FATTORI, Giovanni
Nacque a Livorno il 6 sett. 1825 (non il 25 di quel mese, come l'artista ebbe una volta a dichiarare, o nel 1828, come egli stesso ripeté due volte, anche se esitante). Suo padre, Giuseppe, era un modesto artigiano originario di San Marcello Pistoiese; sua madre, Lucia Nannetti, per nascita fiorentina, "una buona donna -ricorda il figlio - che credeva in Dio e nei Santi (se non altrimenti specificato per le parole del F. riportate nel corso della voce si rimanda agli Scritti autobiografici..., a cura di F. Errico, 1980).
Dai genitori il F. trasse la grande semplicità dei costumi e la proverbiale asciuttezza del suo stile di vita; oltre che, forse, quella eccentricità di comportamento sovente osservata con incredula meraviglia da anuci e biografi sulla origine psicologica della quale - fin qui poco osservata - vengono oggi a portar qualche luce alcuni documenti inediti recentemente ritrovati donde si apprende che il padre, abbandonato a quanto pare da una prima moglie, lasciò Pistoia per Livorno con il proposito di rifarsi una vita; e qui stabilitosi, intorno al 1820, contrasse sotto falso nome, vivente ancora la sposa legittima, il suo secondo matrimomo: quello appunto da cm nacque il F., l'ultimo dei suoi quattro figli - due di primo e due di secondo letto. Un matrimonio fittizio abilmente escogitato e contratto, che solo una ventina d'anni dopo, a morte avvenuta della donna regolarmente sposata, fu formalizzato, ma che è difficile pensare potesse rimanere nella cerchia di famiglia e fra i più intimi senza qualche effetto perturbatore.
Se siffatte ascendenze domestiche non sono prive di interesse per capire un aspetto della più elementare naturalità del pittore, non minore importanza riveste, per l'intelligenza del suo ethos e della sua formazione culturale, il mestiere esercitato dal padre. Il quale, tenendo bottega come "pettinatore di canapino" nel mercato di Livorno, e fattosi poi mediatore di commercio nel settore della canapa molto fiorente in città per la richiesta di cordami che veniva dal porto, si trovò a vivere in quotidiano contatto con le forze più vive dell'economia e della cultura cittadina. Mi riferisco a quella classe di artigiani e commercianti che, legati per i loro interessi ai grossi uomini d'affari gravitanti intorno al porto franco, avevano fatto fortuna negli ultimi decenni venendo a costituire in città quella sorta di "plebe grassa" tipicamente livornese che tanta e così attiva parte ebbe nel Risorgimento, e che proprio come avviene a ogni ceto "nuovo a vita civile" (ci dice G. Montanelli, Memorie sull'Italia... [1853], Firenze 1963, p. 299) andava allora cercando la propria identità culturale, e si era di conseguenza "ristretta con la gioventù colta", venendo in qualche modo a "prendere legge da quella".
In questo ambiente in sviluppo, anche i Fattori avevano prosperato. Non solo Giuseppe; ma anche il primogenito di lui, Rinaldo, il quale, messo un vero e proprio "banco di affari", aveva fatto compiere in breve alla famiglia un ragguardevole progresso nella scala sociale. Più anziano di una quindicina d'anni del F., Rinaldo, che avrà nei confronti del fratellastro figura e funzione di padre, aveva da principio preso con sé il piccolo per avviarlo al commercio; ma il poco profitto del ragazzo e il precoce manifestarsi in lui del naturale talento per il disegno indussero ben presto la non disagiata e condiscendente famiglia ad avviare il minore nato agli studi artistici. La scelta del maestro cadde su G. Baldini, il migliore anzi "l'unico artista" della città. Questi, venticinquenne appena, e fresco della frequentazione a Roma della scuola di T. Minardi da lui seguita con lode, teneva a Livorno dal 1838 circa una scuola privata presso l'Accademia dei Floridi in S. Marco. Il F. fu uno dei suoi primi allievi rimanendo con lui fino al 1845. In tarda età il F. non conservava del Baldini un buon ricordo: lo giudicava uomo borioso e vano; e ciò nonostante la sostanziale identità di vedute che sul piano politico avvicinava, al momento in cui si lasciarono, alunno e maestro, tenuto d'occhio quest'ultimo dalla polizia fin da quando, con la carcerazione di C. Bini e di F. D. Guerrazzi, cominciarono nel 1833 a incrudelire anche in Toscana le misure repressive nei confronti delle società segrete.
Sta di fatto che sulla fine del 1845, il F., superati ormai i vent'anni senza avere fino a quel momento nulla concluso, lasciava Livorno per Firenze e diveniva uno degli allievi della scuola personale di G. Bezzuoli, fruendo a tal fine di una commendatizia di G. Giusti ottenuta tramite un'amica di famiglia (cfr. G. Giusti, Epistolario, a cura di F. Martini, Firenze 1832, IV, p. 59). A quei giorni il F. faceva parte di un giro di amici tutti più o meno della stessa età, tutti di una medesima estrazione sociale, tutti animati da vivi sentimenti democratici e fra loro unitissimi come stanno a documentare la testimonianza diretta del pittore e un gruppo di lettere degli anni 1846-1855 che portano non poca luce sulla formazione morale dell'artista.
Erano, questi amici, Costantino Mosti, suo primissimo compagno di stanza a Firenze; i fratelli Nardi, e cioè Augusto, Alfonso, Clarissa, Penelope, Amalia; Verulo e Alcibiade Bartorelli; Enrico e Nicola Kutufá; Ferdinando Baldesi, forse un impiegato di dogana, e sua sorella Lucia: nomi capaci oggi di risvegliare un'eco solo nella mente di un qualche cultore di storia locale livornese, eppure importanti per ricostruire momenti di eccezionale rilievo nella sensibilità dell'artista. I Nardi erano cugini di G. Paganucci, lo scultore che dividerà col F. una soffitta in via Nazionale verso il 1855. Si, univano talvolta alla brigata F. Buonamici, L. Bechi e P. Pisani (giovani che si faranno fra poco notare fra i frequentatori del caffè Michelangiolo) nonché quel C. Giordanengo che fu fra i primi intimi del F. a Firenze, presente in vari documenti dell'Accademia e da quest'ultimo sugli altri prediletto. Da Pistoia venivano a Livorno "i cugini" del F., fra i quali non è dato identificare se non quel S. Bongiovanni che il pittore raffigurerà nel 1867 in uno dei suoi più estrosi ritratti. Per Clarissa il F. nutrì un'amicizia inclinante a tenerezza (la chiama sua "seconda sorella" in una lettera dalla quale traspare la funzione esaltante della musica per l'intero gruppo e la predilezione per Rossini). Penelope era la fidanzata di E. Kutufá e a lui andò sposa nel 1850. Amalia era invece legata a V. Bartorelli, col quale probabilmente si sposò nel 1849. A proposito del Baldesi, il F. ci dice che entrambi, il Baldesi e lui, appartenevano a una società segreta, identificabile con la Società dei progressisti fondata da E. Bartelloni. Di essa pare che il Baldesi fosse uno dei più appassionati frequentatori; né si smentì alla prova dei fatti, ché il suo nome è fra i decorati distintisi l'11 maggio nella difesa della città. Quanto a V. Bartorelli, proprio parlando di lui non solo il F. pronuncia il nome della Giovine Italia e accenna alle letture che a quei giorni infiammavano gli animi (l'Ortis, l'Assedio di Firenze, le Mie prigioni) ma precisa mancanti molte delle lettere dell'amico a causa del loro compromettente contenuto politico. Il fratello poi di Verulo, Alcibiade, cadde sul campo nella giornata di Curtatone e Montanara.
Non è difficile identificare la sfera di interessi politici nella quale muovevano questi giovani: è quella che con paziente e tenace azione culturale aveva poco a poco creato in Livorno G. Montanelli. Il quale, preoccupato che l'estremismo dei livornesi finisse per distogliere dalla lotta quotidiana delle forze preziose, tendeva a controbilanciare l'influenza che sulla società del Bartelloni esercitavano il Mazzini e il settarismo sovente astratto dei fuorusciti. Fin dal 1843 egli aveva steso il programma di una nuova società chiamata I fratelli italiani, le linee ideali della quale corrispondono inequivocabilmente ai motivi ricorrenti nelle lettere che il F. e i suoi amici venivano allora scambiandosi con analogo ispirato linguaggio, ingenuamente mutuato dalle loro letture: U. Foscolo, S. Pellico, F. D. Guerrazzi, come detto, e G. B. Niccolini e C. Bini, nonché, fra gli stranieri, W. Scott, G. Byron, J.-C-F. Schiller, V. Hugo, E. Sue.
Un tale clima, un tale genere di relazioni consentono di apprezzare nel suo giusto significato la vivace reazione che subito si determinò nel giovane studente al primo contatto con l'ambiente fiorentino. Il sostenuto tono della casa del Bezzuoli, uno dei nomi più in vista della mondanità letteraria del tempo - del Bezzuoli pervenuto ormai al culmine della sua fama e della sua ricchezza (e, superata la sessantina, pochissimo voglioso a quanto pare di dedicarsi all'insegnamento) -, dovette creare non pochi impicci al F. che, di animo fierissimo come poi sempre si dimostrò, caldo nei sentimenti e galvanizzato dal clima di quei giorni, altro non poteva essere agli occhi del bel mondo fiorentino se non un figliuolo di brava gente dei popolo (anche se giunta a qualche agiatezza), raccomandato bensì dal Giusti, ma semiilletterato e, quanto a buone maniere, non di certo tale da figurare gran che nella società di cui il Bezzuoli era allora uno dei più accarezzati esponenti. Difficoltà che si facevano più ardue per il fatto che, grazie alla raccomandazione del Giusti, il F. era stato accolto fra quei pochissimi scolari che l'anziano maestro si induceva a tenere in casa, avendo cura solo molto di rado di seguirne per davvero qualcuno. "Firenze mi ubriacò - scrive il F. - vidi molti artisti, ma nulla capiva: mi parevano tutti bravi e io mi avvilii tanto che mi spaventava il pensiero di dover cominciare a studiare" (Memorie autobiografiche scritte per O. Roux [1906], in G. Fattori, Scritti autobiografici..., p. 103). E quando poco dopo lasciava il privato insegnamento del Bezzuoli per seguire i corsi da quest'ultimo diretti all'Accademia, dovette, per sentirsi vivo, fare qualcosa di stravagante, che uscisse dalla norma. Solo così si spiega la fama che il F. ben presto si fece del più sovversivo scolaro dell'Accademia, come tramanda più vivacemente che non altri T. Signorini, rammentando nei Caricaturisti e caricaturati (1893) la storia delle burle che fece, meritevole di per sé, egli dice, di "un volume di molte pagine". Una reputazione, questa, che certa edulcorata agiografia del principio del Novecento ha trasmesso in modo equivoco, degradando a birbonata di discolo la vivacità giovanile del F., effetto solo della sua frizione con un mondo difforme da quanto di meglio e di più sentito era in lui.
