FINETTI, Giovanni
Figlio di Andrea di Giovanni, nacque a Venezia nel 1529.
Al pari del padre, che si laureò in diritto civile a Padova il 21 luglio 1516, il F. studiò legge nello stesso ateneo, addottorandosi, il 3 febbr. 1551, in diritto civile e successivamente in diritto canonico; tra i testimoni d'una laurea nel 1560 figura, infatti, come laureato in utroque. Forte della laurea patavina, il F. dapprima fu vicario a Brescia e giudice a Treviso, optando quindi per il libero esercizio dell'avvocatura a Venezia. Qui, infatti, si sistemò intorno al 1560 in una casa a S. Beneto con la famiglia: si era sposato, con tutta probabilità durante il vicariato bresciano, con la nobile bresciana Elena Albrizzi, dalla quale ebbe due figlie - Cecilia ed Emilia - e ben cinque figli: Giulio, Andrea, Camillo, Mario, Ottavio. Sollecito dell'educazione dei figli, il F. assunse come pedagogo il dotto milanese P.F. Spinola. Ma la tragica vicenda di questo (processato dall'Inquisizione, sarà annegato per eresia nel 1568), mise in difficoltà lo stesso F.: lo Spinola avrebbe mangiato pollo di venerdì proprio in casa sua, e sempre in casa sua, essendovi maestro dei figli, lo Spinola si sarebbe "fata la cena al modo di Germania". A questo punto il sospetto d'eresia investì il F. stesso; ma egli riuscì a scrollarselo di dosso esibendo, col conforto di testimoni a lui favorevoli, l'allontanamento dalla propria dimora del pedagogo una volta accortosi della sua eterodossia. Sicché l'incidente non intralciò il suo crescente prestigio professionale, che lo vide affermarsi fra i tanti "oratori" del foro veneziano con un'eloquenza - a detta dei contemporanei -nutrita d'"ingegno" argomentativo e di sapiente "artificio" espositivo alternante la "piacevolezza" con la "dignità" e la "gravità".
Lessico eletto, argute facezie, efficaci "figure" calamitavano, quando parlava (così, almeno, rammenta P. Matteacci, da lui avviato alla carriera forense), una vera e propria folla d'uditori, disposti, pur d'ascoltarlo, ad abbandonare le loro usuali occupazioni. Il F., così dei versi in suo onore, fu come il "musico" Orfeo: questi ammansiva, con la dolcezza della sua musica, le fiere; il F., analogamente, suscitando con la forza persuasiva del suo eccezionale "saper" e "riso" e "pianto", domava le "menti" più "altere".
Oratore di grido, dunque, il F., avvocato di successo nonché consulente ricercato per i suoi accreditati pareri legali. E fu la Repubblica anzitutto a ricorrere alla sua competenza. Donde la stesura del "parere" in merito agli "schiavi di Famagosta", fatto pervenire pure al papa e al re Cattolico, la valutazione a proposito della "controversia" col governatore di Milano per un caso d'estradizione, l'intervento in riguardo della "nave Gradeniga", il giudizio sul contrasto fiscale con Brescia, la scrittura sul "contrasto di competenza di foro col duca di Ferrara". E furono gli studenti patavini a rivolgersi, nel 1587, al F. perché - nel disputato diritto di precedenza che contrapponeva il collaterale P.E. degli Obizzi e il rettore dei legisti G.F. Lombardo - patrocinasse le ragioni del secondo. Non circoscritta, altresì, a Venezia e a Padova la fama del F., se Giovanni d'Austria lo voleva - ma egli declinò - proprio consigliere, se Enrico di Brunswick era da lui convinto ad offrire 6.000 "cavalli" alla Serenissima "per suspittione di guerra". Estimatore del F. Alberto di Baviera, presso il quale egli s'adoperò "per la tratta de' grani" destinati a Venezia. E a lui il F. fornì un parere relativo al contrasto col suo agente malversatore N. Stoppio. Stesa dal F. altresì l'orazione colla quale il duca, insieme con i figli Guglielmo e Ferdinando I accolse, nel loro "primo arrivo" alla corte monacense, gli arciduchi d'Austria Ferdinando, Carlo e Maria. Ed ospite del duca fu il F. I con la famiglia, mentre a Venezia infuriava la peste; un soggiorno, questo bavarese, durante il quale il F., interpellato da Alberto, gli presentò, il 20 genn. 1577, un meticoloso progetto iconografico, ove, in dodici "quadri", si proponevano allegorie atte a richiamare le qualità auspicabili nel principe e i difetti dai quali era opportuno lo stesso si guardasse. Un po' troppo concettosa e fumosa la figurazione suggerita dal F., sicché non risulta sia stata affidata all'esecuzione d'un qualche pennello.
