GIOVANNI Galbaio
Di G., doge di Venezia a partire dal 797, non si hanno che poche e incerte notizie, a cominciare dal "cognome" che, per la sua scarsa attendibilità, la storiografia ha solo in qualche caso adottato e sempre con grande cautela. Appartenente a una delle maggiori consorterie familiari, era figlio di Maurizio (I), doge dal 764, e dovette nascere intorno alla metà del secolo VIII.
Il padre è designato dalle fonti sia come consul et imperialis dux Venetiarum provinciae - titolo che nel suo impianto orientale palesa ancora una certa deferenza verso il trono di Bisanzio -, sia come dux Venetiarum, facendo risaltare il consolidamento tutto locale del dux venetico, che all'indipendenza politica univa altresì l'ereditarietà del titolo e del potere ducali (Epistolae Merowingici, n. 19 p. 713; Le Liber pont., p. 491; Gloria, n. 7 p. 12, a. 829; Iohannes Diaconus, pp. 98 s.).
Le vicende biografiche di G. sono strettamente legate agli avvenimenti che caratterizzarono il dogato del padre, il quale, nel corso del suo governo, aveva dovuto affrontare una precaria situazione politica quando, intorno al 770, il re longobardo Desiderio intraprese quella che doveva risultare una delle sue ultime e fortunate campagne militari espansive, ai danni dell'Istria. In tale occasione Maurizio, in controtendenza rispetto ai suoi predecessori politicamente orientati in senso antibizantino, si era opposto militarmente alla spedizione longobarda, opposizione che portò alla cattura di G. e alla sua prigionia in campo longobardo, negli anni 772-773.
La caduta del regno di Desiderio e Adelchi nella tarda primavera del 774 a opera di Carlo Magno e la transizione dei poteri ai Franchi in Italia settentrionale non avevano migliorato la situazione di disagio politico dogale per l'insidiosa alleanza fra la dinamica potenza franca e il Papato che restringeva lo spazio di manovra politica del doge, timoroso di un assorbimento del dominio venetico nel Regno italico, mentre le sue funzioni di rappresentanza del potere imperiale bizantino, pur mantenute, si andavano ormai appannando, ridimensionate da una sempre più forte autonomia sostenuta da un altrettanto forte senso di coscienza e di sovranità "nazionali". Nuovi timori giungevano, inoltre, per il dux Venetiarum dalla delicata questione della diocesi olivolense. Tale diocesi, suffraganea di quella gradense e fortemente voluta da Maurizio, che probabilmente tra 774 e 776 impose quale primo vescovo il chierico Obeliebato (Iohannes Diaconus, pp. 98 s.) divenne motivo, col tempo, di aspri contrasti tra le autorità dogali e il patriarca di Grado, Giovanni.
In quello stesso periodo, tra il 778 e il 779, sotto il governo di Maurizio l'incarico ducale, quantunque ancora non solidissimo, si rafforzò nella soluzione dinastica cui si aggiunse, non senza il consenso della popolazione, la coreggenza, un istituto politico ispirato a modelli già bizantini, che vide l'affiancamento al potere paterno di G., che era stato liberato dalla prigionia in data a noi non nota.
Il tono della disputa tra doge e patriarca era destinato a farsi ancora più acceso sul finire degli anni Ottanta, quando venne portata a termine l'occupazione franca dell'Istria. Si trattava di un grave smacco per Maurizio, il cui dominio territoriale a quel punto era ormai quasi completamente accerchiato dai Carolingi; per contro il patriarca Giovanni - che pure, inizialmente, si era trovato in difficoltà per le ingenti perdite subite dal patrimonio fondiario episcopale a causa delle conquiste franche in Istria - aveva repentinamente mutato orientamento politico, schierandosi apertamente con i Franchi e con il Papato, sempre più impegnato a sostenere l'espansione carolingia.
Tra il doge Maurizio e il patriarca la situazione si fece più tesa specialmente dal 795 quando, alla morte del vescovo Obeliebato, fu destinato a succedergli un altro protetto dogale, Cristoforo, "nacione grecus" (Dandolo, p. 124). Un vescovo "greco", quindi filorientale, e con il supporto eminentemente politico dell'autorità ducale venetica non poteva che essere inviso a Giovanni, ancora patriarca di Grado, che non lo riconobbe nell'incarico.
Poco tempo dopo, nel 797, alla morte del padre, G. assunse pienamente il potere: le fonti cronachistiche divergono sulla questione della cronologia del dogato di G., ma la più recente storiografia, da Cessi ad Arnaldi, da Ortalli a Castagnetti, individuando nella cronaca del Dandolo un computo errato degli anni di governo di G. a decorrere dalla sua associazione al potere a fianco del padre, ha dato invece credito a quanto narrato da Giovanni Diacono. G., adottando le procedure seguite dal padre, provvide ad associare a sé - nel diciottesimo anno del suo dogato (a decorrere dall'associazione al potere) - il figlio ed erede Maurizio (II) evitando, tuttavia, di sottoporre questa sua decisione al consenso popolare.
Le fonti, rivelandosi assai sensibili e severe, non mancano di rilevare in questo episodio un'evoluzione in senso autoritario del tipo di governo attuato da G.: nella cronaca di Giovanni Diacono (p. 99) e in quella di Andrea Dandolo (p. 124) i sia pur concisi riferimenti all'unilaterale imposizione di Maurizio (II) quale coreggente stigmatizzano negativamente il comportamento di Giovanni Galbaio. Un'ulteriore prova dell'ostilità nei confronti sia dell'arbitrario operato di G., sia propriamente della figura e delle azioni dell'erede designato, Maurizio (II), si riscontra nelle tradizioni storiografiche e politiche successive che, deplorandola, considerarono non valida la nomina del figlio di G., il cui nome non si trova in nessuna cronologia o catalogo ducale.