Nonostante tutto questo, il F. fra il 1846 e il 1852 percorse abbastanza regolarmente la carriera scolastica fruendo dell'insegnamento di T. Gazzarrini (elementi), del suo aiuto B. Servolini (disegno dalle statue), di E. De Fabris (prospettiva), di L. Paganucci (anatomia) e da ultimo, alla Scuola superiore di pittura, oltre che del Bezzuoli, anche del suo aiuto E. Pollastrini, Concittadino del F. (scuola libera del nudo).
Furono fra i suoi compagni di studi in quegli anni oltre ai già ricordati, anche A. Gatti, O. Lalli, L. Bechi, G. Bellucci (quattro coetanei che il F. ricorda espressamente come suoi condiscepoli); e inoltre C. Conti, destinato di li a poco a farsi un nome come pittore di storia; L. Pisani, il futuro ben noto mercante d'arte; F. Provenzal, cui il F. dedicò un disegno; G. Mochi, che noi troviamo di qui a poco fra gli intimi di Vito D'Ancona. Quanto al D'Ancona medesimo, scolaro prediletto dal Bezzuoli e ben presto legato al F. da cordiale amicizia, è cosa certa che egli non fu mai iscritto all'Accademia. Frequentarono invece le classi del F., variamente scalati nel tempo, A. Puccinelli, M. Gordigiani, N. Sanesi, C. Ademollo. D. Macciò, A. Betti, G. Mochi, gli scultori livornesi S. Salvini e G. Paganucci (che divideva a quel tempo una soffitta col F. in via Nazionale); e infine, ma solo da ultimo alla scuola del nudo, Silvestro Lega.
Il profitto del F. non fu brillante - come non lo era stato dal Baldini - neanche all'Accademia: egli risulta ammesso alla Scuola superiore di pittura nel giugno del 1850 (dopo aver mancato l'esame l'anno precedente) "per mediocre esecuzione del tema prospettico e per mediocre esame in architettura e geometria", partecipe senza buon esito a vari concorsi accademici. Di questi insuccessi un'ironica traccia sembra potersi reperire fra le righe delle memorie: "lo, per conto mio, tolto di sapere scrivere un pochino, ero perfettamente ignorante e - soggiungeva argutamente - mi sono grazie a Dio conservato" (Dalle memorie scritte per Romualdo Pantini [1902], in Scritti autobiagrafici..., p. 38). Diceva di non avere mai saputo la storia dell'arte e di aver letto invece a quel tempo molti romanzi; e riteneva, soppesando il corso della sua carriera, che non ci fosse bisogno, "per fare un artista", di quanto ai primi del Novecento si esigeva dagli scolari; una somma di cose, egli pensava, necessarie bensì per essere letterati o scienziati, ma non artisti. Anzi sentenziava che l'eccesso di un tal genere di nozioni fosse nocivo, rendendo difficile il libero avvicinarsi all'arte secondo il modo di sentire di ciascuno. E concludeva: "solo l'arte stavami addosso senza saperlo, né ancora lo so" (ibid.).
Frattanto, salito al soglio pontificio Pio IX, il fermento rivoluzionario che anche in Toscana veniva crescendo cominciava a dare segni manifesti fra gli studenti, tanto che con entusiasmo e allegria giovanili anche il F. si dedicò in quei mesi a diffondere per vari centri della Toscana - fattorino del partito d'azione - stampa clandestina e "fogli incendiari" e, nella primavera del '48, con l'inizio della campagna di Lombardia, maturò in lui il proposito, poi frustrato dalla opposizione dei genitori, di arruolarsi volontario. I drammatici avvenimenti livornesi del '48, a partire dai tumulti del gennaio che portarono al primo arresto del Guerrazzi fino ai torbidi provocati dalla condotta del governo toscano, traspaiono con la vivacità del documento diretto dalla corrispondenza, anche se il F., data la segregazione impostagli dalla madre nella soffitta della propria casa in "Venezia" (la "Venezia" livornese), durante la difesa della città, l'11 maggio 1849, non partecipò come combattente (del suo gruppo solo il Baldesi risulta presente sulle barricate), ma come testimone (da un abbaino della casa), travolto piuttosto dagli avvenimenti che non partecipe di essi. Fu comunque indelebile l'impressione lasciata nell'artista da quelle memorabili vicende, il ricordo delle quali assurse poco a poco, nel corso della vita di lui, a simbolica pietra di paragone di uomini ed eventi.
Finita la guerra (ma non l'attività clandestina), più assidua si fece, col ritorno del granduca e con gli Austriaci in Toscana, la frequenza del F. ai festosi e turbolenti incontri del caffè Michelangiolo che, nato col '48, andava allora acquistando la sua celebrità e il suo carattere di ritrovo di artisti e di patrioti. Del caffè il F. era stato fin dagli inizi uno degli assidui. L'amicizia che lo legò a G. Dolfi, l'influente fornaio patriota, braccio destro di Garibaldi in Toscana e iniziatore o quasi del caffè - un'amicizia attestata fra l'altro da due dipinti a lui donati dal pittore nel '56 - dovette annodarsi proprio in questo momento, così come quella con A. Tricca, il gran caricaturista, il quale ci lasciò in un disegno eseguito intorno al 1850 la prima effigie a noi nota del F., ben argutamente rispecchiante, in quella esprfssione fra scombuiata, riottosa e malinconica, l'inquietudine morale di questo momento, non dei più facili della vita del pittore. "Feci, egli dice, la vera vita del boemien [sic] senza posare e senza saperlo", per "pura necessità". E come in questi anni (che nonostante tutto sono ricordati dal F. periodo "di vita lieta, spensierata senza sapere che cosa fosse il domani") egli abbia potuto mantenere oltre che se stesso e la soffitta di via Nazionale anche uno studio in piazza Barbano (il medesimo ancora usato nel '59, quando F. De Tivoli, che ne aveva uno di rimpetto, portò da lui Nino Costa per farglielo conoscere), è difficile congetturare, se non pensando a un regolare aiuto da parte dei suoi. Nulla o quasi ci è pervenuto infatti di una attività artistica del F. riferibile a questo momento: frammenti atti solo a mostrare quanto lentamente si andasse nel grande artista maturando la padronanza dei mezzi tecnici.
Il primo quadro di qualche spicco a noi noto, dipinto dal F. a ventinove anni, è l'Autoritratto del 1854 (Firenze, Gall. d'arte moderna di pal. Pitti; là dove non sia specificata la collocazione delle opere citate si rimanda alla Catalogazione del Malesci, 1961 dalla quale deriva con poche aggiunte L'opera completa del 1970, e al catal. della mostra del 1987). Qui il Piglio disimpacciato e brioso ci rende avvertiti che un salto di qualità si è compiuto. È presso a poco il momento nel quale il F. incontra la donna cui si unirà in matrimonio nel 1860: Settimia Vannucci. Nel '54 infatti la relazione dei due giovani era di certo avviata se, come apprendiamo dagli Scritti autobiografici, l'epidemia colerica (diffusasi giusto nel luglio di quell'anno e della quale solo Settimia, pur scampandone, fu vittima) li colse entrambi quando già vivevano insieme. Parlando appunto dell'epidemia, il F. accenna alla gravità delle sue ristrettezze economiche e ci informa di una sua attività, per alleviarle, di vignettista-litografo. A questo il momento di certe escursioni paesistiche compiute dal F. nella campagna fiorentina con A. Gastaldi, allora in Toscana con una borsa di studio. Due quadri tratti dall'Assedio di Firenze, dipinti dal F. in uno stile affine a quello dell'Autoritratto, richiamano in effetti nell'invenzione il paesaggismo storico di M. d'Azeglio, cui anche il Gastaldi allora guardava, mentre non pochi segni di contatto con motivi della cultura romantica lombarda sono percepibili sulla metà del sesto decennio del secolo nell'evoluzione del F., il quale non solo dà segno di una speciale attenzione al quadro di genere indunesco, ma sceglie a soggetto dei propri dipinti la Margherita Pusterla di C. Cantù (Promotrice del 1856) e l'Ildegonda di T. Grossi (Promotrici del 1857 e '58) e nello stesso Autoritratto lascia avvertire un'eco di G. Trécourt; mentre, fra i disegni ereditati da Giovanni Malesci un gruppetto se ne conservava, caratterizzato da quella sorta di "calamismo" nostrano che fu proprio della scuola di Rivara e, in Firenze, di quella di Staggia. Una maniera, questa alla A. Calame, dalla quale furono attratti a quei giorni anche 0. Borrani e il Signorini (che parla di quest'argomento nel suo ricordo di E. Rayper), e di cui uno dei tramiti per il F. poté essere giustappunto il Gastaldi. Nello stesso tempo viene ad affermarsi nel pittore l'ascendente del Pollastrini che si può oggi datare con sicurezza, grazie al recente ritrovamento di un'opera tipicamente pollastriniana: l'Elisabetta regina d'Inghilterra (cfr. Contributo a F., 1994, fig. 2); un quadro finora noto solo dalle fonti e di cui sappiamo con certezza che fu compiuto dal F. alla fine del 1855. L'ascendente puristico agirà da questo momento sul F., seppur con accenti più personali, fino alla Maria Stuarda al campo di Crookstone (Firenze, Gall. d'arte moderna), un quadro tratto dall'Abate di W. Scott, cui il pittore attenderà, ma ormai fra molte incertezze, dal 1859 al 1861.
