GIOVANNI FRANCESCO da Rimini
Figlio di Simone, nacque a Rimini in data imprecisata; è ricordato per la prima volta a Padova nel 1441, quando risulta tra gli iscritti alla locale fraglia dei pittori. In quella lista, dalla quale si desume il luogo di origine - "de Arimino" - e l'abitazione cittadina in contrada S. Antonio, egli compare già come "magister" (Fiocco, p. 1366). È probabile dunque che fosse giunto a Padova con un proprio bagaglio di esperienze, e con un mestiere appreso nella città natale.
Erede della cultura pittorica trecentesca, sostanzialmente fondata sul perpetuarsi di un gusto legato al linguaggio giottesco, nei primi decenni del Quattrocento Rimini si stava avviando a vivere una nuova stagione artistica, grazie al mecenatismo di Sigismondo Pandolfo Malatesta - suo signore dal 1431 - e alla presenza di maestranze provenienti da aree limitrofe, marchigiane ma soprattutto venete, che già dalla fine del secolo precedente avevano contribuito al rinnovamento della tradizione locale. Centro portuale e importante nodo di traffici, la città romagnola fu dunque luogo di scambi anche culturali, e, fin dalla sua prima formazione, G. ebbe modo di accostarsi a un linguaggio pittorico veneto-adriatico con il quale poté meglio confrontarsi trasferendosi a Padova, agli inizi degli anni Quaranta.
La presenza di G. in città in quegli anni è ricordata anche in altri documenti. Il 4 apr. 1442 Francesco Squarcione stimava due dipinti (non identificabili) di G., dichiarandoli pegno adeguato alla somma che questi doveva corrispondere a un certo Venerio Furlan (ibid., p. 1366).
L'11 febbr. 1444 il pittore padovano stimava un'altra opera di G., esprimendo un parere professionale sugli affreschi (perduti) eseguiti sulla facciata della casa del medico "magister Stephanus de doctoribus" (ibid., pp. 1366 s.).
Per la sua attività successiva fu fondamentale la conoscenza della cultura figurativa padovana così come si presentava nei primi anni Quaranta, arricchita dalle novità introdotte dagli artisti toscani presenti in città (in particolare da Filippo Lippi e, appena alla metà del decennio, da Donatello), e profondamente segnata sia dall'apporto dell'arte dei maestri veneziani (soprattutto di Iacopo Bellini e Michele Giambono), sia dalle esperienze sintetizzate dalla bottega dello Squarcione che, grazie anche alla preziosa raccolta di disegni e incisioni, tra ascendenze tardogotiche e aspirazioni rinascimentali costituì l'irrinunciabile punto di riferimento per molti artisti.
Al periodo circoscrivibile con certezza tra il 1441 e il 1444, ma probabilmente da estendersi ancora per un decennio, relativo alla permanenza di G. nella città veneta, o comunque a un momento immediatamente successivo, sono state ricondotte alcune opere improntate a un linguaggio artistico tipicamente padovano. Di matrice culturale tardogotica sono, infatti, la minuzia descrittiva riservata al prato erboso nella Crocifissione della Pinacoteca nazionale di Ferrara; le marcate espressioni dei dolenti dei due terminali di croce (Rimini, Pinacoteca comunale); i raffinati partiti decorativi e gli esiti tra vivarineschi e belliniani delle quattordici tavole, divise tra il Louvre, che ne possiede dodici, e il Museum of art di Columbia (SC), di autografia piuttosto discussa, raffiguranti episodi della vita della Vergine (Ressort, pp. 35-38).
Bisogna attendere però il 1459 per avere le prime opere certe tuttora esistenti di G.: a questa data, e sulla scena bolognese, egli si presentava quale portatore di un gusto "fiorentino", con il quale si relazionò sicuramente a Padova, e forse nella stessa Firenze (Padovani, pp. 11 s.).
