CONTI (Quintianus Stoa), Giovanni Francesco
Nacque verso la fine del 1484 a Quinzano d'Oglio, nei pressi di Brescia, da Giovanni, originario di Gandino, un paese del Bergamasco, e da Bartolomea Vertumia, di umile famiglia. Il padre, che insegnava grammatica a Quinzano, e "nelle lettere d'humanità portò concetto di eccellente" (Cozzando), fu il suo primo maestro (morì nel 1529). Passato nella vicina Brescia, il C. frequentò le lezioni di retorica di Giovanni Britannico e imparò il greco sotto Faustino Cinzio. Qui si segnalò, fra i suoi compagni di studi, per l'eccezionale disposizione a improvvisare e scrivere versi latini.
A questo primo periodo della vita del C. risale l'assunzione dei suoi soprannomi. "Quintianus" si spiega facilmente come la trasposizione latina del nome del suo paese d'origine, secondo la moda umanistica. Per nobilitare ulteriormente il soprannome, il C. afferma nelle Epographiae (IV, c. 109v) che i giovani suoi coetanei, sottoponendosi volentieri alle sue censure, lo avevano chiamato così in ricordo del "Quintianus" di Marziale (I, 52), "assertor" dei "libelli" del poeta contro un plagiario. Quanto a Stoa, è il C. stesso a raccontare con una certa enfasi, sottolineata da deliberate reminiscenze ovidiane, che la sua abilità poetica aveva suscitato tante aspettative "ut in ore omnium illud frequens esset Μουσωγ Στοχ, id est musarum porticus et testudo... nam, quicquid conabar dicere, versus erat" (Epogr., II, c. 51v).
Il padre lo inviò successivamente a Padova, perché vi studiasse diritto, ma il C. preferì ben presto ritornare a Brescia per continuarvi le sue predilette occupazioni poetiche. Questo avvenne probabilmente prima del 1503, anno in cui i biografi del C., dal Cozzando al Nember, parlano di un suo passaggio in Francia, a Parigi, per "farsi conoscere in paesi lontani" (Tiraboschi, p. 1532). In effetti il C. dovette abbandonare Quinzano "fastidito della natia povertà" (Cozzando), ma si diresse innanzi tutto a Pavia, forse per frequentarvi la locale, rinomata università.
Il fraintendimento del Nember (p. 21), che attribuisce al 1503 il trasferimento del C. a Parigi, nasce dal fatto che in quell'anno furono qui pubblicate le Odae tres ad Cardinalem de Roano. Ma "si rifletta che il Card. d'Amboise fu quell'anno in Italia, e non è inverisimile che lo Stoa, che abitava in Pavia città allora soggetta a' Francesi, gli offrisse ivi quelle Ode, e ch'esse dal Cardinale mandate a Parigi, fossero date alla luce" (Tiraboschi, p. 1532). Non ha perciò fondamento la fantasiosa invenzione dei biografi, che il C. sarebbe stato, in Francia, maestro del giovane duca di Angoulême, il futuro Francesco I, di cui avrebbe influenzato il gusto per la poesia, né tanto meno la sua discutibile designazione a una cattedra dell'università di Parigi, in cui sarebbe arrivato alla carica di rettore (così anche il Cosenza, ma già il Quirini, p. 167, avanzava serie riserve su questa notizia).
Nel 1503 il C. pubblicò a Pavia la sua prima opera erudita De accentu lib. I contra Quintilianum, seguita da un profluvio di altre, in prosa e in versi, in cui trattò, si può dire, ogni genere letterarioumanistico (solo nel 1503, sempre in Pavia, apparvero gli otto libri De Martis et Veneris concubitu, ispirati a Omero e a Reposiano, i dodici libri dei Diari, il De syllabarum quantitate epographiae sex, una specie di trattato di poetica con inflessioni polemiche e venature autobiografiche). Si tenne intanto in stretto contatto con l'ambiente della corte francese, e al re Luigi XII rivolse (tra il 1503 e il 1509) una Paraclesis elegiaca pubblicata a Parigi (s. d.) "qua hortatur ne adversam extimescat fortunam immo augustius perseveret" (Flamini, pp. 210-211).
Sceso Luigi in Italia, il C. raccolse il frutto delle sue adulazioni perché, quasi contemporaneamente, ottenne nel 1507 da lafredo Carli, fiduciario di Luigi per il Delfinato e governatore di Milano, la nomina a professore dell'università di Pavia, e dal re Luigi in persona la corona poetica, con diploma conferitogli in Milano il 14 luglio 1509, sia per le sue molte poesie, sia per l'Heraclea, bellumve Venetum. poema epico pubblicato in Milano (1509), in cui il C. esaltava la vittoria di Luigi sui Veneziani.