Qualche novità di grande rilievo era infatti intervenuta frattanto nella carriera dell'artista in mezzo agli entusiasmi e alle illusioni della seconda guerra di indipendenza: la "macchia". Era, la "macchia", una nuova concezione della resa luminosa del dipinto connessa con la poetica naturalistica e, dopo il ritorno di S. De Tivoli, D. Morelli e S. Altamura dalla Esposizione universale di Parigi del 1855, fattasi centro delle discussioni artistiche del caffè Michelangiolo. Una nuova ricerca espressiva e una nuova tecnica della pittura che sono per la prima volta sperimentate dal F. proprio in questo momento. "Venne il '59 - egli scrive - e dal '59 fu una rivoluzione di redenzione patria e d'arte: la "macchia"". I fatti sono noti: l'arrivo alla fine di maggio del corpo di spedizione francese condotto in Toscana da Girolamo Napoleone Bonaparte consentiva al pittore (che in occasione dello sbarco del contingente a Livorno non aveva mancato di trovarsi nella città natale) di accompagnare quei pittoreschi reparti di zuavi e di turcos lungo la strada che essi, via Lucca-Pistoia, percorsero fra due ali festanti di popolo fino a Firenze; e di dipingere, una volta giunti i soldati a destinazione, una serie di memorabili piccole impressioni a olio sulla base degli appunti presi durante il viaggio e dei rapidi schizzi disegnati al Pratone delle Cascine, dove i Francesi rimasero poi accampati per circa un mese. Queste impressioni costituiscono, unitamente ai due album di disegni riempiti dal F. in quelle settimane, un punto fermo nella storia della "macchia"; anzi ne rappresentano, sul piano dell'arte, la nascita vera e propria. Perché, superando d'un balzo quel che di programmatico inficiava ancora le prime ricerche in tale campo esperite da C. Banti, V. Cabianca e T. Signorini, il F. giunge d'istinto con questi suoi studi a una nuovissima e sorprendente soluzione espressiva rispetto a quella fin qui praticata dagli altri e dal Signorini, poi da quest'ultimo rifiutata, come "macchia violenta di chiaroscuro e non altro", in vista di "un realismo migliore".
Di questo "realismo migliore", premessa tangibile fu indubbiamente la suaccennata scoperta del F.: quella sua tarsia luminosa capace di rendere i volumi e le lontananze non più col chiaroscuro tradizionale, ma attraverso una delicata giustapposizione di macchie di colore retta dal "tono", dal "valore" e dal conveniente "rapporto" di queste variabili (come poi, teorizzando, si scrisse); e tale da fare uscire insensibilmente, e con un nitore tutto "puristico", da queste tessere luminose, il reticolo disegnativo m virtù del quale viene a definirsi compiutamente la struttura visiva e per dir così la sostanza stessa dell'immagine. La scoperta del F., ignorata in questa sua aurorale funzione negli scritti dei due artisti che furono i più attivi fautori sul piano teorico della "macchia", A. Cecioni e T. Signorini, fu invece immediatamente percepita nella sua sostanziale novità dall'occhio acutissimo di Nino Costa durante la visita che questi ebbe a fare, come accennato, al F. nel suo studio di piazza Barbano: una visita che grazie all'acume e al generoso calore del pittore romano segnò l'inizio di un sodalizio fra i due artisti ritenuto dal F. di importanza determinante per la sua carriera. si trattava in effetti per il F. di un sentimento in tutto nuovo della pittura, che mentre portava rapidamente l'artista, dietro la calda sollecitazione del Costa, a lasciare il quadro storico in costume e a cimentarsi in opere di storia e attualità contemporipea, a dar vita insomma alla prosa robusta e severa dei suoi grandi quadri militari, per l'altro gli consentiva con la pregnanza e la vivacità del suo contenuto e la felicità stessa del suo estrinsecarsi di avvertire con un istinto infallibile il filo più autenticamente poetico del proprio destino di artista.
Basti pensare, da questo punto di vista a quell'esito squisitamente pittorico che, alle soglie dellacarriera del F., è il ritratto della Cugina Argia (1861; Firenze, Gall. d'arte moderna).
Era stata, per il F., occasione determinante dei propri inizi di pittore militare, la commissione che egli aveva ottenuto nel 1860 dal governo provvisorio toscano, della Battaglia di Magenta (Firenze, Gall. d'arte moderna), per effetto di una fortunata partecipazione al concorso bandito da B. Ricasoli sulla fine del '59 per quadri dedicati a personaggi ed episodi militaridelRisorgimento. Ma mentre egli attende con la massima diligenza alla esecuzione della vasta tela (m 2,32 × 3,48) compiuta nel 1862, e dei vari quadri di battaglia che le fanno corona e immediatamente la seguono (Garibaldi a Palermo 1860-61, la Carica di cavalleria a Montebello, Livorno, Museo Fattoriano, 1862, poi il Garibaldi ferito a Aspromonte, 1863, e il gruppo di studi intorno al Passaggio del Mincio e alle Fanterie italiane alla Madonna della Scoperta, 1864) una passione raccolta e intensa lo anirna senza sosta a profondarsi, come in un puro e quasi fanciullesco esercizio del senso, nei più reconditi recessi della propria vita interiore: un esercizio ininterrotto., cui le vicissitudini dell'esistenza sanno fornire nel loro alterno susseguirsi stimolo e materia. 1 giorni del F., infatti, allietati per breve tempo dal successo del concorso che gli consentiva di unirsi in matrimonio con Settimia, di compiere con lei (anche se solo nel '61) il suo "viaggio di nozze" sul campo di Magenta - come la commissione del quadro gli consentiva senz'onere di spesa - erano ben presto fimestati dall'inaspettato insorgere nella giovane donna di una affezione tubercolare così minacciosa da indurre l'artista prima a lasciare l'appartamento affittato in via del Maglio (dove fra l'altro egli aveva poco prima subito, per scambio di persona, una aggressione a colpi di stiletto), indi, nella primavera del '63, a rientrare prudentemente vicino ai suoi in Livorno, dove d'altra parte le convinzioni mediche del tempo lo confortavano a ridurre la moglie in ragione del presunto beneficio dell'aria marina; infine a studiare ogni via per affrontare senza soccombere una condizione di vita che il bisogno di continua assistenza da parte della donna veniva a rendere ormai difficilissima, così come il forzato doversi astenere, il F., per via di quella imperiosa necessità, dal frequentare Firenze. Ciò nonostante, come talvolta avviene, proprio attraverso una siffatta serie di vicissitudini, peripezie, inipedimenti, il F., avvantaggiandosi quasi della sua solitudine e del suo raccoglimento, giunse a toccare m questo giro di anni la pienezza delle proprie doti di artista. Nelle scene militari, per commciare, che acquistano proprio ora nelle sue prove di dimensione raccolta un'intensità lirica fin qui non mai raggiunta (Pattuglia di cavalleria, ex coll. Giustiniani, Artiglieri in manovra, coll. Jucker, Vedette, già coll. Sforni); poi nel ritratto, da lui molto coltivato m questa sua fase iniziale e con risultati, per forza di carattere e penetrazione psicologica, altissimi (la Prima moglie, 1864-65, Roma, Gall. naz. d'arte moderna; la Cognata, la Signora Mecatti, 1865, le Signore in giardino, l'Uomo seduto, il Sensale); poi ancora nel paesaggio dov'egli tocca fin da ora il vertice delle sue possibilità (Pasture, 1863; l'Arno alle Cascine, 1863; la Porta rossa, 1864 c., Casolari toscani, Accampamento di zingari, i Pagliai, Tetti e nuvole); infine in quelle sue tipiche scene della vita dei campi, di ispirazione idillica o elegiaca, dove il raccoglùrnento e la quieta operosità delle contadine sono avvertiti dall'artista come un corrispettivo della propria attuale disposizione di spirito (Contadina nel bosco, 1861; le Acquaiole livornesi, 1865; le Macchiaiole, 1865-66; i Costumi livornesi, 1866 c.). La vena severa, raccolta e malinconica di queste opere che si mantenne costante nella ispirazione del F. fino a quando, di appena trentun'anni, il 26 marzo 1867, Settimia venne a mancare, informa ora di sé la più gran parte della produzione dell'artista, e continua ad iniprontarla poco oltre, nelle due magistrali tele dei Cavalli in Tombolo e dei Buoi al carro (entrambe compiute in quell'anno) nonché nell'Assalto alla Madonna della Scoperta (1866-1868; Livorno, Museo Fattoriano). Ma, nonostante una siffatta continuità, c'è un momento, nel quale questa malinconia dei F. dà luogo d'un tratto, come in una luminosa parentesi, a un'ispirazione nuova e del tutto diversa: quasi che, per una sorta di naturale compensazione, le prospettive d'arte e di vita schiuse all'artista dall'idea della vasta tela dell'Assalto (da tempo vagheggiata ma solo ora resa attuabile dal concorso che il ministro D. Berti decretava nel luglio del 1866) abbiano la capacità, rinnovando in lui la speranza e i disegni della vita, di far trapassare un tal sentimento malinconico nel suo contrario: un inaspettato scoppio di felicità, capace di restituire al F. poco più che quarantenne il piacere della vita e il perduto contatto col mondo. Anzi le circostanze fan sì che per la prima volta, grazie al sodalizio di lavoro che si stabilì proprio in questo momento fra lui e il più giovane e disimpegnato G. Boldini, un tal mondo divenisse inopinatamente il "bel mondo": quello che nel corso dell'estate, intorno alle migliori famiglie della città, anima della sua elegante e variopinta presenza gli stabilimenti balneari. È questo il momento della Rotonda di Palmieri (Firenze, Gall. d'arte moderna) e delle tre tavolette che alla Rotonda strettamente si apparentano: la Signora con l'ombrellino, la Signora al sole, il Silvestro Lega sugli scogli; il momento della Punta del Romito, del Ritratto dellasignorina Siccoli (già Viareggio, propr. Rosselli), della Signora che legge, di Mare azzurro (già Firenze, propr. Giustiniani): di opere insomma che tutti ricordano come la più squisita, seducente, squillante produzione mai uscita dal pennello del Fattori. Lo spirito di queste opere, scabre e scintillanti, che si trasmette nel periodo immediatamente successivo ad altre, altrettanto perfette, ma di più tenera e delicata fattura, liriche purissime nate si direbbe in un solo battito del cuore (Tre impressioni in una giornata di pioggia, Contadina nel campo, Paese con cielo bianco, Case nella campagna livornese, la Torre del Marzocco, Contadini e buoi, Riposo di muratori), apre la via ai motivi che avranno il loro più ampio svolgimento nel periodo immediatamente successivo, quello che viene ad unire direttamente il F. alla cosiddetta scuola di Castiglioncello, al