MARENGO, Giovanni Francesco
– Nacque in Piemonte, nella diocesi di Alba, all’inizio del XVI secolo. Il luogo d’origine della famiglia, come suggerisce il cognome (attestato nelle varianti Marencus, Marengus, Marentius), era probabilmente Marengo.
I suoi studi non sono noti, ma si affermò come medico «fisico», cioè volto alla medicina pratica. Fu al servizio del patrizio genovese Stefano Grimaldi che, come padre adottivo e tutore del nipote Onorato, tenne la signoria del Principato di Monaco dal 1532 al 1561. Alla morte di Stefano Grimaldi, il M. ne scrisse e recitò l’elogio funebre (Oratio… in funere illustriss. viri Stephani Grimaldi, Monoeci habita anno 1561, Mediolani, F. Moscheni, 1561).
La notorietà del M. è dovuta al rapporto con Antonio Ghislieri, papa Pio V.
Può darsi che, come suggerisce Gualino (p. 416), la conoscenza tra i due risalisse a epoca assai anteriore all’ascesa di Ghislieri al soglio papale (1566): nella relazione scritta dopo la morte del pontefice, infatti, il M. ne espose le condizioni di salute a partire da una minzione di sangue risalente al 1555. Forse fu per consiglio del M. che nel 1561 Ghislieri, all’epoca cardinale, si recò alle acque termali della villa presso Lucca (ora Bagni di Lucca). L’ipotesi di una conoscenza giovanile potrebbe trovare conforto anche nel fatto che negli anni Quaranta il Ghislieri era stato priore nel convento domenicano di Alba e ulteriori contatti potrebbero esserci stati dal 1560, quando il cardinale ebbe anche la dignità di vescovo di Mondovì.
Dopo esser divenuto papa, Pio V si informava sull’attività del M., degna ai suoi occhi di considerazione sia dal punto di vista sanitario, sia da quello morale: come riferisce Mandosio, l’operoso e pio M. aveva salvato dal pericolo di morte molti poveri colpiti da morbi epidemici, prestando generosamente la propria opera senza cercare guadagno.
Secondo i medici della Curia romana, il pontificato di Pio V, che da anni era affetto da calcoli renali e vescicali («mal della pietra»), sarebbe durato poco; invece il papa mostrò nei primi anni del suo regno una discreta salute e una sorprendente energia. Nel 1569, avendo promosso a vescovo di Alessandria il suo archiatra A. Baglioni, il papa fece chiamare da Asti a Roma il M., che ebbe l’incarico di medico «segreto». Dalla fine di quell’anno il M. indusse il papa ad assumere una cura meno disinvolta della propria salute; un avviso del 17 dicembre riferisce che «il medico venuto da Asti per il papa, ha persuaso S. Santità a non far l’advento, né a digiunare come faceva», cosicché il pontefice «mangia carne, beve più del solito, et dorme la mattina più di quello faceva» (Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 1040, c. 198v). Ma frenare l’ascetica devozione di Pio V era arduo: nella quaresima del 1570 egli si diede nuovamente a rigorosa astinenza, giungendo a minacciare di scomunica il cuoco se avesse mescolato cibi proibiti nelle sue minestre. Subito si ammalò di catarro, a fatica curato dal M.; il medico aveva ben chiaro che non tanto con i farmaci, bensì mutando sistema di vita il papa poteva guarire; per di più il catarro influiva negativamente sui reni già sofferenti, creando un circolo morboso che sarà descritto con chiarezza nella sua relazione sulla morte di Pio V. Poiché non mancarono discussioni, si può vedere in ciò «un’autodifesa polemica» (Gualino, p. 420).
