'armi per lasciarla". Del testo esiste un'edizione francese (Le Cri d'Italie; Ibid., 23 messidore, an VII) che fu letta a Parigi nel Consiglio dei cinquecento, insieme con altri indirizzi degli unitari italiani, dal rappresentante P-J. Briot de Doubs.
La decisa linea politica assunta creò non pochi contrasti tra il F. e larga parte degli esuli italiani, che lo accusavano di essere un "fanatico" e un "visionario". "Sarebbe meglio - scriveva Pico al Botta a Parigi - che l'arcipatriottissimo Fantoni non fosse qui" (Sforza, 1909, p. 322). In questo clima di avversione e diffidenza il F. fu accusato di aver operato per una raccolta di fondi a favore dei fuorusciti italiani, ma di non aver poi suddiviso la somma.
Contrariamente a quanto sinora affermato dai suoi biografi, il 15 ag. 1799 il F. non partecipò alla battaglia di Novi, nella quale perse la vita il suo amico Joubert. Non poteva essere presente perché il 17 agosto lesse una sua ode al Liceo di scienze ed arti di Grenoble e qualche giorno dopo una lettera di G. Labus lo indica ancora nella città francese (cfr. Melzi, I, p. 510). Il 29 agosto era tra i firmatari di un appello di alcuni emigrati italiani a Grenoble al ministro della Guerra J.-B. Bernadotte, nel quale si ribadiva la disponibilità per la formazione di una brigata pronta a combattere per fare "finalmente dell'Italia una nazione di uomini liberi".
A metà ottobre il F. raggiunse a Cuneo il quartier generale francese ove il generale J.-A. Championnet, il 21 settembre, in seguito alla morte di Joubert, aveva assunto il comando dell'Armata d'Italia. Un mese dopo ottenne il permesso di recarsi a Genova "per sbrigare i suoi affari particolari" e nella città ligure, ultimo avamposto dell'Italia repubblicana, pubblicò una nuova serie di odi, presso Angelo Tessera, dedicate a "coloro il di cui cuore e le di cui mani non si contaminarono nell'ultimo decennio del secolo XVIII", della quale uscì però solamente la "prima decuria". Sempre a Genova pubblicò, per i tipi di Frugoni, intorno alla metà di novembre del 1799, la Lettera di un italiano a Bonaparte, uno dei documenti più emblematici della frattura tra il giacobinismo unitario e l'ormai primo console.
Nello scritto, che molto da vicino ricalcava, anche nella firma, "L'uomo senza Dio", Le correttif à la gloire de Bonaparte di P.-S. Maréchal (uscito in italiano a Venezia nel '97 dopo che Napoleone aveva ceduto Venezia all'Austria), il F. accusava Bonaparte di aver tradito l'aspettativa dei patrioti italiani, avendo ormai abbandonato ogni ideale di libertà e giustizia. Nell'uomo, sopraffatto dal fasto e dall'ambizione, il F. non vedeva che un potenziale dittatore e tiranno anche se lasciava aperto lo spazio ad un'ultima speranza. "Le strade della gloria, e dell'infamia - affermava - ti sono egualmente aperte dinanzi: scegli. Vi furono dei Postumi, dei Curi, e dei Fabrizi, vi furono dei Pisistrati, dei Cromwell, e dei Cesari... vi son dei pugnali".
Ancora nel 1800 i suoi rapporti con il giacobinismo francese appaiono piuttosto stretti. Nel carteggio con Felice Bongiovanni fa uso di inchiostro simpatico e di cifre misteriose, probabilmente indicative di personaggi gerarchicamente qualificati, elementi che lasciano intravedere come agisse ancora in ambito di sette segrete.
Il 4 giugno 1800 lasciò Genova, ormai stretta nella morsa della fame, e il 16 lo troviamo a Finale, segretario dell'appena costituita Deputazione straordinaria di governo della Repubblica ligure, presieduta da A. Massena. In questa qualità il F. seguì la Deputazione prima a Savona, poi ad Albisola, infine a Genova, dove il 24 giugno i Francesi rientrarono guidati dal generale L.-G. Suchet. Il F. restò nella sua carica fino al 2 luglio non mancando di incoraggiare il popolo ligure a stringersi intorno alla Repubblica, "unico mezzo per ristabilire la prosperità nazionale" (cfr. Epistolario, 1992, p. 327).