gruppo di artisti cioè (G. Abbati, R. Sernesi, O. Borrani, L. Bechi, E. Cecconi) che, ospiti nella vasta tenuta che Diego Martelli eredita nel 1862, qui prese a riunirsi ogni anno specie durante l'estate, e a discutere, e a ricrearsi, e a dipingere. A Castiglioncello il F. giunse per la prima volta nel luglio del 1867, da poco scomparsa la moglie, incontrando l'Abbati e il Borrani (il Sernesi era caduto l'anno precedente nel corso della campagna del '66). Egli, che sia pure indirettamente e a tratti, non aveva mai cessato di mantenersi in contatto con quegli amici, massime con l'Abbati ed il Sernesi, portò ora nel gruppo, unendosi a loro, il travolgente impeto di natura dei suoi Cavalli in Tombolo, il mite e vigoroso sentimento elegiaco dei Bovi al carro; ma soprattutto un magistero d'arte ormai pienamente raggiunto col suo gran quadro dell'Assalto giunto quasi a compimento, un'opera magistrale e altamente significante per il suo rispondere, nella grande ricchezza di motivi, a due esigenze vitali della personalità del pittore: il suo bisogno di partecipazione alla vita morale e civile del qroprio tempo, e il suo anelito di poesia. È pertanto comprensibile che il F., ultimo arrivato a Castiglioncello, acquistasse subito un posto preminente nella "scuola" molto coinvolgendo col suo esempio la personalità appassionata e meditativa dell'Abbati nonché quella cordiale e affettuosa del Borrani. Attratto, il primo, dal modo nel quale il F. affrontava lo studio dei bianchi "nella natura animata e specialmente nei bovi" (Martelli), e reso desideroso di sperimentare vicino all'amico questo suo prediletto motivo di studio; non meno sedotto, il secondo, dal suggestivo motivo del carro rosso e dei buoi, che diverrà poi motivo centrale nella sua Raccolta del fieno in Maremma, ma che egli fin d'allora introdusse in una sua magnifica prima idea, un singolare "taglio lungo" assai simile a quello che anche l'Abbati immaginava frattanto per un grande dipinto a noi noto solo, purtroppo, dalla descrizione che ce ne ha lasciata il Martelli (1952). Castiglioncello è nome così strettamente e intimamente legato a quello del F. che non è dato scrivere un profilo di lui senza un minimo di diffusione sull'argomento, vuoi per l'intrinsechezza che legò il pittore al nume tutelare del luogo, il Martelli (la personalità alla quale sul piano intellettuale e morale più d'ogni altra, durante l'intera sua vita, fu legato il F. nel corso di una invariabile amicizia, ben documentata fra l'altro da una seguitata e fitta corrispondenza), vuoi per i frequenti e prolungati soggiorni che a più riprese - conclusasi ormai con la morte dell'Abbati (1868) l'esperienza di una vera e propria comunità di studio e di sperimentazione in Castiglioncello - l'artista ebbe a farvi fino alla fine della vita, molto dipingendovi e molto traendone di motivi che restano inconfondibilrfiente suoi, dai piccoli ritratti di amici all'aperto, dei quali il Diego Martelli a Castiglioncello può considerarsi il prototipo (il Valerio Biondi, le Signora Martelli, Diego Martelli a cavallo, Signora all'aperto, Vallòspoli, Matilde Gioli e i suoi cani, Eugenio Cecconi che dipinge); ai suoi superbi piccoli studi di paesaggio (Pineta di Castiglioncello, le Botti rosse, Olivi sulla marina, il Ritorno dalla caccia); ai grandi paesaggi animati infine, dipinti, questi, di maggior respiro, ambientati sulla riva del mare o nel segreto del bosco (in particolare quelli dedicati al motivo dei buoi [la Raccolta del fieno in Maremma, 1871; Maremma, Riposo in Maremma] e quelli derivanti invece dal travolgente impeto di natura che spira dalla prima geniale visione dei Cavalli in Tombolo [i Tre cavalli bradi in pastura, 1872, i Cavalli bradi in Maremma, già coll. Stramezzi, le Criniere al vento, i Cavalli al pascolo, già coll. Ojetti, 1880]). Motivi che non solo riempiono di sé buona parte della produzione degli anni Settanta e oltre, ma che conferiscono a tale produzione non so quale esemplarità di moduli visivi che di decennio in decennio si trasmettono come "memoria poetica" agli anni successivi; mentre radicali trasformazioni di atteggiamento e di forma si vengono frattanto introducendo nella produzione dei pittore.
Già dagli anni intorno al 1870 l'arte del F. aveva lasciato avvertire i segni di una tale modificazione, attenta come si dimostra agli aspetti più concreti, quotidiani, terragni della realtà. E ciò in consonanza con il clima spirituale del tempo, tale quale patentemente traspare nei due giornaletti legati al gruppo macchiaiolo, il Gazzettino delle arti del disegno, apparso nel 1867 sotto la direzione di D. Martelli e M. Angeli, e il Giornale artistico, diretto invece da A. Cecioni con la collaborazione di T. Signorini e di S. Grita nel corso del 1873. Questo nuovo atteggiarsi dello spirito spinse l'artista per vie fino ad allora inesplorate dove la curiosità intellettuale, il caratteristico e anche il caricaturale prendevano talora il sopravvento su quella innocente e commossa trasposizione lirica d'ogni cosa che era stata tipica invece del periodo precedente, tanto da far talvolta prevalere l'intento polemico, ironico o descrittivo. O fosse effetto, sul piano personale, di quella ricuperata libertà di scapolo cui la morte di Settimia lo aveva inopinatamente restituito, o che, sul piano politico, il F. si venisse facendo sempre più partecipe della disillusione cui avevano dato luogo in ogni sincero democratico e in ogni patriota prima i fatti di Aspromonte e di Mentana, poi la guerra contro il brigantaggio, infine il mercato degli ideali del Risorgimento adulterati dai profittatori; o che infine, sul piano ideale, un siffatto atteggiamento fosse presso di lui accreditato da quella distaccata considerazione delle cose cui a quei giorni l'ideologia positivistica andava non senza clamore assuefacendo gli animi: sta di fatto che uno scetticismo intellettuale sempre più pronunciato si introdusse d'ora in avanti nella mente del pittore, mentre si radicalizzarono nel suo pensiero quei principi a sfondo anarcoide e da "libero pensatore" ai quali lo predisponevano la familiarità col Dolfi e il suo antico legame con la "Fratellanza artigiana" (il F. risulta iscritto al sodalizio fin dal '64), poi l'incontro con A. De Gubernatis, il primo amico in Firenze di M. Bakunin e il primo divulgatore fra noi del suo pensiero. Di qui il timbro massonico e anticlericale di non pochi atteggiamenti ed espressioni del F., documentati dalla corrispondenza e in particolare, per il periodo che qui interessa, da una lettera del 14 maggio 1876 diretta a G. Carocci.
Solo la frequentazione assidua del Martelli, al quale la sottile e coltivata intelligenza consentiva di vivere un analogo ordine di problcmi con ben altra sottigliezza speculativa, giunse a temperare nelle sue ultime conseguenze certe ingenue astrattezze del pittore, e a far sì che la funzione benefica cui lo scetticismo adempiva in questo momento nella vita morale e culturale del paese, sanandone la retorica e il pressappochismo, non fosse compromessa nell'amico pittore da certi eccessi ben chiaramente rivelanti quanto potesse riuscire poco confacente a una natura spiccatamente sentimentale come la sua una posizione del tipo di quella descritta. La quale, pur accompagnando il pittore come per inerzia fino alla fine dei suoi giorni, più che natura e carattere di giudizio, mantenne costante in lui, com'era da aspettarsi, quello di una irrisolta inquietudine, di una sempre risorgente manifestazione di odioamore mai sostanzialmente accettata nell'intimo; molto significativa, da questo punto di vista, la correzione che con bonaria ironia, in una sua lettera del 1º sett. 1895, il Martelli portava a un giudizio temerario del F. sulla personalità del Manzoni, del quale egli non sapeva persuadersi a divenire illustratore, temendo di comportarsi, facendolo, da "clericale ipocrita"; e che poi invece illustrò eseguendo per i Promessi sposi, poco dopo, una serie di disegni a carboncino (1895), come già aveva illustrato in precedenza con dipinti a olio, gouaches e acquaforti il Don Chisciotte del Cervantes, e come illustrò ancora con carboncini, nel 1902, la Divina Commedia. Sta di fatto che, per quanto gagliarda, preminente, e in luce fosse nella introversa personalità del F. la "sensazione" - questa funzione irrazionale in lui così altamente differenziata da sembrare a tratti un qualcosa di addirittura miracoloso -, altrettanto povera e in ombra costantemente si mantenne al contrario nella sua psiche la funzione intellettiva, il pensiero. Il quale sempre si estrinsecò nel F. fino alla raggiunta lucidità morale dei suoi ultimi anni in forme ruvide ed arcaiche. Il cuore, da sempre, per il F., era stata la più naturale integrazione del "senso"; e finché il sentimento aveva potuto soddisfare al suo ufficio di funzione complementare (ciò che si riscontra per tutto il corso degli anni Sessanta) ne era seguito quell'arduo equilibrio morale di cui l'arte aveva per prima beneficiato. Il sentimento era infatti nel F. subito dopo la sua capacità sensitiva l'istanza più ricca e articolata. Ma finalmente costretto, l'artista, dal progressivo cedere delle illusioni, a far ricorso al "pensiero", a una funzione cioè che per l'anomalo corso della sua giovinezza era rimasta finora così poco utilizzata da permanere in uno stadio pressoché embrionale, il pittore sembrò smarrire sulle prime il contatto con quella vibrazione elementare attingente il profondo che gli aveva consentito, solo per via di "senso", tutti i maggiori risultati artistici. Ne conseguiva (come sovente ha avuto occasione di rilevare la critica) un pericoloso squilibrio della personalità, quasi "sdoppiantesi", è stato detto, e in due piani incomunicabili s: da un lato quello più limitato e programmatico al quale lo conducevano le sue quasi infantili convinzioni di buon figliolo, di patriota e di uomo dabbene; la sua adesione al verbo naturalistico e al "verismo", nonché le sue comprensibili e giustificate ambizioni di cittadino-pittore; dall'altro il piano della sua autentica sostanza, la fiamma della sua vita, il cuore del suo cuore: la "pittura"; quel suo "selvaggio bisogno d'espressione e di canto" - per usare le parole di uno dei suoi più sottili e sensibili interpreti, il Parronchi (1964, p. 14) - che lo fa sconfinare da ogni convinzione intellettuale e programmatica; quel "senso di esistenza acutissima e calma" che è in lui il più profondo se stesso e che lo leva ai vertici della "lirica pura".