Testimonianza, non provata, di un passaggio di G. nella città toscana sarebbe una Madonna col Bambino tra i ss. Antonio Abate e Giovanni Battista, affresco oggi staccato e conservato in una sala dell'Arciconfraternita della Misericordia di Firenze, ma un tempo parte integrante di un tabernacolo tuttora esistente in via del Campanile. Proprio quel linguaggio tra lippesco - la nicchia del trono - e goticizzante, nonché i forti richiami all'arte adriatica, insieme con un modo di trattare i volti, specialmente quello della Madonna, ritenuto tipico della pittura di G., hanno indotto a credere l'opera di sua mano (Vertova, p. 5) e appartenente a un periodo cui vanno riferiti anche la Madonna con Bambino di Baltimora (Walters Art Gallery), di provenienza fiorentina (Mason Perkins, p. 74), lo stendardetto a tempera su tela raffigurante una Madonna col Bambino (mercato antiquario), l'Adorazione del Bambino con s. Giovannino, conservata a Le Mans (Musée Tessé) e la Natività di Avignone (Musée du Petit Palais des Papes).
Infatti, in queste due ultime opere il richiamo allo schema compositivo delle Adorazioni di Filippo Lippi, destinate a committenti locali, è talmente evidente da rendere plausibile l'ipotesi di un soggiorno fiorentino di G., intorno alla metà degli anni Cinquanta. Al contempo G. mantenne intatti i riferimenti culturali veneti rifacendosi ad alcuni disegni di Iacopo Bellini, raccolti nell'album del Louvre databile tra gli anni Trenta e Cinquanta del Quattrocento (Padovani, pp. 5 s., 20).
Dal 1459 la presenza di G. è attestata a Bologna. Al 14 giugno risale, infatti, un pagamento per affrescare "la mità de la chapella di santa Brigida" in S. Petronio (Filippini - Zucchini, p. 90) insieme con Tommaso Garelli, che alla fine del maggio aveva sostituito i fratelli reggiani Bartolomeo e Iacopo Maineri.
L'opera si collocava all'interno di un progetto complessivo di rinnovamento della cappella, sovvenzionato dai cospicui benefici a essa trasferiti dal cardinale Bessarione a partire dal 1451. Tuttavia, la decorazione ad affresco venne con ogni probabilità soltanto cominciata, ma mai portata a termine, nonostante le proteste mosse da G. in una lettera (non datata) indirizzata ai fabbricieri di S. Petronio (Gaye, p. 245). Ancora oggi, sulle pareti che avrebbero dovuto ospitare l'opera di G., figurano infatti affreschi di epoca precedente; inoltre in un documento del 1470 si denunciava la sospensione dei lavori a causa delle gravi spese cui la fabbriceria stava andando incontro per gli arredi della cappella maggiore (Guidicini).
Al 1459 risale un'altra opera bolognese, la Madonna col Bambino, un tempo in una cappella di S. Domenico (forse sull'altare di giuspatronato della famiglia Pepoli) e ora nel museo annesso alla chiesa, sulla quale il pittore, datandola, si firmò "de Arimini".
Caratterizzata da uno schema compositivo volutamente arcaico, essendo modellata su prototipi medievali e concepita per soddisfare esigenze devozionali, l'opera, prima di essere ritagliata seguendo i contorni della Vergine e del Bambino, costituì con ogni probabilità lo scomparto centrale di un polittico dedicato a s. Domenico, verosimilmente composto anche da una predella con episodi della vita del santo, uno dei quali si è voluto riconoscere nella piccola tempera su tavola del Museo civico di Pesaro, ma di provenienza bolognese (collezione Hercolani), rappresentante la Cena di s. Domenico.