Il quadro politico si fece ancor più drammatico all'aprirsi del secolo IX, con il peggioramento della mai sopita crisi locale tra le autorità dogali e il presule gradense, crisi che rifletteva la precaria situazione politica del momento, sia per l'ardita, vittoriosa, espansione carolingia, culminata da poco con l'incoronazione imperiale di Carlo Magno a opera di papa Leone III, sia a causa dell'alleanza, gravida di conseguenze per l'intero Occidente, tra Papato e Franchi sia, infine, per la difficile posizione cui era pervenuta un'area di confine come quella retta da G., la cui politica non solo era pericolosamente anticarolingia, ma era anche decisamente avversa a quella del Papato e di orgogliosa - quantunque deferente - autonomia dall'Impero d'Oriente.
La tensione tra G. e il patriarca di Grado, Giovanni, raggiunse l'acme nell'802, quando il doge ordinò a suo figlio Maurizio di porsi al comando di una flotta e di condurre una spedizione punitiva - perché di questo realmente si trattava - nei confronti del prelato gradense. Grado fu invasa e devastata, e il patriarca, una volta catturato, fu eliminato subitamente e senza alcuna esitazione: lo si fece precipitare, sembra, da una non meglio precisata "altissima turre", sita forse nel castrum ove risiedeva allora il patriarca gradense (Dandolo, p. 126).
La clamorosa azione progettata da G. e posta in essere da Maurizio, oltre a provocare notevolissimi danni all'autorità e all'immagine dogali, rivelò le incertezze di fondo e la debolezza della politica interna ed estera venetica e fu la causa di una serie di contraccolpi e di sconvolgimenti ai vertici della società veneziana. Al defunto patriarca succedeva, pochi mesi dopo, Fortunato, un suo parente - forse suo nipote - deciso non solo a perseverare nella politica filofranca del suo predecessore, ma anche a organizzare e dirigere una fazione antidogale cui aderirono ben presto anche taluni esponenti del patriziato veneziano avversi a Giovanni. Nell'estate dell'803 Fortunato ricevette da Carlo Magno, oltre alla conferma del possesso di alcuni beni, diverse immunità e non pochi privilegi, a dimostrazione del favore dell'imperatore verso la sede gradense. In quello stesso anno G. e Maurizio, spaventati delle possibili e incalcolabili conseguenze del loro gesto, e nell'impossibilità di fronteggiare il pesante clima di aperta ostilità creato nei loro confronti dal patriarca Fortunato - sostenuto dall'imperatore carolingio -, abbandonata la sede e l'incarico si rifugiarono, o meglio, come è parso ragionevole pensare a certa storiografia, furono condotti - in considerazione delle destinazioni a noi note - in pieno territorio nemico: G. forse a Mantova, nel Regno italico, Maurizio in una località imprecisata della "Francia" (Iohannes Diaconus, p. 101). Non mancano teorie secondo le quali G. e suo figlio avrebbero optato, sia pure con rassegnazione ma certo con maggior serenità, per l'esilio, conducendo poi un'esistenza da "cittadini privati" (Cessi, 1963, I, p. 136).
Di entrambi, nelle fonti, dal momento della loro caduta si perdono le tracce. In data incerta, ma collocabile tra la fine dell'803 e i primi dell'804, fece infine ingresso il nuovo doge di Venezia, eletto dagli oppositori di G., il tribuno Obelerio di Malamocco, che associò a sé il fratello Beato.
Fonti e Bibl.: A. Dandolo, Chronica per extensum descripta aa. 460-1280 d.C., a cura di E. Pastorello, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XII, 1, pp. 123 s., 126 s.; Epistolae Merowingici et Karolini aevi, I, a cura di W. Gundlach, in Mon. Germ. Hist., Epist., III, 1, Berolini 1892, n. 19 p. 713; Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l'undicesimo, a cura di A. Gloria, Padova 1877, n. 7 p. 12; Iohannes Diaconus, Chronicon Venetum, in Cronache veneziane antichissime, I, Secc. X-XI, a cura di G. Monticolo, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], IX, Roma 1890, pp. 98-101; Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chron. Altinate et Chron. Gradense), a cura di R. Cessi, ibid., LXXVIII, ibid. 1933, pp. 100, 132, 192; P.F. Kehr, Italia pontificia, VII, 2, Berolini 1925, p. 127; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955, p. 491; R. Cessi, Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, I, Secoli V-IX, Padova 1991, n. 37 p. 56, n. 38 p. 58, n. 53 p. 95; L.M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, III, Gotha 1908, pp. 58 s.; C.G. Mor, L'età feudale, II, Milano 1952, p. 189; R. Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, pp. 119, 131-133, 136; F. Manacorda, Ricerche sugli inizii della dominazione dei Carolingi in Italia, Roma 1968, p. 84; A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 231, 233, 345; A. Castagnetti, La società veneziana nel Medioevo, I, Dai tribuni ai giudici, Verona 1992, pp. 61 s.; M. Pavan - G. Arnaldi, Le origini dell'identità lagunare, in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, Roma 1992, pp. 441-443, 446, 450; A. Castagnetti, Famiglie e affermazione politica, ibid., pp. 614 s.; G. Ortalli, Il Ducato e la "civitas Rivoalti": tra Carolingi, Bizantini e Sassoni, ibid., pp. 725-729, 737; Id., Il dinamismo politico, ibid., p. 750; D. Rando, Una Chiesa di frontiera. Le istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli VI-XII, Bologna 1994, p. 45; G. Fedalto, Aquileia. Una Chiesa due patriarcati, Roma 1999, pp. 195-197; Enc. Italiana, XVI, p. 264.