E per capire quanto poco i due piani accennati si identifichino con la distinzione, del tutto esterna, ma alla quale si fa tutt'oggi ricorso, dei grandi quadri di composizione da una parte e delle tavolette dall'altra, "prodotti d'obbligo e di mestiere" le prime, e "illuminazioni e tesori d'arte" le seconde, varrà porre mente al superbo volo lirico dell'Assalto alla Madonna della Scoperta e al passaggio che si compie nel F. da quest'opera poeticamente perfetta ai quadri militari subito successivi, da lui dipinti dopo la sua partecipazione alle grandi manovre di Fojano della Chiana: quelle manovre che dirette da Nino Bixio nell'estate del 1868 furono le prime dell'Italia unita. Qui il F. era stato vivamente colpito dalla quotidianità della vita del soldato, dai momenti non eroici di essa, da quel misto di sacrificio e di vigore che, nella particolare condizione di abnegazione e di disciplina imposte dal campo e in quella inconsueta forma di contatto con la natura, assume, così nel popolo come nei ceti dirigenti, una significazione sua propria e singolare. Ne uscirà un quadro, l'Accampamento di istruzione a Fojano, nel quale si disperde e si stempera l'afflato unitario e grandioso che era stato proprio dell'Assalto, dando luogo a una molteplicità e varietà di motivi, dove nella ingenuità quasi popolaresca dell'assunto lo spirito di osservazione nettamente prevale sulla emozione visiva.
Più che altro il F. si rivela attratto dalla qualificazione psicologica del "tipo", dal soffermarsi curioso e talvolta bonariamente ironico sulla peculiarità e sulla varietà degli atteggiamenti, dalla notazione coscienziosa di ogni minuto particolare realistico; in una parola dalla definizione del "carattere" della scena: il luogo, le divise, i finimenti, gli ufficiali a passeggio, l'ordinanza sugli attenti, i tamburi abbandonati, le tende fra gli alberi, le sentinelle impalate. Un gusto dell'aneddoto, questo, con quei soldati in riposo fuori dei ranghi: chi seduto intorno alle tende, chi bocconi sul prato, chi muovendo nei secondi piani per l'accogliente ombra del bosco, ricorrente d'ora in avanti, oltre che qui, anche m innunierevoli altri quadri di piccola e media dimensione dedicati ciascuno a uno dei vari motivi particolari. Una produzione che può far correr la mente a E. De Amicis ("i bozzetti" della Vita militare, pubblicati alla spicciolata dallo scrittore, erano stati raccolti in volume proprio m questo 1868); sempre che non si perda di vista la tempene etico-artistica della pittura fattoriana che, rispetto ai racconti del popolare scrittore, ha ben altro vigore e autenticità. Era, infatti, il gravoso dovere militare miposto, dalla leva un aspetto attuale della societa italiana dal quale la sensibilità morale del F. era specialmente toccata; anzi investita come si fosse trattato di fatto proprio e personale, configurandosi nel suo amino la disposizione di quel "buoni ragazzi, pronti a tutto sacrificare per il bene della patria e della famiglia" come un simbolico corrispettivo del suo spirito di dedizione. Riservato e pur pieno di allegria quale egli era stato nei suoi giovani anni, consapevole della propria intima ricchezza e noncurante delle difficoltà, gli pareva di riconoscere se stesso in quei bravi soldati. E a poco a poco in quel periodo il lavoro dei campi, i costumi dei contadini e della gente del popolo, la vita degli animali, lo stesso logorio della fatica analogamente si fanno per lui motivi di proiezione morale.
L'Accampamento di istruzione a Fojano, a noi noto purtroppo solo attraverso una fotografia ottocentesca (cfr. Durbé, G. F. e i suoi 20 ricordi dal vero, 1981, p. 31), apre la strada, nella produzione del F., a un tipo di quadro di vasta superficie dove dominanti, in virtù del genere di sollecitazioni or ora descritto, emergono i valori illustrativi. Nel '72, reduce da un viaggio a Roma, dove la malinconica forza evocativa dei luoghi e il carattere primitivo e pittoresco della popolazione lo aveva suggestionato, il F. concepiva quel suo Mercato di cavalli in piazza Montanara a Roma che, premiato alla Esposizione internazionale di Vienna del '73, egli poi sempre ritenne uno dei suoi dipinti meglio riusciti. Qui, la novità e la varietà dello spettacolo invogliano l'artista a riunire fra uomini, donne e animali non meno di ottanta figure, in una tela non sappiamo quanto grande (perché il quadro perdutosi col naufragio della nave che lo riportava in Italia dall'Esposizione di Melbourne è, anch'esso, noto soltanto da una fotografia) ma abbiamo motivo di credere di circa tre metri di base. Seguivano, per dire solo delle opere più significative, fra il '73 e il '77, le tre versioni note della Posta al campo (una delle quali premiata a Filadelfia nel '76), poi le due versioni del Viale animato (1880-81); indi la serie di scene della vita dei butteri, dei pastori e dei contadini che si susseguono dal 1882 al 1887, sulle quali avremo motivo di tornare.
Questi quadri molto amati dall'autore e fra i più ammirati, lui vivente, non hanno mai goduto di molta considerazione fra i più avveduti esegeti del F., né - lo si deve ammettere - del tutto a torto. Perché evidente, dal più al meno, risulta in ciascuno di essi una discrepanza talvolta sconcertante fra l'innegabile vigore di individuazione pittorica sparsamente emergente nelle singole figure e la concezione d'insieme; fra il carattere di ciascun personaggio e la prolissa definizione di troppi particolari. Le figure, coscienziosamente studiate una a una in disegni quasi sempre di accurata e fresca fattura ma che troppo spesso tradiscono la loro ragione strumentale, sono assunte nella composizione di rado dettata da una vera idea di insieme in modo siffatto da sembrar ritagliate; e tanto poco, come pittura, le figure vivono una con l'altra e con l'insieme del dipinto che in più casi il riguardante non riesce a persuadersi che tra loro intercorra una qualsiasi azione, nonostante gli atteggiamenti che in modo esplicito la dichiarano.
Non per questo è da sottovalutare l'importanza di questi dipinti; né solo come testimonianza di una partecipazione alla vita del proprio tempo che fu nel F. vivissima e di eccezionale sincerità e freschezza; ma perché essi restano pur sempre opera di un maestro e come tali si collocano fra i sintomi più attraenti e precoci di quel nostrano "verismo" che comincerà a dare in letteratura i suoi frutti maggiori negli anni ottanta, con le Novelle rusticane e i Malavoglia di G. Verga, e che - tipica forma italiana dell'ormai dominante naturalismo - prende giusto nel corso degli anni Settanta ad attingere i propri contenuti dalla viva realtà del paese, schiudendo in questo modo alla nostra cultura artistica, nonostante quell'insidia di miope regionalismo che istantemente minaccia il principio di "verità" (e il discredito che sovente gliene consegue), la via per farsi sul serio europea.
Sta di fatto che solo ora, grazie ad opere di questo genere e al tratto sorgivo e autoctono che le distingue, il F. cominciò a entrare nella considerazione dei suoi contemporanei e (in ciò favorito dall'eccentricità che gli era propria e dalla poco chiassosa ma ferma indipendenza dei modi) ad esercitare una non so quale attrattiva presso un gruppo di giovani che a partire dal 1872 egli prese a frequentare in casa di Francesco e Matilde Gioli e specialmente nella villa di campagna che i due coniugi possedevano a Vallòspoli presso Fauglia, poco lungi da Castiglioncello.
Figlia del marchese F. Bartolommei. uno degli uomini politici toscani più in vista, Matilde, grazie alle sue relazioni mondane, alla sua raffinata cultura e al suo garbo di scrittrice (ella ci ha lasciato fra l'altro un ricordo molto suggestivo del F.: Gioli Bartolommei, 1924), seppe dare alla sua casa una animazione di attualità culturale che non mancò di giovare al pittore, così come gli avevano da sempre giovato, da un tal punto di vista, l'amicizia di un Martelli, quella di un F. Martini, o di F. Bartolini, un apprezzato architetto pistoiese la cui moglie, Luisa Grace, di nascita irlandese ma delicata poetessa nella nostra lingua, era stata cara a G. Carducci.