Non è escluso che G. abbia intrattenuto durante la sua attività un continuato rapporto di committenza con i domenicani. Prova ne sarebbe anche il S. Vincenzo Ferrer dell'Accademia di Firenze, proveniente dal convento fiorentino di S. Domenico del Maglio del ramo femminile dell'Ordine, ora interpretato quale ulteriore testimonianza di una sosta del pittore in terra toscana (Becherucci, p. 67), ora riferito a un momento di non molto successivo al 1455, data di canonizzazione del santo, e quindi precedente il soggiorno bolognese (Padovani, p. 12).
Vicine alla Madonna di S. Domenico sono anche quella di Lubiana (Galleria nazionale) e l'Adorazione del Bambino della Pinacoteca nazionale di Bologna, dove tanto i paesaggi che i modi stessi della composizione sembrano richiamare da un lato ancora la cultura figurativa di Iacopo Bellini, dall'altro, come si vede ancor meglio nella Madonna in collezione privata a San Benedetto del Tronto, una componente squarcionesca nel gusto per l'antico.
Nel 1461 G. eseguiva la cosiddetta Madonna Hercolani (Londra, National Gallery) firmata e datata, alla quale si avvicina molto, ancora per i tratti lippeschi, l'Adorazione del Bambino e i ss. Elena e Giovannino (Atlanta, High Museum of art).
Allo stesso periodo dovrebbero risalire anche i pannelli di predella, realizzati con ogni probabilità per una stessa, non identificata, pala d'altare con S. Nicola ferma l'esecuzione di tre giovani innocenti e S. Nicola e le tre fanciulle conservati a Parigi, rispettivamente, al Musée Jacquemart-André e al Louvre (quest'ultimo prossimo stilisticamente a un'altra predella, raffigurante un miracolo di s. Giacomo e conservata alla Pinacoteca Vaticana) e il Cristo morto tra la Vergine, s. Giovanni Evangelista e una coppia di donatori (Hannover, Niedersächsische Landesgalerie).
Altri documenti relativi agli anni bolognesi consentono di gettare luce su alcuni aspetti della vita del pittore che, il 18 nov. 1461, subiva una condanna per bestemmia, revocata l'anno successivo. Sempre rincorso dai debiti, fu costretto nell'arco di cinque anni a cambiare casa tre volte. Tra il 1460 e il 1464 la moglie Francesca dava alla luce i figli Carlo Maria, Matteo e Antonio (Delucca, pp. 133 s.).
Intanto, proseguiva la sua attività in S. Petronio.
Il 6 sett. 1462 G. poneva la sua firma nella cappella dei Notai dopo aver eseguito ad affresco i Ss. Antonio da Padova, Floriano e Lorenzo, tuttora in loco. Tra il maggio e il giugno del 1464 sono registrati alcuni pagamenti per i colori destinati alla realizzazione di una Vergine Annunciata, del Padre Eterno e di S. Petronio (ibid., p. 134). Tali immagini, che ornarono la seconda copertura provvisoria sopra l'altar maggiore durante i lavori di costruzione della chiesa, andarono distrutte all'inizio del Cinquecento, quando si diede avvio alla messa in opera della cupola.
Dal 1464 G. non risulta più documentato a Bologna. Non è dunque possibile stabilire se egli continuò a soggiornare in città, oppure se, già a partire da quel momento, o in una data assai prossima, avesse preso la strada per l'Umbria, alla volta di Perugia, dove però probabilmente non stabilì mai fissa dimora. In questa città ricevette comunque una commissione da parte di un tal Luca Alberto di Francesco, per il quale eseguì il trittico raffigurante la Madonna col Bambino e i ss. Gerolamo e Francesco, un tempo, ma non è certo se dall'origine, nella sacrestia della chiesa perugina di S. Francesco al Prato, e ora nella Galleria nazionale dell'Umbria.
