FERRERO, Giovanni
Nacque il 17 maggio 1905 a Farigliano, in provincia di Cuneo, da Michele e da Clara Devalle, in una famiglia di contadini. Si trasferì in giovane età ad Alba, dove lavorò per parecchi anni come garzone pasticcere. Irruento, dotato di grande energia fisica e spirito di iniziativa, dopo aver acquisito una certa esperienza pratica del mestiere, nel 1935 impiantò, con pochi mezzi, un 1 attività di commercio all'ingrosso di generi alimentari. Fu solo a partire dal 1946 che l'attività professionale del F. si identificò in gran parte con la vita della Ferrero, l'azienda dolciaria costituita con il fratello Pietro nel maggio dello stesso anno.
Nato a Farigliano il 2 sett. 1898, Pietro precedette il fratello nella stessa professione sino ad aprire nel 1923 una pasticceria a Dogliani nelle Langhe. Spirito irrequieto, particolarmente portato alla sperimentazione nel proprio settore, dopo il matrimonio con Piera Cillario celebrato nel 1923, chiuse la pasticceria di Dogliani per trasferirsi prima a Torino e, poco tempo dopo, ad Alba. Per tutti gli anni Venti l'orizzonte produttivo rimase confinato negli spazi un po' angusti dell'originario negozio, anche se riuscì ad inserirsi, con inventiva e originalità, nelle commesse del Municipio cittadino. Nel 1933 acquistò una pasticceria a Torino, nelle vicinanze della stazione ferroviaria di Porta Nuova, ma gli effetti della grande crisi lo convinsero ad emigrare nella primavera del 1937 ad Asmara, in Eritrea, dove produsse panettoni che vendeva agli italiani stabilitisi nella colonia. Ritornò dall'esperienza africana nell'agosto 1939 ed acquistò un'altra pasticceria ad Alba, mantenendo il negozio torinese.
Verso la fine del secondo conflitto mondiale fu costretto a dismettere gli esercizi del capoluogo e a trasferirsi definitivamente nella cittadina cuneese. Contemporaneamente, continuò la sperimentazione per la produzione di cioccolato a basso costo, seguendo la strada già intrapresa dai negozianti dolciari torinesi durante il blocco napoleonico del 1806, quando il cacao era merce introvabile e costosissima ed era stato sostituito nella produzione della "pasta gianduja", facendo ampio ricorso alle nocciole tostate e ridotte in polvere. All'inizio del 1946 Pietro trovò finalmente la giusta proporzione, aumentando la percentuale di nocciole dell'impasto e sostituendo il cacao - introvabile nell'immediato dopoguerra - con burro di cocco e altri grassi vegetali. Favorito dall'ampia disponibilità di materia prima reperita nelle campagne circostanti Alba, nacque così il "giandujot", venduto a peso e avvolto nella carta stagnola, un prodotto dal prezzo assai basso rispetto al cioccolato vero e proprio: 600 lire al chilo di fronte alle 2.500-3.000. I primi impasti uscirono dall'originario laboratorio di via U. Rattazzi, dotato all'inizio di una impastatrice e una raffinatrice. Il basso costo del "giandujot", il desiderio della gente di poter disporre di un prodotto dolce a prezzo minimo dopo le privazioni degli anni di guerra ne decretarono l'immediato successo: i 3 q. prodotti nel febbraio 1946 salirono a 53 nell'aprile per giungere a 1.111 nel novembre dello stesso anno. Alla fine del 1946, con una produzione ormai stabilizzata sui 1.000 q. mensili e una manodopera cresciuta nel corso dell'anno da 12 ad una cinquantina di operai, l'azienda si trasferì in via Vivaro, in un capannone di 5.380 m2.