Preso da questi suoi nuovi interessi, insieme con F. Gioli, E. Ferroni e N. Cannicci, tutti espositori di loro opere al Salon, il F. intraprese, fra il maggio e il giugno del 1875, un viaggio a Parigi, dove, ospite di F. Zandomeneghi, pare sia rimasto presso a poco un mese, traendone forse qualche suggestione - come si ricava da una lettera dello stesso Zandomeneghi inviata all'amico nel dicembre - ma non mostrandosi attratto più che tanto dalle vere novità del momento (o come qualcuno ha avanzato dal solo E. Manet), anzi dando segno nella corrispondenza col Martelli durante il soggiorno di questo a Parigi (1878-79) di una vera e propria idiosincrasia nei confronti della pittura di C. Pissarro e assumendo ancora nel 1891 una posizione decisamente: polemica verso un gruppo di allievi attratti da C. Monet e dal neo-impressionismo. Frattanto, grazie ai quadri che inviava a esposizioni nazionali e internazionali, il F. fu segnalato più volte con premi e diplomi che valsero ad accreditarne la fama di "forte verista": nel 1870 a Parma; nel 1873 a Vienna e a Londra; nel 1875 a Santiago del Cile; nel 1876 a Filadelfia; nel 1880 a Melbourne; nel 1887 a Dresda; nel 1889 a Colonia. Se questi successi risultano procurati più da ragioni estrinseche che non dal genuino talento del pittore, non per questo si deve pensare che le istintive doti di lui fossero in qualche modo compromesse. Il F. era troppo pittore per non percepire con un sesto senso quel che la "macchia" (nella accezione teoretica che fin dal 1868 Vittorio Imbriani aveva lucidamente attribuito alla parola, facendo tout court dell'unità di visione che essa comporta l'intuizione estetica) avesse significato per lui. Di questa unità, il F., non perse mai il senso. E valga qui a sincerarcene l'esempio del Muro bianco, che, nato come il Campo di istruzione dall'esperienza di Fojano, lascia benissimo intendere che non la realtà fenomenica delle manovre sta all'origine della sua invenzione ma la struttura segreta delle cose, quella prorompente, aggressiva e lancinante dinamica della realtà che la superba intuizione spaziale di questo capolavoro offre d'un lampo alla nostra immaginazione; illuminandoci anche, per questa via, sulla spinta emozionale che ben al di là di ogni motivo cosciente aveva portato il F. a Fojano, nel luogo cioè dove la severa necessità di quelle marziali esercitazioni gli avrebbe consentito di attingere dall'interno la vera consistenza di ciò che invece, nel movimentato disordine del Campo d'istruzione, risulta velato dalla curiosità intellettuale e dalla partecipazione morale. E se la poetica "veristica" non consentì al F. di rinunciare mai, in prosieguo di tempo, ai quadri compositi di scene militari e di vita popolare, sempre più intensa tuttavia si andò facendo in lui l'attrazione verso una sintesi visiva capace di cogliere di ogni cosa il senso profondo. Le quisquilie del quotidiano sono riguardate dal pittore, talvolta, con una curiosità tanto innocente da sembrare infantile. Eppure, nei suoi momenti migliori è come se l'intensità del proprio vivere interiore venisse a fare tutt'uno - per lui immerso e perduto in esse - con la vita stessa delle cose (si pensi, a proposito delle impressioni ricevute nel corso del suo viaggio a Roma del '72, ai Barrocci romani di Pitti, alla Sosta in Maremma già coll. Galli, e anche alla più impegnativa Campagna romana del Museo milanese della scienza e della tecnica). La fattura si movimenta insolitamente e si arricchisce nella materia. Non più quelle sobrie, magrissime campiture degli anni Sessanta, quella parsimonia di pigmento, quelle velature leggere scoprenti sovente, come in Abbati o in Borrani, la venatura della tavola, ma il giuoco spregiudicato e inaspettato delle forme (Ritorno dalla perlustrazione già coll. Carnielo, Pattuglia di artiglieria, gli Sperduti, Milano coll. Jucker), ma l'attenzione portata con ironia sulle possibilità della pasta a dar conto degli aspetti strani o paradossali di un esistere ormai sottratto alle care illusioni, ai troppo arditi voli della mente e del cuore (Cannone del 1870, Imboscata, Cavallo in corsa). Il singolare Autoritratto con la bombetta (1870 c.) dà l'avvio a questo genere di curiosità artistica, che investe una serie di piccoli ritratti rivolti solo, ora, alla disincantata e ironica osservazione della quotidianità (la Mamma in cucina, Maurizio Angeli che legge, Mirina Galiani). Analogamente nel paesaggio la veduta in lontano cede il passo all'esplorazione - nel bosco o in mezzo ai campi - di certi riposti angoli di natura cui gli animali, che divengono, in questi segreti recessi, sempre più frequente e variato oggetto di osservazione per l'artista, portano vita e significato. E quando alla fine del '76 egli cominciò ad applicarsi attivamente al Quadrato di Villafranca (Battaglia di Custoza), il suo quadro militare di maggior impegno portato a termine nel 1880, fu come se l'assunto che necessariamente lo obbligava a una concentrazione drammatica e a una sintesi visiva estreme gli consentisse di mettere pienamente a frutto l'ininterrotto e variato esercizio espressivo degli anni precedenti.
Il contenuto sentimentale è il medesimo che nei quadri di Fojano; ma proprio mentre cominciano ad affiorare nella fantasia del F. il sinistro motivo del soldato morto abbandonato ai porci (ripreso poi più volte) ed altri tragici temi sentenziosamente illustrativi dei "disastri della guerra", come nel 1879 lo Staffato (significativamente suggerito al pittore da R. Fucini) o lo Scoppio del cassone - quadri che sembrano ora interamente assorbire la sua vena patetica e descrittiva - qui, nel grande Quadrato, alla ricerca della definizione formale conveniente alla grandiosità severa e solenne della scena, il F. giunse con un geniale colpo d'ala alla potente e dinamica struttura della composizione e a un uso del colore - con quegli scorporati toni di pastello, quei pallori di affresco - che fa riflettere, come osserva E. Cecchi, su quanto il F. "avrebbe potuto nella pittura murale" (Pittura italiana dell'Ottocento, Milano 1938, p. 83); mentre il nero segno che anche qui, come presto nelle acqueforti, scolpisce contorni e movimenti, è appena un poco ravvivato con qualche povera tinta che crea una atmosfera sorda, bruciata: quella "reale atmosfera della violenza fisica e della guerra" che non a sproposito fa correre la mente, come infatti è avvenuto, ai nomi di Goya o di Tolstoi.
La tensione imposta al F. dalla esecuzione della vastissima tela (quasi sei metri di base) - peraltro gratificata, l'8 nov. 1878, dalla visita di Umberto I allo studio del pittore, indi, nell'83, dall'acquisto del dipinto per la Galleria naz. d'arte moderna di Roma (poco dopo che il re aveva assicurato alle collezioni di casa Savoia la Carica di cavalleria, 1878, oggi a Pitti) - si sciolse nel periodo immediatamente successivo per effetto di una personale gratificante vicenda che venne ad animare la vita intima del pittore. L'incontro cioè con una diciannovenne istitutrice tedesca a servizio in casa Bartolommei-1 Amalia Nollemberger, che il F., a quei giorni maestro di pittura di Isabella (la sorella minore di Matilde), prese ad amare teneramente, sedotto dall'ardore della giovane donna, suscitatrice in lui per tutto il periodo che li vide uniti, dall'estate del 1880 alla primavera del 1883, di una vena pittorica delicatamente idillica e affettuosa, che è dato riconoscere in molte piccole opere (la Sosta alle Cascine, le Coperte rosse, la Diligenza di Sesto, il Crocicchio di campagna) e anche in opere di maggior respiro come le due già ricordate versioni del Viale animato. La relazione con Amalia, documentata da una fitta corrispondenza (di lei il F. ci ha lasciato anche un ritratto come Ciociara), diede inizio a una fase della carriera dell'artista caratterizzata da una attenzione più intensamente rivolta alla propria vita intima e ai momenti più originali e creativi della propria personalità. Tre sono i luoghi cari alla fantasia del F. che rimpiazzarono nella sua immaginativa la campagna fiorentina, quella livornese e perfino Castiglioncello: e cioè in primo luogo la tenuta della Marsiliana nella Maremma di Grosseto, dove nella primavera del 1882 il F. fu ospite del principe Tommaso Corsini e dove ebbe il primo approccio con paesaggi di quell'estremo lembo meridionale della Maremma toscana e con quelle scene animate della vita dei butteri che costituirono da allora in poi un vero capitolo a parte della sua produzione; poi Varràmista, una terra presso Castel del Bosco in quel di Pontedera, dove un discendente dei Capponi imparentato col Corsini, il marchese Paolo Gentile Farinola (che ospitò il pittore anche nella sua villa di Casignano presso Scandicci), aveva una sontuosa dimora estiva, e dov'egli, a contatto con la quotidiana operosità di contadini, amministratori, casieri, trecciaiuole ed altri famigli, rinnovò di pianta il modo di concepire un ritratto o un paesaggio; infine il Mugello. Qui, in San Piero a Sieve, lo allietava sovente il soggiorno nelle due ville medicee delle Mozzete, anch'essa dei Corsini, e di Schifanoja, proprietà invece dei Cambray-Digny; e in San Godenzo l'ospitalità dell'amico Gustavo Pierozzi che egli incontrò anche a San Casciano in Val di Pesa (come del resto alla villa "Le Corti", il Corsini). Luoghi tutti, questi, ed altri che ad essi si collegano, dove il F. fu indirettamente condotto da una pratica necessità: quella di arrotondare con delle lezioni private le sue entrate perennemente insufficienti. Sebbene infatti gratificato fin dal 1869 dalla nomina di professore corrispondente della Accademia di belle arti e attivo come insegnante presso l'Istituto dal 1876, egli non giunse mai ad avere un vero e proprio ruolo organico all'Accademia, nemmeno quando, nominato nel 1880 professore onorario di pittura, divenne assistente del titolare G. Ciaranfi nell'insegnamento della figura e fu qualche tempo dopo aggregato alla scuola di architettura (l'incarico formale è del 1888), mai giungendo peraltro a percepire compensi se non irregolari e irrisori, perfino quando nel 1893 - dunque a 68 anni - divenne titolare di quell'insegnamento che egli esercitava di fatto da lungo tempo. Avvalendosi della consuetudine di ogni buona famiglia fiorentina di completare l'educazione delle giovinette con la pratica della pittura, egli giunse infatti nel corso del nono decennio del secolo ad acquistarsi la benevolenza della più distinta nobiltà fiorentina, in ciò facilitato dai suoi titoli, e forse anche dall'essere stato nel 1877 insegnante del principe Eugenio Napoleone Bonaparte; ma soprattutto - è da credere - dalla amicizia che lo legava al Martelli e alla moglie di F. Gioli, Matilde. Questo nuovo genere di contatti esercitò sull'artista sessantenne (il suo volto a quei giorni ci è familiare dall'Autoritratto degli Uffizi, 1884) una positiva e stimolante influenza, nel senso di schiudere alla sua sensibilità i limitati confini di una concezione del mondo - qual era quella dell'ambiente da lui finora frequentato - fondata su una veduta ristrettamente etico-politica e ideologicosociale della realtà, tanto più intollerabile per il F. ora che quel ceto borghese emerso dalla Rivoluzione e dal Risorgimento cominciava a dar segni manifesti di quella opacità, di quell'egoismo, di tutti quei limiti ideali, insomma, che lo contraddistinsero, all'approssimarsi dell'età umbertina e durante questa. Con sorpresa, e quasi vergognandosi, il pittore scopriva di giorno in giorno che quella aristocrazia tanto avversata non era poi così abominevole come l'opposizione politica l'aveva dipinta; che, a parte certo sussiego e smanceria del costume, essa mostrava nei singoli, umanamente considerati, innegabili qualità non foss'àltro che di cuore e di quieta dedizione all'operosità quotidiana; che nei suoi gusti e nelle sue predilezioni essa sovente era più vicina agli artisti di quel che non lo fosse l'arricchita e pacchiana borghesia costituente l'ala democratica del paese. Considerazioni, queste, che lo conducevano, in una sua lettera al Martelli del 21 febbr. 1886 a ritenere l'"aristocrazia di casta" addirittura l'unico "elemento" degno di stima nel paese, insieme con l'"aristocrazia dell'ingegno" (cfr. Lettere a Diego, 1983).