Caratterizzata da una tendenza alla monumentalità delle figure, già propria della Madonna Hercolani, l'opera è il frutto di una meditata sintesi tra le esperienze gotico-rinascimentali padovane, tra Giambono e Squarcione, e quelle gotico-cortesi conosciute nel cantiere di S. Petronio. Vi si trova altresì una "spontanea adesione agli umori popolareschi" (Vertova, p. 6) così tipica di un gusto umbro-marchigiano cui G. sembra rifarsi, magari con l'intento di ottenere altre commissioni in una città, Perugia, dove, attratti dalla signoria di Braccio Baglioni, si erano recati non solo artisti provenienti dalla stessa regione, ma anche dalle vicine Marche e dalla Toscana. Nel 1461 lo stesso Filippo Lippi era chiamato in città a stimare gli affreschi di Benedetto Bonfigli nella cappella dei Priori, e nel 1466 apriva il cantiere del duomo di Spoleto.
Nonostante sia andata perduta la cornice originaria all'interno del quale trovava alloggio il trittico, si è tuttavia ipotizzato un coronamento con tre tavolette superiori, identificate nel Dio Padre che invia la colomba dello Spirito Santo e angeli (il cosiddetto Tondo Cook, caratterizzato da un peculiare, e altrove ricorrente, gioco di notazioni concrete e forzature astratte), nell'Angelo e nell'Annunciata, tutti conservati presso una collezione privata newyorkese.
G. morì nel 1470 (Cavazza, p. 166), probabilmente a Bologna e in miseria, al punto che Tommaso Garelli non riuscì a rivalersi sui suoi beni per saldare un vecchio credito (Delucca, p. 132).
Fonti e Bibl.: G. Gaye, Carteggio inedito d'artisti dei secoli XIV, XV, XVI, I, Firenze 1839, pp. 244-246; G. Guidicini, Cose notabili di Bologna, II, Bologna 1869, p. 371; C. Ricci, G. da R., in Rassegna d'arte, II (1902), 9, pp. 134 s.; F. Cavazza, Finestroni e cappelle in S. Petronio di Bologna, ibid., V (1905), pp. 165 s.; F. Mason Perkins, Altri dipinti di G. da R., ibid., XV (1915), p. 74; G. Fiocco, I pittori marchigiani a Padova nella prima metà del Quattrocento, in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, XCI (1931-32), pp. 1361-1367; L. Becherucci, in Mostra di Melozzo e del Quattrocento romagnolo (catal.), a cura di C. Gnudi - L. Becherucci, Bologna 1938, pp. 66-72; F. Filippini - G. Zucchini, Miniatori e pittori a Bologna. Documenti del secolo XV, Roma 1968, pp. 89 s.; S. Padovani, Un contributo alla cultura padovana del primo Rinascimento: G. da R., in Paragone, XXII (1971), 259, pp. 3-31; C. Ressort, Retables italiens du XIIIe au XVe siècle (catal.), a cura di C. Ressort - S. Béguin - M. Laclotte, Paris 1978, pp. 35-38; G. Romano - M. Ferretti, Opere di tarsie, in La basilica di S. Petronio a Bologna, II, Bologna 1984, pp. 269, 273 n. 3; E.M. Zafron, European art in the High Museum, Atlanta 1984, p. 33; F. Santi, in Galleria nazionale dell'Umbria. Dipinti, sculture e oggetti dei secoli XV-XVI, Roma 1985, pp. 35 s.; R. D'Amico, in La Pinacoteca nazionale di Bologna. Catalogo delle opere esposte, a cura di C. Bernardini et al., Bologna 1987, p. 64; E. Negro, in Dipinti e disegni della Pinacoteca civica di Pesaro, a cura di C. Giardini et al., Modena 1993, p. 41 (con bibl.); E.W. Rolands, New additions and proposals for the work of G. da R., in Paragone, XLVII (1996), 551-557, pp. 48-62; L. Vertova, Non è Verrocchio, in Antichità viva, XXXV (1996), 1, pp. 3-8; O. Delucca, Artisti a Rimini fra gotico e Rinascimento. Rassegna di fonti archivistiche, Rimini 1997, ad indicem; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIV, pp. 119 s.