Ottenuta intanto, con le cure e con le esortazioni a una vita meno ascetica, la rapida guarigione del papa nella primavera del 1570, il M. mise a tacere le critiche e si guadagnò il rispetto del difficile ambiente della corte romana, tanto più che Pio V rimase in discreto stato di salute per un anno e mezzo. Ma quanto più il papa si sentiva in forze, tanto meno dava ascolto ai consigli del M. e degli altri suoi medici (M. Cassini, P. Foschi), tornando nella quaresima del 1572 ai digiuni che ne prostravano il fisico. Il «mal della pietra» si manifestò con violenza nel marzo di quell’anno e il papa ricorse a un rimedio che più volte aveva adottato in quelle crisi: il latte d’asina. Non sembra credibile che il M., seppur l’avesse fatto in passato, approvasse allora una simile cura, che infatti, pur dando sollievo a reni e vescica, fu dannosa per l’apparato digerente: Pio V mangiava sempre meno e quel poco non veniva digerito. Aggravatosi così lo stato di salute del papa, gli archiatri proposero una litotomia (operazione chirurgica affermatasi dal tempo del Libellus aureus de lapide a vesica per incisionem extrahenda di M. Santo edito a Roma nel 1522). A giudizio del M., tuttavia, l’intervento, pur atto a rimuovere la causa prima della malattia, sollevava forti perplessità a causa dell’avanzata età e della grande debolezza fisica del paziente. Il dibattito fu troncato dallo stesso papa, che rifiutò l’operazione per una ragione del tutto diversa: la verecondia gli impediva di lasciare le proprie parti intime alla vista di medici, chirurghi e infermieri. Non solo: contro l’inutile resistenza del M. e degli altri archiatri, egli volle partecipare alla processione alle Sette Chiese il 21 apr. 1572. Lo sforzo fu fatale per un organismo così debole e Pio V morì il successivo 1° maggio.
Con voto quasi unanime i cardinali elessero il M. medico del conclave, preferendolo ai docenti della Sapienza. La sua relazione sulla malattia e morte del papa (De Pii pont. max. morbo quo obiit), inviata al cardinale G.A. Santoro il 22 giugno 1572, fu giudicata già all’epoca il resoconto più dotto e più completo degli avvenimenti.
L’autografo fu conservato nell’Archivio segreto Vaticano; dal viceprefetto dell’Archivio, G. Bissaiga, ne ebbe notizia il Mandosio più di cent’anni dopo; trascorso un altro secolo, il testo fu integralmente pubblicato all’interno del secondo volume di G. Marini sugli archiatri pontifici (1784). Nel descrivere lo stato di salute del pontefice nel corso degli ultimi vent’anni della sua vita, il M. individua con sicurezza la causa fondamentale del processo morboso nei calcoli mediante una serie di osservazioni: l’ematuria del 1555; le urine che dal 1558 si presentavano «torbide qual siero di latte e qual mosto d’uva bianca», rivelando all’analisi la presenza di sabbie e frammenti litici; la difficoltà della minzione, con lievi dolori e bruciore; l’attacco del 1564, che indusse il paziente a scriversi l’epitaffio funebre; l’emissione, nell’urina, di un «lapillum ciceris magnitudine» (1569); il circolo morboso causato dal catarro del 1570. In particolare il M. descrive i risultati dell’autopsia: dalla vescica si trassero «tre pietre di mezz’oncia l’una», lisce, ovoidali, dure e nerastre; il M. inoltre considerava sicura la condizione di assoluta, verginale castità del papa, congiuntamente verificata da medici, chirurghi e confessori, onde escludeva l’ipotesi di un’infezione del rene o della vescica contratta per via di rapporti sessuali.
La relazione, unica opera nota del M. a eccezione della citata orazione del 1561, bastò a procurargli i favorevoli giudizi dei posteri, con lodi per la chiarezza e precisione scientifica; Mandosio concludeva perciò che il M. «huius beati pontificis perdigne medicum fuisse» (p. 123).
In seguito il M. lasciò quasi sicuramente Roma, ma si ignora il luogo in cui si stabilì per il resto della sua esistenza e dove e quando morì.
Fonti e Bibl.: P. Mandosio, Theatron in quo maximorum Christiani Orbis pontificum archiatros…, Romae 1696, pp. 10, 123; G. Marini, Degli archiatri pontifici, Roma 1784, I, pp. 441-443; II, pp. 318-322; G.G. Bonino, Biografia medica piemontese, I, Torino 1824, pp. 321 s.; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medioevo, VIII, Roma 1924, p. 584; L. Gualino, Storia medica dei romani pontefici, Torino 1934, pp. 392 s., 416 s., 420, 424 s., 431-433; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-ecclesiastica, XLIV, p. 133.