Non che con ciò il F. si distacchi dalle sue convinzioni e dalla sua poetica. La coscienza delle sue doti di "minuto osservatore del vero", tenute da lui non senza compiacimento per le sue migliori, non cessava punto d'imporgli l'obbligo morale di farsi illustratore della vita del proprio paese nelle sue "nianifestazioni più varie". "Lo studio per me dell'arte attuale - egli scrive - sta nelle manifestazioni della natura e nell'illustrazione sociale del nostro secolo sia per costumi, abitudini, sofferenze, ed altre cose, anche politiche, che Varte mandi ai posteri la nostra storia moderna..." (cfr. Opinioni sull'arte [1904], in Scritti autobiografici..., p. 69). Così egli regolarmente dedica ai costumi contadini ed alla vita dei butteri quei suoi quadri di grande dimensione che sono la continuazione ideale del perduto Mercato di cavalli a piazza Montanara. Ne apre la serie in questo decennio la Marcatura dei puledri datata bensì 1887 in occasione della sua esposizione a Venezia per l'appunto quell'anno, ma concepita nell'82 ed eseguita probabilmente poco dopo. Seguono in ordine di tempo il Mercato a San Godenzo in Mugello (Firenze, Gall. d'arte mod.), esposto a Roma al principio dell'83 (non nell'82 come si è detto talvolta) col titolo Una fiera di bestiame; e quello che può considerarsi un suo pendant per fattura, dimensioni e ambientazione, cioè il Salto delle pecore. C'è poi il Carro rosso, coll. Giustiniani, datato 1885; poi la Maremma di Pitti, sempre dell'85; e finalmente, nell'87 il Riposo di Brera.
Eppure, nonostante il persistere nel pittore di queste sue convinzioni, il salto di qualità che è dato avvertire nei due quadri ultimi ricordati, la Maremma e il Riposo, ci apre gli occhi sull'approfondimento e il distacco introspettivo che le nuove abitudini di vita avevano frattanto concorso a operare in lui. Come meglio di chiunque altro è riuscito a fare intendere Oscar Ghiglia (1913) - che fra gli allievi del F. è indubbiamente quello più dotato di sensibilità e giudizio estetici - vivissima fu sempre nel maestro la capacità di annullare il proprio "io" di fronte al prorompere del fantasma interiore. Per l'appunto la monografia di Ghiglia, che per impostazione critica, scelta di opere, eccellenza di stampa resta a tutt'oggi l'opera più attraente mai apparsa sul F., ci fa capire quanto meravigliosa fosse in quest'ultimo la capacità di raffigurare ogni cosa nell'immediato momento della sua propria significazione, nella sua luce, in quell'aspetto improvviso e imprevisto che specificamente la caratterizza, senza mai frapporre fra l'oggetto e la commozione né l'ombra di un ragionamento né "l'esperienza scanzafatiche del mestiere". "Invece di adattare le cose alla sua tavolozza, alle comodità della sua visione passata, egli adattava immediatamente se stesso e i suoi mezzi alle nuove cose" con la più palpabile aderenza all'oggetto, "rompendo ogni abitudine, tentando di essere perfettamente diverso com'è diversa senza fine la realtà... Fattori sapeva rinnovarsi a ogni istante... e sfuggiva così, grazie alla sua istintiva umiltà, dinanzi alle più umili cose, al pericolo della stilizzazione...".
Il linguaggio delle acqueforti, che proprio in questi anni cominciano a divenire per il F. una applicazione tenace e prediletta, "quell'incastro di piani improvviso, a scontri e quasi impennate", per usare le parole di Ragghianti (1953, p. 39), "quelle sagome ridotte a poche forme e contorni essenziali, sensibili, incisi, come scavati", quell'insieme di caratteri, insomma, volti a strutturare potentemente e dinamicamente l'immagine, nasce da un siffatto atteggiamento di spirito. Questi caratteri inconfondibili già presenti dagli anni Sessanta nella quasi barbarica ruvidezza di dipinti come la ricordata Porta rossa, e pressoché costanti nel F. maggiore, sono qui, nelle acqueforti, come decantati e trasposti in una sfera di magico rigore formale cui danno un singolare accento di verità l'estrema varietà, finezza, morbidezza del segno sempre teso a caratterizzare l'infinita diversità degli effetti suggeriti all'occhio dalla frappa, dalle erbe, dai sassi, dalla pelliccia degli animali e dalle movenze loro e a sottolineare certe inaspettate insorgenze di scoppiante, fresca, delicatissima vitalità. Ché, proprio in questi anni, si manifesta nel F. quel sempre più sottile differenziarsi del contrasto così acutamente osservato da M. Marangoni (G. F., in Rivista di Livorno, III [1953], 4, pp. 1-6), fra "la nota maschia e quasi rude" dell'arte e "i tesori di grazia e di delicatezza che vi sono così largamente profusi". Nota inoltre il Marangoni come nel Viale alle Cascine il fascino della tavolozza sia "ravvivato e come sostenuto dal contrasto tra la delicatezza dei toni e l'energia con cui è posato il colore".
Sono "le scarse e robuste pennellate ravvivate e mosse da svelte e fresche lumeggiature più luminose e leggere", egli dice, che riescono a darci la sensazione "frusciante e ariosa del fogliame". E a proposito del Buttero: "...chi lo vedesse nella riproduzione con quel piglio maschio e accigliato, con quella impostatura solida e quadrata dalla modellatura energica e rude non ne sospetterebbe mai le raffinatezze coloristiche ... fondo verdone, giacca castagnochiaro, panciotto azzurrognolo, cravattone cremisi: tonalità già così varie ma anche ... raffinate e fissate con la fermezza degli smalti". Anche in questo caso a determinare il carattere della figura è il contrasto fra la quadrata testa del buttero e l'armonioso mosaico coloristico; il giuoco delicatissimo dei rosa dell'incarnato, "sul quale si annidano due occhietti umidi di un celeste chiaro come polla, e fiorisce una barba incanutita, soffice, ariosa ... rosa, celesti, bianchi, a raddolcire la fiera testa leonina, dove si palesa la forza selvatica e l'anima infantile di questo figlio della Maremma...". Questi tocchi molto felici vanno al cuore dell'ispirazione fattoriana nel periodo di cui qui si tratta: e cioè una istintiva e tenerissima partecipazione alla vita della natura, che non ha niente di idillico, che nasce anzi da una visione disincantata, rude e talvolta crudele del mondo naturale.
Questo è ora il vero Leitmotiv della produzione del F., il motivo che lo porta a vivere la sua nuova straordinaria avventura di artista: punteggiata dapprima dalle veloci impressioni raccolte alla Marsiliana (Testa di puledro, i due bozzetti per la Marcatura dei cavalli, Prateria, Principio di una burrasca, Cavalli alla greppia); indi dall'attrazione in lui maturatasi specie a Varràmista e a Casignano per il significato profondo della fatica dell'uomo e del logorio del lavoro (l'Aratura, i Battitori a correggiato, le Case di contadini di Pitti, Bambini nel viale, la Pazza, la Raccoglitrice di foglie, le Tre impressioni - dove compare per la prima volta lo Spaccapietre della celebre acquaforte); poi dal rinnovato interesse per il ritratto concepito in questi anni con una libertà di forme e una penetrazione psicologica non mai raggiunte finora con così distaccato disincanto (la Testa di contadino e il Ritratto di uomo, coll. Checcucci; lo Scialle rosso e il Contadino seduto, coll. Magnelli, la Trecciaiola toscana, la Rossa, il Profilo di donna bionda, coll. Galli); infine dal nuovissimo gusto del paesaggio e del paesaggio animato (la Libecciata, il Pagliaio, i Cavalli al sole). Sulla fine degli anni ottanta un tal linguaggio del F., scaturente da una sfera del suo essere quietissima e fervida ha momenti d'insolita e assorta sospensione acquistando ora, la sua pittura, una colorata, sonora quasi squillante pienezza di canto. Questo effetto di luminosità nettamente definita ed intensa caratterizza inconfondibilmente un gruppo di opere del quale fanno parte la Testa di contadina e i Buoi del Museo di Livorno; il grande Viale alberato con buoi e spaccapietre, Nel bosco all'ombra e il bellissimo "taglio lungo" dell'Uliveta, già appartenuti a M. Galli; la stupenda Stradina al sole, coll. Jucker; la Veduta di paese, coll. Magnelli; l'Uliveta a Careggi, coll. Borgiotti. Fra i paesaggi animati l'Uomo nel bosco, forse poco più tardo; fra i ritratti quello dei Bersagliere, i due di Frate e pur nella sua maggior sobrietà e non so quale piglio di "caratteristico" quello della Seconda moglie; fra i quadri militari, il volgente e quasi cinematografico Ritorno della cavalleria (1888). Pure, di tutte queste opere, due sono quelle alle quali il pensiero ricorre come a due punti di quasi simbolico riferimento: il già ricordato Riposo di Brera (1887) e il Ritratto della figliastra (1889). Il primo, una sintesi di stupefacente semplicità dove l'artista sembra accogliere in un punto come di trasognato incantesimo quanto da lui moralmente e poeticamente acquisito nel contatto con la vita elementare e selvaggia della Maremma; l'altro, il ritratto della ragazza, "questo volto pulsante di vitalità animale sotto l'epidermide tesa", esprimente attraverso fl nero brutale dei capelli, delle pupille, del nastro "che emergono così crudi dalla calata lattea delle trine sgualcite" (Marangoni, ibidem) la seduzione in lui invincibile del "tangibile", dei "sensuale", del "corporeo".