Lucrosa per il F. l'avvocatura esercitata per circa un quarantennio continuatamente - salvo l'interruzione della parentesi bavarese - a Venezia, ché i suoi guadagni sarebbero ammontati a ben 200.000 scudi. là comprensibile che, accasate le figlie e sistemati i figli, si ritirasse dalla professione e sì compiacesse di frequentazioni letterarie, donde gli derivò, forse, l'accoglienza del 2 dic. 1601 nell'Accademia dei Ricoverati di Padova. Da tempo vedovo, ancora nel 1593 aveva accolto in casa sua, perché l'accudisse - ma i figli strepitarono trattarsi d'indecorosa passione senile - una nipote, Marina Finetti, anchessa vedova. Provvedesse costei soltanto al buon andamento domestico o tenesse anche, come protestavano i figli timorosi di scapitarne nel testamento, desti i suoi sensi, fatto sta che il F. non sentì, con lei in casa, il peso degli anni se, entrato negli "ottant'anni di... vita", vantando l'energia d'un cinquantenne in salute, la lucidità mentale d'un sessantenne intellettualmente attivo, non esitò, il 15 sett. 1608, a proporsi alla Repubblica per un'impresa meritoria di "laude". Quella, cioè, di procedere "alla espurgazione e regolatione di tutte le leggi" emanate lungo i secoli da palazzo ducale, che indubbiamente "innumerevoli", "soverchie", di sovente contraddittorie, costituivano (nel loro sedimentarsi, intrecciare, interferire, sovrapporsi), "disunite" e "smembrate" come erano, non già un insieme coerente, ma un coacervo "confuso", "immenso", "intrattabile", "rude", "arrugginito". Intento del F. realizzare - purché compensato da "signorile... retributione" - un globale riordino che sarebbe stato, assicurava, ben più efficace e organico del Corpus iuris giustinianeo a suo avviso non certo un modello.
Questo era, anzi, pesantemente criticabile per la deprecabile eliminazione degli "esordii alle leggi", le così bandiva "la intenzione de' leggislatori", per la biasimevole assenza d'un "ordine scientifico" nella selezione. A parere del F. quell'"antica regolatione" - per quanto affidata al "senno" di competenti giunsti - non meritava certo d'assurgere ad esempio: era "fosca, zoppa e monca". Motivo, per F., "di grande meraviglia che a tale sconcertata fabrica" si fosse prestato e si continuasse a prestare tanto credito, e si fosse, insisteva, su di essa "appoggiato e creduto indubbio e sicuro il governo de' secoli". Sin acrimoniosa l'aggressività del F. nei confronti del monumento della sapienza giuridica romana. Probabilmente in tanti anni di avvocatura aveva avuto occasione di scontrarsi con saccenti fautori del "gius cesareo"; e probabilmente ai padovani esegeti di questo contrapponeva l'equità veneziana.Vivo l'interesse suscitato dalla "propositione" del F. in Collegio, che incarica della relativa "informatione" Nicolò Contarini, il futuro doge, e Cristoforo Valier. E concordi questi nel ritenere la "proposta" d'ordinare "sotto conveniente fonna le leggi... disperse in molti volumi con molte confusioni et oscurità" degna del più pronto