Sul finire dell'anno 1800 si stabiliva a Massa e nel febbraio dell'anno successivo venne chiamato dall'università di Pisa a ricoprire la cattedra di eloquenza e belle lettere, ma poco dopo, mutato il clima politico, venne rimosso dall'incarico con non poco dispiacere. Sfiduciato, si ritirò allora nuovamente a Massa, rifiutando una cattedra offertagli dall'Accademia delle scienze di Torino per intercessione dell'amico Vincenzo Marenco. "Essendo divenuto quel paese la 27ª divisione della Francia - è la motivazione addotta - ed essendo io nato in Italia, penso di restare nel suo seno".
Del 1803, l'Epistola a Bonaparte (pubblicata postuma da D'Ancona, 1890), un carme di oltre 400 versi, di costruzione oraziano-umanistica che rappresenta un po' la summa del pensiero politico fantoniano, quasi una sorta di testamento politico.
Rinnovato l'invito a Bonaparte a realmente "oprar per la felicità" dell'Italia ("allora gloria sicura merterai vivendo"), il giacobino toscano ripercorre quelli che a suo avviso dovrebbero essere gli ordinamenti di uno Stato libero: una forza nazionale "mobile e locale", un'educazione pubblica uguale e comune, un adeguato piano di difesa nazionale, costumi sobri e disinteressati. La storia d'Italia, per il F., non mancava di fulgidi esempi di "saggezza e virtù" (la Roma repubblicana, Machiavelli, Galilei, Beccaria, Giannone); si trattava di rivisitarli e adeguatamente riproporli.
Il 25 ag. 1805, accettata la carica di segretario dell'Accademia di belle arti di Carrara, si adoperò per rivitalizzare l'istituzione ormai decaduta, convincendo ad aderirvi alcuni tra i più significativi artisti dell'epoca (A. Canova, J.-L. David, V. Camuccini e R. Morghen) e puntando su un modello educativo che presenta non vaghe reminiscenze socratiche. "Moltiplichiamo i saggi - scriveva - formiamo la gioventù alla virtù, facendole conoscere la verità, e questa moltiplicherà i maestri, che ridesteranno il perduto coraggio" (Sforza, 1907, p. 247).
Due anni dopo manifestava l'intenzione di andare a vivere in campagna in un podere del Modenese tenuto dal suo caro amico Antonio Lei. Due ragioni lo spingevano: "restituirsi intieramente agli studi" e tornare suddito del Regno d'Italia (la Toscana costituiva allora il Regno d'Etruria), "ove essendo l'amministrazione della cosa pubblica pressoché tutta in mano di nazionali, qualche dignità pur nell'obbedienza rimaneva" (ibid., p. 237).
La morte lo colse a Fivizzano, proprio mentre si accingeva a portare a compimento il progetto, il 7 nov. 1807.
Una bibliografia completa delle opere del F. si trova in Melo, 1985, pp. 121 s. Tra le edizioni degli scritti del F. si segnalano le Opere, a cura del nipote Agostino Fantoni, I-III, Lugano 1823-1824, e Poesie, a cura di G. Lazzeri, Bari 1913.
Fonti e Bibl.: Le carte del F. sono depositate presso l'Archivio dì Stato di Massa. Cfr., al riguardo, G. Arsento, Inventario dell'Archivio della famiglia Fantoni (sec. XVI-XIX) ora all'Archivio di Stato di Massa, in Mem. dell'Acc. lunigianese di scienze G. Cappellini, n.s., XIII (1965), pp. 65-75.
La più completa biografia del F. resta quella di G. Sforza, Contributo alla vita di G. F. (Labindo), Genova 1907. Molto utili A. Fantoni, Memorie istoriche sulla vita di G. F, in Poesie di G. Fantoni fra gli arcadi Labindo, Italia 1823, III, pp. 225-316; E. Malatesta, Vita irrequieta dì Labindo, Roma 1943; P. Melo, Autoritratto dalle lettere di G. F., in Acme. Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università degli studi di Milano, XXXVII (1984), pp. 129-197; XXXVIII (1985), pp. 75-128. Notizie anche in P. Costa, Intorno alla commemorazione di G. F. detto Labindo, in Giorn. arcadico di lettere, scienze ed arti, XXVIII (1825), 49, pp. 64-101; L. Ciampolini, G.F., in Nuovo Diz. stor., Torino 1835, II, pp. 394 s.; F. Bellini, Alcuni cenni intorno alla vita e alle opere del conte G. F., Parma 1844. Per le lettere, cfr. G. Fantoni (Labindo), Epistolario (1760-1807), a cura di P. Melo, Roma 1992.