Né questa polarità di contrari viene meno nel momento immediatamente successivo, peraltro di assai diversa ispirazione, quando col grande quadro dei Butteri del Museo di Livorno è come se la nitidezza sonora del Riposo si sciogliesse nel mormorio severo di un mare biancheggiante di azzurri che. come il gran mare dell'essere, tutto percuote, ingloba e sommerge. La grandiosità solenne dei Butteri, dipinto nel '93, è ripresa l'anno successivo dal F. nei Butteri e mandrie di buoi in Maremma, già coll. Bruno, che, esposto nel 1895 alla 1 Biennale veneziana, fu dipinto contemporaneamente al celebre Autoritratto già coll. Giustiniani, nel quale l'artista si raffigurò a sessantanove anni nell'intersecato ma pur calibrato disordine del suo studio, in atteggiamento meditativo e leggermente ironico, coperto dalla sua caratteristica "biritullera". Il brontolio sommesso che si leva dal vasto e singolare monocromo dei Butteri viene ora ad improntare di sé tutta una parte della produzione del F., che pur permanendo insidiata nei temi più tragicamente illustrativi da un patetismo che, come nel Cavallo morto del 1903 continua a distrarre l'artista dalla sua più autentica vena, pure raggiunge talvolta, attraverso l'osservazione dell'impassibile e crudele lavorio della terra, il necessario distacco dell'arte (Mandriana trascinata da un bove infuriato, c. 1900). Il F. prese ad avvalersi sovente per i suoi fini espressivi, anche in quadri di grandi dimensioni, del pastello (il Cavallo bianco e la Campagna maremmana di Pitti; l'Incontro fatale, già Ciardiello, c. 1900; le Manovre di cavalleria, della Biennale di Venezia del 1901) e di una tecnica insolita dove il carboncino, il pastello, l'acquarellatura assumono un'importanza primaria. In opere come i Bovi nel padule già coll. Sforni, come il Pro patria mori, e l'Adua, dopo la battaglia, entrambe passate per la Biennale di Venezia, rispettivamente nel 1901 e nel 1903, come l'Affogato, coll. Rosselli, 1904, o l'Hurrah ai valorosi del Museo di Livorno del 1907, questa tecnica mista rende effetti grafici estremamente suggestivi che richiamano sul piano, non solo tecnico, quelli delle acqueforti.
Interessante è il lavoro di acquafortista del F. che cominciò a incidere abbastanza tardi, non prima si direbbe del contratto da lui firmato con la Promotrice fiorentina per la sua Carica di cavalleria il 6 marzo 1883 e della pubblicazione dei suoi 20 ricordi dal vero (Pistoia 1884).
Si conoscono di lui 200 lastre, delle quali 166, non mai biffate, furono ristampate in 50 esemplari da P. Benaglia nel 1925 ricorrendo il centenario della nascita dell'artista. Nel 1958, in occasione del cinquantenario della morte, pochi esemplari ancora se ne ristamparono per iniziativa della Calcografia nazionale, destinati alle collezioni pubbliche con l'aggiunta di undici lastre trascurate dal Benaglia. L'importanza delle acqueforti per l'arte del F. non sarà mai abbastanza sottolineata. A parte il livello quasi sempre molto alto di ciascuna di esse, grande, per unità di ispirazione, è l'omogeneità del vasto complesso che ignora del tutto gli alti e bassi non infrequenti nella produzione fattoriana: come se nelle acqueforti tutti i contrasti e le aporie di una personalità così varia e contraddittoria siano definitivamente risolti a un superiore livello. Proprio grazie a questi caratteri, le acqueforti del F. si inseriscono con una voce loro, estremamente originale, in quella atmosfera di naturalismo crudele e pessimistico che, sullo scorcio del secolo, caratterizza di sé tanta parte della produzione artistica e letteraria europea: da Zola a Verga, da Čechov a Maupassant, da Degas a Toulouse-Lautrec, fino alle prime opere olandesi di Van Gogh.
Nel 1903 il quasi popolare segretario generale della Biennale, A. Fradeletto, annunciava in una sua lettera a F. Gioli che "papà Fattori, vera anima di vero artista" sarebbe stato presente a Venezia, alla quinta edizione dell'ormai affermantesi esposizione internazionale; e dava così prova, con la festosità di questo suo accenno, della considerazione di cui il F. ormaì godeva anche negli ambienti ufficiali; ciò che emerge d'altra parte anche dalla stampa. La quale, da più parti, prendeva a interessarsi dell'opera dell'artista livornese, pur volgendo la propria attenzione (perfino un V. Pica), non per l'appunto agli aspetti della produzione dell'artista che eminentemente ne costituiscono la grandezza. Richiestone via via da U. Ojetti (e per lui da C. Raffaelli e P. Bacci), da D. Angeli, da O. Roux, da A. Franchi il F. tracciava a più riprese nei primi anni del Novecento fitte pagine di memorie autobiografiche. Ad Angeli che gliene fece richiesta inviò anche, subito dopo l'avvenuta morte di C. Banti (1904), notizie circostanziate relative a lui e al movimento dei macchiaioli, notizie utilizzate poco dopo da U. Matini per una conferenza sull'artista (C. Banti e i pittori macchiaioli, Firenze 1905).
In questi ultimi anni, galvanizzato dall'attenzione che si cominciava a prestare al suo lavoro, il F. si dimostrò particolarmente attivo, anzi infaticabile. Non solo fu quasi regolarmente presente alle Promotrici e alle varie mostre nazionali che periodicamente si susseguirono in Italia, ma continuò a inviare i suoi quadri, quasi sempre di grandi dimensioni, anche alle esposizioni internazionali, a cominciare dalla Biennale di Venezia cui partecipò regolarmente. Nel '96 espose a Berlino, nel '97 a Dresda, nel 1900 a Monaco e a Parigi (alla Esposizione universale), ottenendo riconoscimenti e premi (in quest'ultimo caso come acquafortista).
Nominato membro della commissione per l'indirizzo artistico della Calcografia nazionale, egli, dal 1901 al 1905, fu sovente a Roma ivi richiamato da questo suo ufficio. La morte di Nino Costa, il 31 genn. 1903, lo condusse ai funerali dell'amico in Pisa. Il 12 ag. 1904 assistette alle celebrazioni per il centenario della nascita di F. D. Guerrazzi. Nel settembre del 1905 fu in viaggio a Padova, Verona, Mantova, Bologna.
Trascorse per lo più i mesi estivi a Livorno in compagnia prima della seconda moglie, Marianna Bigazzi (da lui sposata il 4 giugno 1891, dopo una convivenza di otto anni, per facilitare con questo atto formale il matrimonio della figliastra Giulia con un pittore uruguayano di nome Domingo Laporte che, presa in moglie la giovane donna e avutone un figlio, la condurrà seco, qualche tempo più tardi, a Montevideo); poi dopo la morte della Bigazzi, avvenuta il 1º maggio 1903, con una amica di lei Fanny Marinelli, che, sposata dal F. il 12 maggio 1907, anch'essa gli premorì il 3 maggio dell'anno successivo. A Livorno fra il 1893 e il 1896 aveva impartito lezioni di pittura alla figlia del noto stampatore G. Civelli (poi andata sposa a un Ginori) nella villa che la famiglia della ragazza possedeva in Antignano. A quel momento, come si ricava da una corrispondenza recentissiniamente pubblicata da V. Quercioli (in Contributo a F., 1994) con un'altra sua allieva, Adele Galeotti (futura madre di Emilio Rasetti, l'illustre fisico collaboratore di E. Fermi nello storico gruppo di via Panisperna), era cominciata nella vita del vecchio pittore quella sorta di familiare consuetudine con le sue giovani e giovanissime allieve, che assicurò alle sue giornate momenti di singolare e serena vivacità di spirito: la Galeotti, appunto, una Olga Argenti, una Decolli, una Giotta. Con la Galeotti dipinse sul Trasimeno; con Enedina Pinti fu nel settembre del 1904 a Bauco presso Frosinone (Isola del Liri); e, nel luglio del 1905, a San Rossore, ospite questa volta dei genitori della ragazza che possedevano una villa a San Piero a Grado; con Anita Brunelli, cui scriveva nel 1906, si augurava di dipingere sul mare a Livorno. In quel periodo frequentavano il suo studio fra le altre allieve anche le future spose di A. Spadini, Pasqualina Cervone, e di E. Cecchi, Leonetta Pieraccini.
Morì a Firenze il 30 ag. 1908, assistito dall'allievo G. Malesci che l'artista aveva nominato suo erede universale. Il 1º ottobre gli furono tributati solenni funerali.
Nel corso della sua lunga carriera di insegnante il F. formò numerosi e notevoli artisti fra i quali giova annoverare - accanto al già ricordato O. Ghiglia - P. Nomellini, M. Puccini, G. Micheli, U. Pichi, R. Panerai. Ruotarono intorno a lui G. Bartolena, L. Levi (Ulvi Liegi), R. Gambogi, G. C. Vinzio, F. Fanelli, F. Pagni, Silvio Bicchi. Inoltre passarono per il suo studio G. Pellizza da Volpedo, molto legato a Nomellini e a Micheli, e, allievi di quest'ultimo, L. Lloyd, G. Romiti, M. Martinelli e lo stesso Amedeo Modigliani. Da ultimo, con la sua Pasqualina, anche Armando Spadini, che proprio con una lettera di raccomandazione per D. Angeli, di pugno del maestro, si insediò a Roma nel febbraio del 1908.
Fonti e Bibl.: La raccolta più completa delle fonti inedite relative al F. (lettere, documenti e corrispondenze di terzi) è disponibile, in trascrizione diplomatica dattiloscritta, presso l'Archivio dei macchiaioli in Roma.
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