La data d'inizio dell'attività accademica (1507) non è sicura. Dai documenti ufficiali risulta che il C. insegnava effettivamente retorica e greco a partire dal 190. Il diploma poetico, pubblicato dal Quirini (pp. 159-61), mostra che Luigi fu indotto a conferirlo su certificazione dei vescovo di Autun, Giacorno Euraldo: con esso venivano concessi al C. i privilegi dei poeti "laureati" per tutte le terre dei suo regno e il ducato di Milano.Il C. non restò a lungo in Italia. Forte del favore di Luigi XII, passò in Francia nel 1512, seguendo i suoi protettori che si ritiravano di fronte alle armi spagnole. A Parigi pubblicò nel 1514 una trenodia in morte della regina Anna, scomparsa in quell'anno. Dalla sua affermazione "in Gallia publice professus sum" (Mirandorum libri XXX, Brixiae 1536, p. 21) Si ricava che egli tenne in Francia, quasi certamente a Parigi, pubblico insegnamento in questo periodo, studiando nel contempo astrologia, fisionomica e matematica (Rossi, p. 222). Nel 1514 pubblicò a Parigi, con dedica a Raymond Morlhon di Tolosa, la sua raccolta più importante, Christiana opera, che consta di sette componimenti principali, in parte già pubblicati a Pavia e Milano tra il 1508 e il 1510: Theoandrogenetis (sulla natività di Cristo), Theoandrothanatos (tragedia sulla passione), Theoanastasis (epillio in esametri sulla resurrezione), Theoanabasis (poemetto in esametri sull'ascensione), Theocrisis (tragedia sul giudizio universale), Parthenoclea, ossia "in Deiparae Virginis laudem oratio", Orphnilogia (prefazione all'oratio precedente).
Una certa originalità presentano le due tragedie polimetre Theoandrothanatos e Theocrisis, che riprendono tentativi precedenti di altri poeti come Bernardino Campagna, autore di un dramma (non pervenutoci) sulla morte di Cristo, e preludono ad opere quali il Protogonos dell'Anisio (1536). Si tratta di singolari ibridazioni crisfiano-umanistiche, ma composte in risonanti senari con pieno dominio dell'apparato poetico e retorico della scuola, che soltanto in pochi passi, innanzi tutto nei canti corali alla fine degli atti, si alternano con altri metri. La lotta con la difficile materia, che sembra opporsi alla forma delle tragedie classiche, fu avvertita già convenientemente dal coevo Scaligero (Poetices, p. 789), che lodava la tragedia del C. "quasi in materia quaesita volenti". Nel Theoandrothanatos l'arcangelo Michele, che recita il prologo, espone agli spettatori le premesse dell'azione rifacendosi ai modelli classici, ma per il contenuto il poeta si attiene affatto al terreno della tradizione medievale (un indizio ne è la religiosità di timbro spiccatamente popolare, che urta contro la ricercata magniloquenza formale del dotto). Lo sviluppo dell'azione è tale da far dubitare che l'autore abbia pensato alla possibilità di una rappresentazione. Nelle parole conclusive "ad lectoreni" il C. ritiene necessario scusarsi se non - ha raggiunto il culmine dell'altezza tragica, ossia l'artificiosità di Seneca (del quale egli riprende la predilezione per le situazioni cupamente drammatiche e per il macabro, la compiacenza dell'espressione eloquente e della metafora), ma ciò è accaduto per facilitare la lettura ad un pubblico giovanile. Se è possibile, ancor più carente di drammaticità è la Theocrisis. Anche qui l'arcangelo Michele espone il prologo; segue la rappresentazione escatologica, di nuovo con l'utilizzazione di tratti leggendari di ogni specie, in una eterogenea mescolanza di elementi pagani e cristiani. t rimarchevole che nella Theocrisis ilNigra abbia visto il modello di una rappresentazione popolare del Piemonte, il Giudiziouniversale del Canavese, sebbene non si possa parlare di imitazione ma piuttosto di numerose affinità con questa compilazione drammatica. Il Christiana opera fu ripubblicato a Basilea, nel 1542, dall'Oporino, con alte parole di apprezzamento per il Theoandrothanatos.