L'allargamento delle dimensioni aziendali fu il preludio ad una diversa organizzazione commerciale. Appoggiandosi alla società di commercio all'ingrosso di generi alimentari costituita dal F. nel 1935 e giovandosi dell'esperienza maturata sul campo, il "giandujot" non venne venduto solamente ad Alba, ma fu proposto in tutto l'Albese. Contemporaneamente, il successo ottenuto in altre regioni dell'Italia del Nord, in particolare a Milano, suggerirono al F. la creazione di una rete commerciale propria dell'azienda, saltando i grossisti e vendendo direttamente il prodotto ai negozianti, secondo le tecniche della "tentata vendita". Così, il parco automezzi dell'azienda passò da 12 unità nel 1947 a 154 nel 1950; in un primo momento la Ferrero affidò le proprie vendite a dei rappresentanti, pagati a percentuale; successivamente, nel corso del 1947, assorbì completamente l'organizzazione commerciale, gestendola direttamente. La capillare diffusione del prodotto in tutta Italia e l'estremo favore incontrato determinarono una costante crescita dell'azienda. Nel dicembre 1947 con un centinaio di addetti furono prodotti 2.852 q. di "giandujot", per un totale annuo di 25.530 q.; nel novembre 1948 si raggiunsero i 5.500 q., nonostante una disastrosa alluvione che causò danni per un centinaio di milioni di lire e comportò la sospensione della produzione per qualche giorno, mentre la manodopera superava ormai le 200 unità.
Il 2marzo 1949 scomparve, prematuramente, Pietro. Da quella data sino al 1957 la Ferrero, strutturata come società in nome collettivo, venne retta dalla moglie di Pietro, Piera Cillario, dal figlio Michele e dal F., con una sorta di divisione del lavoro probabilmente non codificata ma abbastanza precisa: Michele si occupò della parte produttiva e il F. della commercializzazione. Gli anni Cinquanta furono un nuovo periodo di forte espansione dell'azienda: 15.800 q. di dolce prodotto nel dicembre 1950 salirono a 30.000 nell'ottobre 1957 per toccare i 47.000 nel marzo 1961, mentre la manodopera passò da 300 unità circa di inizio decennio a 2.730 unità nel 1961.
Alla "pasta gianduja" si affiancarono via via anche altri prodotti, quasi tutti destinati a grande successo. Nel 1949 venne lanciata sul mercato la "supercrema", antesignana della "nutella"; nel dicembre 1951 fu la volta del "sultanino", una piccola stecca di cioccolato, dove Michele sostituì il burro di cacao con il burro di cocco e la produzione mensile di "sultanini" passò, nell'arco di un anno, da 60 a 2.800 q. Nel luglio 1953 uscì il "cremablock", un cioccolato ripieno di nocciola di piccole dimensioni, venduto a 30 lire: i quintali prodotti furono 4.000 nel 1953, salirono a 48.000 l'anno successivo; infine, nel 1954 toccò alla "cremalba", un dolce composto da latte in polvere, burro di cocco, uova in polvere e zucchero, con 40.000 q. prodotti nello stesso anno.
L'aumento della produzione comportò un costante ingrandimento delle dimensioni aziendali, una accentuata divisione della produzione, elevati investimenti e un alto grado di meccanizzazione, con l'introduzione, in un primo momento, di macchine semicontinue e, successivamente, di linee composte da macchine continue. Già nel 1951 per la produzione del "sultanino" Michele aveva acquistato in Germania tre macchine del costo unitario di 80 milioni; nel 1953 per i compiti di programmazione e controllo venne messo in funzione il centro meccanografico.
Alla base del successo della Ferrero vi furono alcuni elementi essenziali, in primo luogo l'idea di far giungere ad una vasta massa di consumatori un dolce a basso costo, prodotto utilizzando ampiamente materia prima locale. e cioè le nocciole coltivate nell'Albese. I riflessi su questo tipo di coltivazione furono evidenti: i 3.730 q. prodotti dalla regione salirono a circa 24.000 nel 1953 per giungere a 53.700 nel 1961, 33.500 dei quali nella sola provincia di Cuneo. Già nell'immediato dopoguerra il F. aveva acquistato una vasta tenuta di noccioleto a Cravenzana nelle Langhe, dove aveva condotto diverse sperimentazioni e dimostrato le minori spese di conduzione per ettaro del noccioleto rispetto al vigneto, soprattutto la minore necessità di manodopera (100 giornate annue circa di fronte a più di 250). Si trattò, d'altra parte, di una produzione con un mercato sicuro: l'assorbimento di nocciole da parte della Ferrero passò da 40.000 q. nel 1951 a più di 60.000 nel 1962. Favorita anche da apposite leggi, la coltivazione del nocciolo si estese a scapito del vigneto, modificando così in profondità l'economia e il paesaggio agrario di una vasta area.