Sul F. poeta gli studi più significativi rimangono quelli di G. Carducci, La lirica classica nella seconda metà del sec. XVIII, in Ed. naz. delle opere, XV, pp. 213-35; Id., Un giacobino in formazione e Un poeta giacobino in formazione, ibid., XVIII, pp. 57-82, 83-113; L. Russo, G. F. arcade e giacobino, in Belfagor, X (1955), 5, pp. 505-16 (poi in Il tramonto del letterato, Bari 1960, pp. 2845): M. Cerruti, G. F. neoclassico e giacobino, in Neoclassici e giacobini, Milano 1969, pp. 117-260. Utili riferimenti in S. de Sismondi, Recens. a Poesie di G. F. Labindo, in Nuovo Giornale de' letterati, I (1822), pp. 242-45; Id., Della letteratura italiana dal sec. XIV fino al principio del sec. XIX, II, Milano 1820, pp. 298 ss.; D. Bertolotti, Notizie intorno alla vita e alle opere di G. F., in Poesie del conte G. Fantoni, Milano 1823, pp. VII-X; G. Montani, Nota su G. F., in Antologia, t. XV (1824), 34, pp. 1-43; F. Ambrosoli, Poesie G.F., in Biblioteca italiana, XXXVIII (1825), pp. 23-26, 331-52; E. Gerini, Di G.F. poeta e scrittore, in Mem. stor. d'illustri scrittori e uomini insigni dell'antica e moderna Lunigiana, II, Massa 1829, pp. 187-92; A. Mauri, G. F., in Prose e poesie scelte, Milano 1833, pp. XX-XXII; P. Thovar, G. F. e il suo calzolaio, in Letture per la gioventù compilate da R. Lambruschinì..., Firenze 1845, 11, pp. 49-57; G. Mazzoni, Spigolature metriche, in Id., In biblioteca, Bologna 1886, pp. 251 s.; A. Solerti, La poesia barbara di Labindo, in Le odi G.F., Torino 1887, pp. XLIX-LXXV; G. Mazzoni, Imitatori di Labindo, in Vita nuova, I (1889), 14, p. 142; E. Pranzetti, Della lirica di G. F., Roma 1895; L. Alpago-Novello, F. per Fantuzzi?, in Antologia veneta, III (1902), pp. 342-52; A. Ottolini, La varia fortuna di G.F., in Rivista d'Italia, X (1907), pp. 601-15; G. Lazzeri, Carducci e F., in Saggi di varia letteratura, Firenze 1921; G. Mazzoni, Nel circolo costituzionale di Milano, in Abati, soldati, attori, autori del 700, Bologna 1924, pp. 313-31; L. Poppa, L'imitazione di Orazio nelle Odi del F., Melfi 1924; M. Battistini, G. M. Lampredi, il poeta F. e il circolo del caminetto, in Il Giornale di politica e letteratura, III (1929), pp. 869-82; G. Natali, G. F., in Storia letteraria d'Italia, II, Milano 1929, pp. 738-43; C.R.D. Miller, American notes in the odes of Labindo, in The Romanic Rewiew, XXI (1930), 3, pp. 204-08; N. Cozzolino, Poeti e lirici civili in Genova nei primi del 1800, in Giornale storico e letter. della Liguria, n.s., VII (1930), pp. 43-69; U. Foscolo, Sulle poesie di G. F. cognominato Labindo, in Ed. naz. delle opere, VII, pp. 413-16; E. Evangelisti, IlCarducci e il suo precursore, G. F. Saggi storico letterari, Bologna 1934, pp. 247-313; G. Mazzoni, G. F., in Storia letteraria d'Italia. L'Ottocento, Milano 1934, pp. 31 s.; M. Grossi, Un conte rivoluzionario amico di Giosuè Carducci, in Giorn. stor. e letter. della Liguria, n.s., XI (1935), pp. 172-80; B. Croce, Verseggiatori del grave e del sublime, in La letteratura italiana del Settecento, Bari 1949, p. 359; E. M. Fusco, La lirica, in Storia dei generi letterari italiani, I, Milano 1950, pp. 424 ss.; W. Binni, Preromanticismo italiano, Napoli 1959, p. 161; M. Fubini, Introduzione ai lirici del Settecento, Milano-Napoli 1959, pp. LXIII-LXVII; Id., G. F., in La poesia settecentesca, Colonia 1962; S. Guerrieri, Alle origini della sensibilità romantica: G. F., Torino 1966; W. Binni, Ilneoclassicismo nella letteratura del tardo Settecento, in Storia della letteratura ital. (Garzanti), a cura di E. Cecchi - N. Sapegno, IV, Milano 1968, p. 680; M. Cerruti, G. F., in Dizionario critico della letteratura italiana, II, Torino 1972, pp. 60-63; G. Gronda, G. F., in Il Settecento. Poesia italiana, Milano 1978, pp. 323-30.