accoglimento. Sarebbe stata - garantivano i due - "opera ... di grande ornamento..: et di giovamento inestimabile"; e a "tanta impresa" non v'era "soggetto più sufficiente" del F. "per la gran cognitione ... della scienza legale", per "la intelligenza di molte scienze" e, soprattutto, per la "invecchiata isperienza di tutte le cose della città". Ma la successiva autorizzazione senatoria, per un sommarsi di circostanze (morì chi doveva farsi carico di promuoverla, non era più del Collegio Valier), tardò a venire. Correva, nel frattempo, voce che lo "stipendio" prevedibile per il F. fosse inferiore alle sue attese. Preoccupato questi, l'8 apr. 1609 scrisse al doge, facendogli presente che un'eventuale diminuzione della cifra sarebbe stata lesiva della sua "riputazione". Non si discostasse, quindi, il compenso dal "concetto" che la Repubblica aveva della sua "virtù" e dall'entità dell'impegno ch'egli s'assumeva. Sua determinazione - spiegava ulteriormente il F. - "primieramente descrivere ... il corpo intiero co' membri tutti ordinati in prospetto dello ammirabile regimento di questo felicissimo imperio" per poi, selezionate le "leggi individuali" e dispostele in successione cronologica, procedere ad un loro rigoroso raggruppamento "per materia", la cui consultazione sarebbe stata agevolata da un apposito meditato indice. Dopo di che - prometteva baldanzoso il F. - avrebbe realizzato "la fabrica di una biblioteca delle leggi della Repubblica con tanto isquisito ordine e meravigliosa bellezza" che il governo sarebbe stato fiero d'ostentarla ai "principi stranieri" come faceva con l'Arsenale, con la Zecca, con l'armeria del Consiglio dei dieci. A questo punto non v'era più motivo d'indugiare. Convinto, il Senato il 27 agosto deliberò d'"accettar la utilissima proposta" del F., "cittadino benemerito et di preclare et egregie virtù". Fatto proprio il giudizio sul "valore" professionale del F., già espresso da Contarini e Valier, lo incaricò ufficialmente di "disponer sotto certi capi con buon ordine tutte le leggi nostre sì che possino esser con molta facilità in tutte le occorrenze ritrovate". E, "per condurre a perfettione l'opera di tanto momento", si garantirono al F. lo "stipendio" annuo di 1.000 ducati e l'ausilio di due "coadiutori", i quali, da lui stesso "eletti", col "salario" di 5 ducati al mese, provvedessero alla trascrizione delle "cose da lui ordinate". Sede del lavoro dei F. doveva essere "l'anticamera della stanza de' confini della cancelleria ducale, dove gli siano portati i libri" di cui abbisognava. E sovrintendesse al riordinamento una commissione di tre senatori.
Ma proprio ora che aveva ottenuto le condizioni ottimali per l'impegno di "redurre in regola" la disordinata foresta della legislazione marciana, il F. venne abbandonato dalla salute. Un susseguirsi sempre più ravvicinato di malanni - e tra questi la "retention d'urina" - lo bloccò in casa. Un sollievo, per il suo corpo torturato, la morte, a Venezia l'8 apr. 1613, per "febre" e "chataro".