Il secondo cardine sul quale si fondò la crescita della Ferrero fu - come accennato - una invenzione propria del F., e cioè il meccanismo della "tentata vendita". Su un mercato potenzialmente ampio come quello nazionale (il consumo di dolci pro capite passò da 2 kg annui nel 1946 a 8,5 nei primi anni Sessanta e il settore dolciario registrò tassi di incremento annui vicini all'8% tra il 1957 e il 1963), e proprio per questo bisognoso di una penetrazione costante e capillare, la scelta del F. di saltare i grossisti e rivolgersi direttamente ai negozianti si rivelò ben presto vincente. Nel corso degli anni Cinquanta il parco automezzi della Ferrero passò da 154 a ben 1.624 unità.
Ma il mercato nazionale era anche - almeno nei primi anni del dopoguerra - un mercato particolare, con bassi livelli generali di reddito caratterizzati da alta propensione al consumo, indirizzato però su generi alimentari di prima necessità e solo in un secondo momento orientato su beni non propriamente voluttuari ma comunque non indispensabili.
Da queste constatazioni il F. ricavò la convinzione che l'azienda, a differenza delle altre imprese del settore che puntavano di preferenza su costose confezioni di lusso, doveva orientarsi verso un mercato di massa, puntando su "pezzature minime" da 10, 20, 30 lire, facendo contemporaneamente leva sull'elemento psicologico dato dalle caratteristiche di igiene e di elevata personalizzazione del consumo.
Infine, particolare fu il rapporto che si stabilì con la manodopera. Le caratteristiche stesse del processo produttivo e delle varie fasi della lavorazione, suddivise tra intensa meccanizzazione e aree di lavoro manuale, la concentrazione della produzione, almeno sino agli anni Sessanta, in alcuni periodi dell'anno, consentirono, da un lato, il largo impiego di manodopera femminile e favorirono contemporaneamente un ampio ricorso a contratti stagionali.
Ancora nel 1965 la Ferrero di fronte a 2.158 occupati stabilmente registrava ben 528 stagionali. D'altra parte, le esigenze dell'azienda si coniugarono perfettamente con quelle di un retroterra economico ancora ampiamente orientato verso il settore primario. La possibilità di stipulare contratti a termine, particolari turni di lavoro che lasciavano disponibilità di tempo libero da impiegare nel lavoro dei campi, una certa tolleranza nei confronti dell'assenteismo all'epoca dei raccolti, favorirono la formazione di un ceto di contadini operai che divenne una delle caratteristiche dell'Albese del secondo dopoguerra. Contemporaneamente, la forte crescita in termini occupazionali della Ferrero, che negli anni Cinquanta quasi decuplicò i propri dipendenti non solo ebbe riflessi nell'industrializzazione di Alba (nel 1961 la metà degli addetti all'industria lavorava nell'azienda dolciaria), favorendone la crescita demografica (gli abitanti della cittadina piemontese salirono da poco più di 16.200 nel 1951 a 28.800 nel 1971), ma contribuì a rallentare l'esodo dalle campagne di una vasta area dell'Albese. A fianco, si inserirono le realizzazioni sociali dell'azienda. Nel 1952 il F. promosse e finanziò, attraverso un Istituto per l'edilizia, la costruzione di case per i dipendenti; nel 1956 fece il suo ingresso in fabbrica l'assistente sociale e le problematiche del lavoro furono successivamente sviluppate in convegni e pubblicazioni; nel 1957-58 furono attivate, con autobus di proprietà dell'azienda, una serie di corse per il trasporto gratuito dei dipendenti dal paese di residenza al luogo di lavoro che riguardarono circa 900 addetti. Anche dopo la scomparsa del F. l'azienda continuò nella linea intrapresa: nel 1958 venne istituito l'Ufficio per la sicurezza del lavoro, nel 1961 il dopolavoro aziendale ed infine le colonie marine a Spotorno e montane a Valdieri. Il risultato fu la pace aziendale: le prime timide agitazioni operaie non si verificarono che nel 1959.
L'attività del F. comunque non si fermò alla Ferrero: nel 1952 avviò la Caffè Ferrero; nel corso degli anni Cinquanta fu tra i promotori dell'Uffione nazionale industrie dolciarie italiane, una associazione di categoria che riuniva le maggiori società del settore, come la Motta, l'Alemagna, la Venchi Unica e la Pavesi. Nel 1955 venne insignito del titolo di cavaliere del lavoro; nell'ottobre 1957 - pochi giorni prima della morte - l'assemblea dei sindaci dei Comuni dell'Albese lo nominò presidente dell'Ente Langa.