Che nel 1514 il C. facesse ulteriori sforzi per ingraziarsi potenti cortigiani di Luigi XII è dimostrato dalla Cleopolis, poemetto in esametri dedicato al dotto Antoine du Prat, governatore di Parigi. Contemporaneamente egli scriveva gli Orpheos libritres, per ingraziarsi il nobile milanese Giacinto Simonetta. Criticato e invidiato dagli italiani residenti in Parigi. anche per la sua iattanza, il C. fece ritomo in Italia al principio del 1515, seguendo Francesco I, vittorioso a Marignano. Presa dimora a Milano, fece stampare in Pavia i Threni in mortem Ludovici XII (1515) e ottenne da Francesco I di essere reintegrato nella sua cattedra universitaria pavese, da cui professò tra il 1518 e il 1521 (come risulta dagli Atti di quella università). Ma avendo i Francesi di nuovo perduto nel 1521 il dominio del Milanese, il C., privo dei suoi protettori, si trasferì a Brescia. Nell'agosto 1522 rivolse a questa città una domanda per aveme la cittadinanza (Nember, p. 34), circostanza da cui il Pagani (p. 559) ha dedotto, collegando questa con la testimonianza del Rossi (p. 261), che il C. sia stato invitato a Brescia nel 1522, insieme con il latinista Mario Nizzoli, dal conte Gianfrancesco Gambara perché gli insegnasse le lingue antiche. Il C. ottenne la cittadinanza di Brescia il 26 ag. 1522 e qui abitò a lungo, altemando la sua attività di pubblico lettore, come testimoniano le Orationes duae in Horatii et Plauti praelectiones (Brixiae 1534), con frequenti soggiomi a Villachiara, presso il conte Alfonso Martinengo, al quale dedicò il Quintus Curtius suaeintegritati restitutus (Venetiis 1537) e l'EncomiumurbisVenetiarum heroicis carminibus conscriptum (ibid. 1538).
A Brescia il C. era con certezza nel 1534 e nel 1548 (come risulta dai rispettivi codici degli estimi di quegli anni). Nella vecchiaia si ritirò a Quinzano, il paese natale, dove morì il 7 ott. 1557. Un ricco mausoleo gli fu eretto nella chiesa parrocchiale di Quinzano, di dove i suoi resti furono tolti nel 1580 e traslati in seguito nel coro della chiesa maggiore della pieve. Qui, nel 1714, fu costruito in suo onore un monumento ornato dei ritratti di Luigi XII e Francesco I, sul quale si legge ancora la lunga iscrizione commemorativa del medico Giovanni Gandino.
Il C. scrisse moltissimo: nella prefazione citata delle Epographiac (Venetiis 1519) si vantava di aver pubblicato più di seimila versi, e, superando l'antico Lucilio, di poterne scrivere ottocento in un sol giorno (molte sue poesie si trovano inoltre in raccolte miscellanee: Poemata aliquot insignia illustrium poetarum recentiorum, Basileae 1544; Carmina illustrium poetarum Italorum, Florentiae 1722). La fortuna delle sue opere, poetiche e in prosa, fu legata specialmente al gusto antiquario, inaugurato da Filippo Beroaldo e Battista Pio. Ciò nonostante fu ritenuto dai contemporanei uno scrittore "in multa et subagresti notitia literarum confragosus" (P. Giovio, Fragmentum trium dialogorum, in Tiraboschi, p. 1675) e annoverato "inter gloriosos nebulones et maledicos" (Giraldi, p. 74). Tale giudizio si è ripercosso fino ai nostri giorni: il Flamini (p. 217) lo ritiene "pallone gonfio di vento, glorificatore delle cose proprie e denigratore livido delle altrui", e senza negargli una certa erudizione (ma il valore scientifico delle sue opere dotte è dei tutto inconsistente, quando non cade in errori grossolani) gli contesta buon giudizio e retto discernimento (p. 219), come, del resto, notava lo Scaligero, che pure non ricusava la validità poetica di qualche componimento in versi (preceduto dal Giovio, che definisce il C. "poeta naturali furore pernobilis"). Del tutto negativo invece l'Ellinger (p. 322), che parla di "pedantesca poesia di occasione". Il critico più recente, il Cremona (p. 586) ritiene che le stravaganze lessicali e l'abuso di figure retoriche provochino una "dispersione vacua e stucchevole, a tutto danno della essenzialità", che d'altronde non è sorretta da profondità di ispirazione. Per cui non saranno da rimpiangere le commedie che, insieme ad altre opere, andarono perdute durante l'assedio e la presa di Pavia. Di quelle edite, oggi pressoché dimenticate, si legge il catalogo completo in appendice alla "Vita" del Nember, nel Guillon (pp. 671-72) e, integrato da un breveesame critico, nel Cremona (pp. 583-85). Esse furono in parte pubblicate dopo la morte dell'autore dall'amico Giovanni Planerio.
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