Fu sepolto nella chiesa di S. Cristoforo. ora non più esistente. È pure irreperibile a palazzo ducale il "quadro alla giustizia dedicato", già nella "sala", anche questa sparita, "degli auditori alle sentenze", ove figurava con addosso "un manto d'oro". E a ravvivarne, per lo meno per un po', la memoria - inclusa l'ombra dell'"affetto" per la nipote (questa gli aveva fatto da infermiera negli ultimissimi anni, sicché la "donatione" testamentaria, da parte del F., d'una sua "casa" nel Trevigiano con un po' di terra non pare ricompensa spropositata), cui, nel breve profilo del F., premesso nell'edizione da P. Matteacci, s'allude esplicitamente come a sbandamento dal debito "amore" pei "figli" - due figli del F., Mario e Camillo, ne pubblicarono, nel 1621, i Discorsi et corsi di penna, lasciati inediti dal vecchio avvocato. E i due curatori, dal momento che mescolavano ai testi paternì alcuni loro scrittarelli, approfittavano dell'occasione per figurare un po' come coautori. Incollatura di dissertazioncelle di vario argomento presenta un qualche interesse se adoperata come attestazione di quella che è la cultura d'un avvocato affermato nella Venezia dei secondo Cinquecento. E, quanto alle ambizioni speculative del F., pur nel loro velleitarismo di rimasticatura improvvisata e di Platone e di Aristotele, valgono pur esse ad attestare l'inclinazione tipica del filosofare lagunare, ad ibridare questi due massimi filosofi dell'antichità puntellando poi le traballanti risultanze con iniezioni di proclamata ortodossia cattolica e con asserzioni di pedestre generica saviezza. Né i Discorsi... risentono in negativo dell'inserito intervento dei figli - sull'"habitatione di te stesso", sull'utilizzo della "favola" in sede oratoria, sulla musica, sulla confessione del "reo", sulle modalità della pace cavalleresca - ché potrebbe benissimo essere sottoscritta dal F., salvo il testo sulla "primogenitura" - bollata come "cosa rea", ove s'avverte il risentimento dei due, non primogeniti, per la favorita posizione testamentaria, appunto, del primogenito.
Sintomatica, comunque, in questa edizione postuma, che raccoglie le sparse scritture e gli sparsi pensamenti di un F. con velleità d'autore, la non menzione del diritto romano. Laddove prima viene il legislatore, poi la legge (dal primo revocabile anche se dal primo emanata) e infine il giudice alla seconda "inferiore", uno spazio privilegiato ha, semmai, la consuetudine. "Fatta da tutti", questa è scritta non nei "libri" come le leggi, ma "negli animi". Se così è, vien da dedurre che per il F., la consuetudine precede gerarchicamente il diritto scritto, specie quello romano. Quanto al rapporto "principe" - consuetudine il F. non si pronuncia; non scrive insomma se quello può sopprimere questa o debba, invece, di fronte a lei arrestarsi riverente. Non trascurabili, infine, le dediche dei singoli brani dell'opera. Compaiono tra i dedicatari il ragionato ducale F. Lio, il segretario del Consiglio dei dieci P. Darduino, il segretario del Senato A. Dolce, F. Vico, figlio del defunto cancellier grande Domenico, il segretario del Senato Alvise Querini. Se ne può evincere che il F. abbia avuto rapporti particolarmente intensi con l'ambiente cittadino-cancelleresco e che dev'essere stato quest'ambiente ad essere interessato al riordino proposto dal F. per disporre - nella sua quotidiana attività - d'un maneggevole strumento di consultazione d'una legislazione gonfiatasi mostruosamente nei secoli.
Fonti e Bibl.: Rinviando a G. Benzoni, Un Ulpiano mancato: G. F., in Studi veneziani, n.s., XXV (1993), pp. 35-71, ci si limita ad aggiungere all'abbondante indicazione di fonti e bibliografia ivi precisata: Arch. di Stato di Venezia, Santo Uffizio. Processi, busta 21, 11 sett. 1567; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna, 2023/1; 2534/31-32; 2689/26; 3204/41; Ibid., Mss. Correr, 33 b 79/4, Mem. intorno alle fam. cittadine ven., c. 150r; A. Michiel, Oratione in morte di F. Terzo, Venetia 1579; G.B. Belavere, Rime..., Venetia s.d. (ma 1579-80 circa), p. 55; M. Foscarini, Della letter. veneziana..., Venezia 1854, pp. 32 s.; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni venez., Venezia 1824-1853, I, p. 164; II, p. 42; IV, pp. 90, 93; VI, pp. 59, 493; I. Striedinger, Der Goldmacher Marco Bragadino…, München 1928, pp. 114, 196, 197, 198, 200 (si nomina un Finetti che potrebbe essere, se non il F., qualche suo parente); G. Caniato, Introduzione, in G. Rompiaso, Metodo... delle leggi... appartenenti agl'illustrissimi Collegio e magistrato alle acque, Venezia 1988, p. 23; P.O. Kristeller, Iter Italicum, I, p. 309.