Il F. morì ad Alba (prov. di Cuneo) il 25 ott. 1957. Fu sostituito nella società dalla moglie Ottavia Amerio, proprio alla vigilia del definitivo decollo dell'azienda.
Nel 1958 la Ferrero costruì a Pozzolo Martesana, in provincia di Milano, un secondo stabilimento per la produzione degli sciroppi e delle paste da forno; nel 1960 si aggiunse l'impianto di una terza unità produttiva a Lauro in provincia di Avellino, per la lavorazione delle nocciole; ma soprattutto l'azienda perseguì con estrema decisione la via dell'intemazionalizzazione, diventando impresa multinazionale. Già nel 1949-50 la Ferrero si era segnalata a varie fiere internazionali, ma i primi tentativi di vendere all'estero avevano incontrato serie difficoltà e solo nel 1952 aveva iniziato ad esportare burro di cacao. Era del 1957 la decisione di costruire uno stabilimento in Germania, ad Allendorf, a meno di 150 km da Francoforte, dipendente dalla Ferrero GmbH, e di lanciare sul mercato tedesco il "mon chéri". Nel 1958 seguiva un'analoga operazione in Belgio con la Ferrero Belge, mentre nel 1959 veniva costruito uno stabilimento in Francia, vicino a Rouen, dipendente dalla Dulcea. Nella prima metà degli anni Sessanta erano aperte succursali per le vendite in Olanda, Gran Bretagna e Austria. A sanzionare, anche formalmente, la proiezione sui mercati esteri della Ferrero intervenne nel 1962 la trasformazione in società per azioni, anche se la maggioranza del pacchetto azionario rimase saldamente in mano alla famiglia Ferrero. La penetrazione commerciale sui mercati internazionali si rivelò fondamentale, anche perché il mercato nazionale, quantunque in espansione, non poteva ancora garantire la necessaria ampiezza per effettuare consistenti salti di qualità, con l'introduzione di economie di scala e diversificazione produttiva. Nel 1965 l'azienda con 52 miliardi di fatturato - dipendente per circa un terzo dalle vendite effettuate dalle consociate estere - aveva ormai superato la Motta e la Perugina e si proponeva come una delle aziende leader del settore dolciario italiano.
Fonti e Bibl.: Brevi note biogr. sul F. si trovano in F. Collidà, G. F., in Cuneo. Provincia granda, VII (1958), 1, pp. 48-50; su Pietro si veda C. G. Basso, Nel decimo annivers. della morte. P. Ferrero,in Gazzetta d'Alba,3 marzo 1959; sull'azienda la più completa ricostruzione è AEDA, Storia d'un successo. Ferrero la più grande industria dolciaria del Mec, Torino 1967 ma anche S. Musso Merello, Ferrero grande firma di Alba moderna, in Ponente d'Italia,ottobre-novembre 1963, pp. 2024; V. Castronovo, Imprese ed economia in Piemonte. Dalla "grande crisi" a oggi, Torino 1977, pp. 93-98; E. B., L'industria che ha portato il nome di Alba nel mondo: la "Ferrero",in Notiziario econ., XXXIX(1984), 1, pp. 28-33; R. Bosio, La Ferrero: le ragioni di un successo,in Rassegna, XI (1988), 21, pp. 33-39; S. Tropea, Una multinazionale fra le vigne: la Ferrero,in Piemonte vivo, 1988, n. 3, pp. 44-51; sull'impatto della Ferrero sull'economia albese, vedi G. Maggi, La "Ferrero" e l'Alta Valle Belbo. Spunti per una riflessione sull'impatto di una industria su una zona rurale dell'Alta Langa,in Alba Pompeia, n. s., XII (1991), 1, pp. 77-84; infine, sono da considerare alcune tesi di laurea: M. G. Rossotto, Lo sviluppo della Ferrero e dell'economia albese nel secondo dopoguerra,Univ. degli studi di Torino, Facoltà di magistero, a.a. 1970-71;V.Cortevesio, Alba e l'Albese dalla ricostruzione al "boom", ibid., Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 1980-81;R. Dellatorre, La formazione e lo sviluppo di un distretto industriale. Alba e la Ferrero,ibid., Facoltà di scienze politiche, a. a. 1989-90; sul settore dolciario un quadro d'insieme è in U. Collesei, L'industria dolciaria,Milano 1968, ad Indicem.