Sul F. politico manca un'opera d'insieme. Notizie relative al triennio giacobino si trovano in G. Vaccarino, I giacobini piemontesi (1794-1814), Roma 1989, 2 vol. ad Indicem; C. Zaghi, L'Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino 1986, ad Indicem; Id., IlDirettorio francese e la Repubblica cisalpina. Con un'appendice di documenti inediti, Roma 1992, 2 vol., ad Indicem. Utili notizie anche in G. Gorani, Mémoires secrets, Paris 1793, I, pp. 141 ss.; Comelly de Stuckenfeld, Histoire des conspirations formées contre Napoléon Buonaparte depuis 1789 jusqu'au 1814, Londres 1815, II, p. 37; C. Botta, Storia d'Italia dal 1789 al 1814, Capolago 1838, IV, p. 220; Id., Lettere inedite, a cura di P. Pavesio, Faenza 1875, pp. 164 ss.; F. Melzi d'Eril, Memorie-documenti, a cura di G. Melzi, Milano 1865, I, p. 510; N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese, III, Torino 1879, p. 89; D. Carutti, Storia della corte di Savoia durante la Rivoluzione e l'Impero francese, Torino 1882, II, pp. 33 s., 64; L. Cusani, Storia di Milano dall'origine ai nostri giorni, V, Milano 1884, p. 308; U. Bassi, Reggio nell'Emilia alla fine del secolo XVIII, Reggio nell'Emilia 1895, passim; G. Roberti, Per la storia dell'emigrazione cisalpina in Francia nel periodo austro-russo (1799-1800), in Rivista del Risorgimento, III (1898-1900), p. 583; A. Neri, Aneddoto intorno a Labindo, in Giorn. stor. e letter. della Liguria, VI (1905), pp. 423-35; G. S. Gargano, Labindo nel primo centenario della sua morte, in Il Marzocco, XII (1907), 40, p. 2; G. Manacorda, I rifugiati italiani in Francia negli anni 1799-1800 sulla scorta del diario di Vincenzo Lancetti, in Mem. della R. Acc. delle scienze di Torino, LVII (1907), pp. 75206; A. Neri, Un opuscolo sconosciuto di G. F., in Giorn. stor. della Lunigiana, IX (1909), pp. 62-65; G. Sforza, L'amministrazione generale del Piemonte e C. Botta (1799), in Mem. della R. Acc. delle scienze di Torino, LIX (1909), pp. 215-337; P. Hazard, La Révolution française et les lettres italiennes (1789-1815), Paris 1910, pp. 28 ss. e passim; A. Neri, Un proclama rivoluzionario ai Pontremolesi, in Giornale stor. della Lunigiana, VI (1912), I, pp. 3-10; S. Pivano, Albori costituzionali d'Italia (1796), Torino 1913, passim, in part. pp. 421 ss.; M. Cerini, Un poeta legislatore, in Il Marzocco, XXII (1917), 27, p. 3; A. Ottolini, Nel mondo settario: i Raggi e i Centri, in Rass. stor. del Risorgimento, IV (1917), p. 695; A. Marchi, Ilpoeta F. al combattimento di Montechiarugolo, in Aurea Parma, IX (1925), pp. 166-69; V. Monti, Epistolario, II, Firenze 1928, pp. 103, 141 s.; B. Peroni, Fonti per la storia d'Italia dal 1789 al 1815 nell'Archivio nazionale di Parigi, Roma 1936, pp. 296-99; E. Rota, Le origini del Risorgimento (1700-1800), Milano 1938, pp. 1016, 1122, 1153; U. 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Della Peruta, Rivoluzione anche in Toscana, in L'Italia nella rivoluzione (1789-1799), a cura G. Benassati-L. Rossi, Bologna 1990, pp. 65-68; S. Nutini, "Rigenerare" e "rigenerazione": alcune linee interpretative, in Idee e parole nel giacobinismo italiano, a cura di E. Pii, Firenze 1990, pp. 51, 55; C. Mangio, I patrioti toscani fra "Repubblica Etrusca" e Restaurazione, Firenze 1991, ad Ind.; A. M. Rao, L'emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli 1992, ad Ind.